« E ora sapete ciò che impedisce la manifestazione dell’Anticristo, che avverrà nella sua ora. Il mistero d'iniquità [l’Anticristo] è già in atto, ma è necessario sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene » (Seconda Tessalonicesi, 2,6-7).
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1. CONSIDERAZIONI FILOSOFICHE UNO SCRITTO TEOLOGICO.
2. SULLA TONALITÀ GENERALE DELLO SCRITTO.
3. SUL PARTICOLARE E SPECIFICO PLURALE MAIESTATIS PAPALE.
4. NATURA EXTRAGIURIDICA, ANZI: FORTEMENTE AMOREVOLE,
DEL LINGUAGGIO ASSEVERATIVO E GIURIDICO DELLA CHIESA.
5. ASIMMETRIA TEOLOGICA TRA LA SCELTA DI PAPA SAN DAMASO
– UTILIZZARE IL PLURALE MAIESTATIS – E LA SCELTA
DI PAPA GIOVANNI PAOLO I – ABBANDONARLO –.
6. IL LINGUAGGIO DELLA LUMEN FIDEI,
FRUTTO RATZINGERIANO DEL MUTAMENTO DI LINGUAGGIO
AVVENUTO COL VATICANO II.
7. LA VERA, MA EQUIVOCA, E MAI CONSIDERATA ERMENEUTICA,
IN CUI VA INQUADRATO IL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II.
8. LA VERITÀ NON SI IMPONE CON VIOLENZA SULLA COSCIENZA.
MA LA COSCIENZA HA L’OBBLIGO – E LA LIBERTÀ – DI OBBEDIRLE.
9. I QUATTRO PUNTI CHE DIRIMONO LA QUESTIONE DECISIVA
E CENTRALE DEL RAPPORTO TRA VERITÀ E LIBERTÀ.
10. ANCHE TUTTO IL NUOVO TESTAMENTO CONFERMA
IL CARATTERE IMPERATIVO DELLA VERITÀ SULL’UOMO
E QUELLO OBBEDIENZIALE DELL’UOMO VERSO LA VERITÀ.
11. L’ERRORE È COSTITUIRE IL VANGELO (O LA FEDE) COME
‘INCONTRO CON UNA PERSONA’ E NON COME ‘VERITÀ’,
COSÌ DA NASCONDERE LA SUA ASIMMETRIA CON L’UOMO.
12. L’ARGILLA DEL SENTIMENTO POSTO DALLA “TEOLOGIA
DELL’INCONTRO” SOSTITUISCE IL BASALTO DEL GIUDIZIO
POSTO DALLA “TEOLOGIA DELL’ANNUNCIO”.
13. STORIA DI ‘DOGMA’, IL CANE PASTORE
LASCIATO MORIRE DAL PROPRIO PADRONE.
14. LA TEOLOGIA DEI CANTI E DELLE CETRE,
DELL’AMORE E DEL DILETTO.
15. L’INDIPENDENZA DELL’UOMO. QUESTO È IL PUNTO
CHE LA NUOVA “TEOLOGIA DELL’INCONTRO” UTILIZZATA
DALL’ENCICLICA LUMEN FIDEI PERMETTE DI NON TOCCARE.
16. FALSITÀ E GIUSTEZZA DELL’ESPRESSIONE CHE DICE:
“LA VERITÀ SI IMPONE IN FORZA DELLA STESSA VERITÀ”.
17. LEX MINUS CREDENDI, LEX MINUS ORANDI.
LA CHIESA, COSTRETTA DA CINQUANT’ANNI A FARE
MENO VERITÀ, MENO BELLEZZA, MENO ADORAZIONE.
18. PRIMA CONCLUSIONE: LA LUMEN FIDEI, DEDOGMATIZZANDO
E DISLOCANDO TEOLOGIE DI PER SÉ VERE, DIMEZZA LA MISURA
DI VERITÀ E D’AMORE CHE DOVREBBE ELARGIRE AI FEDELI.
19. SECONDA CONCLUSIONE: CON LA LUMEN FIDEI LE CATENE
CHE TRATTENGONO L’ANTICRISTO SONO SEMPRE PIÙ SCIOLTE,
MA LA CHIESA HA L’OBBLIGO DI RINSERRARLE, ANCHE SE COSÌ
ALLONTANA LA SUA VENUTA, E, CON ESSA, LA PROPRIA VITTORIA.
20. POST SCRIPTUM. LE DUE FUNZIONI DI VERITÀ – E QUELLA,
CONTRARIA, DI FALSIFICAZIONE – DEL KATÉCHON NEGLI
“ULTIMI TEMPI”, CIOÈ NEI NOSTRI DEL “DOPO CRISTO”.
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REFERENZE BIBLIOGRAFICHE DELL’ARTICOLO.
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1. CONSIDERAZIONI FILOSOFICHE A UNO SCRITTO TEOLOGICO.
Quanti saranno, del più di un miliardo e duecento milioni di fedeli, coloro che si impegneranno a leggere i 4 capitoli, ossia i 59 paragrafi (con Introduzione e Conclusione), della prima Lettera enciclica di Papa Jorge Mario Bergoglio-Francesco? Quanti coloro che riusciranno a portare a termine il più che oneroso impegno almeno una volta?
Quanti, infine, coloro cui sarà dato persino di cogliere il motivo – non scritto – dello Scritto? Infatti: perché mai ben due Papi hanno impegnato in qualche modo il loro nome su una Enciclica intorno a un tema importante come la Fede, che però, come si vedrà, parrebbe preferire non prendere di petto tutti i problemi che investono oggi in ogni dove la Fede, tralasciando forse proprio quelli che più dovrebbero premere?
Qui, usufruendo di strumentazioni puramente filosofiche, come p. es. il principio di non-contraddizione, o la precedenza del Logos sull’amore – della conoscenza sull’atto –, o il nesso tra libertà e intelletto, se ne farà una lettura critica, rilevando che le teologie sottese e la forma stessa in cui si muove lo Scritto in primo luogo non sembra riescano a rimanere all’altezza delle verità che si vorrebbero proporre, né della carità che si vorrebbe far irrompere da quelle sublimi fonti; in secondo possano invece, proprio per via della pesante disattesa operata su decisive categorie filosofiche prima che teologiche, mettere a repentaglio l’essenza stessa della Chiesa, nel tentativo (la cui attuazione è comunque impossibile) di dissolvere la sua forma, la sua essenza.
Il presente scritto non vuole in alcun modo mancare di rispetto ai Pastori della Chiesa, ma va detto che gli atti, le nozioni e gli argomenti discussi parrebbero talmente contrari a quel che si ritiene – forse a torto, ma forse no – il corretto sentire cattolico, che ogni tanto si incontrerà qualche espressione che potrebbe sembrare, forse, un po’ più carica di severità del dovuto. Ebbene, esse sono da prendere solo come argomentativamente critiche alla teorica discussa, mai dei Pastori che l’hanno promossa, specie se sommi, ai quali va ogni più rispettoso ossequio fintanto essi siano ritenuti coerenti con le esigenze evangeliche. Ma se gli argomenti qui portati dovessero evidenziare un saltus tra le dottrine da loro insegnate o anche solo appoggiate e i capisaldi evangelici, ritengo non si possa palesare il proprio giudizio critico anche nei loro confronti senza con ciò mancare loro di rispetto, in forza del comune e più alto rispetto per la verità.
Con queste Considerazioni, dunque, si desidera far notare che chi vede una certa correlazione tra la dedogmatizzazione in atto da cinquant’anni nella Chiesa (segnalata anche da mons. Antonio Livi nel suo Vera e falsa teologia, LIVI 2012, p. 231, e disgraziatamente riscontrabile anche nel Documento in esame) e una certa qual voluta e calibrata perdita di forza incatenante del biblico « mistero d’iniquità », forse non ha del tutto torto: approfittando dell’improvviso interesse suscitato intorno ai pericoli della Grande Apostasia degli “Ultimi Tempi” da un recente lavoro a matrice gnostica (v., nella bibliografia in calce al presente articolo, CACCIARI 2013, ovvero Il potere che frena, naturalmente Adelphi), alla Seconda Conclusione del presente lavoro si vedrà cosa parrebbe più cristiano: favorire, o invece trattenere l’Anticristo? Gli gnostici come Cacciari sarebbero per la prima ipotesi. Qui si perorerà con ogni forza argomentativa la seconda.
2. SULLA TONALITÀ GENERALE DELLO SCRITTO.
Si attendeva da tempo che l’augusto predecessore di Papa Bergoglio, il “Papa teologo” Benedetto XVI-Joseph Ratzinger, portasse a termine la prevista trilogia del suo magistero ordinario universale, annunciata, se pur non ufficialmente, dalla pubblicazione, il 30 novembre 2007, della sua seconda Enciclica, incentrata sulla virtù della speranza, Spe salvi (“Salvati nella speranza”), e, il 29 giugno 2009, della sua terza sulla virtù di carità, Caritas in veritate (“La Carità nella Verità”).
Come si sa, con l’inattesa, singolare, drammatica abdicazione del 28 febbraio 2013, il “Papa teologo” ha interrotto il suo magistero papale.
Gli è subentrato Papa Francesco. Ma il trittico ratzingeriano è stato egualmente completato, perché il nuovo Papa ha voluto far proprie le pagine abbozzate dal predecessore, ormai costituenti non solo un’ossatura, ma il corpus vero e proprio, ben rifinito e studiato, del dotto lavoro, limitandosi ad aggiungere, a suo stesso dire (v. LF 7), solo alcune espressioni accidentali di precisazione o di conclusione, ossia firmando una riflessione sostanzialmente non sua (come si vede anche dallo stile del testo), ma che, nella sua qualità di Sommo Pontefice subentrante, poteva in tutta serenità e nella più piena legalità formale e sostanziale fare propria, siglare e ratificare cioè nel proprio ruolo altissimo di soggetto unico e incomunicabile di sommo Dottore della Chiesa universale.
Da un certo punto di vista, che al termine di un’Enciclica che si sa concepita e scritta da “Benedictus XVI” si debba leggere “Franciscus”, parrebbe persino un fatto teologicamente stimabile, dottrinalmente apprezzabile, perché rileva quanto sia significativa, su ogni contingente differenza, la continuità del ruolo papale sottesa tra due nomi, tra due uomini, in fin dei conti tra due vite del tutto accidentali e perimenti, dunque quanto sia superiore il compito del magistero supremo ai casuali strumenti umani chiamati a svolgerlo.
Questo fatto – della redazione quasi “a quattro mani”, se pur cronograficamente sfasata – avrebbe potuto essere una buona scusa per riprendere, nello scritto, il petrino plurale maiestatis, abbandonato per la prima volta da Papa Giovanni Paolo I, che in occasione della sua elezione si rivolse ai fedeli in prima persona singolare. La cosa non è un semplice artificio retorico, ma uno di quei molteplici, utili e vivi strumenti per ricordare, anche con segni minimi, realtà massime; per esempio l’autorità somma da cui discende lo scritto.
3. SUL PARTICOLARE E SPECIFICO PLURALE MAIESTATIS.
Il plurale maiestatis, va ricordato, è quella figura retorica introdotta nella prassi del governo ecclesiastico nel IV secolo da quell’accorto Pastore che fu Papa san Damaso I (366-84), attraverso la quale un Sommo Pontefice ricorda (a se stesso, oltre che all’universo di fedeli cui si rivolge) che la propria locuzione di Dottore della Chiesa universale non germina unicamente dal proprio cuore, ma lo fa in unione intenzionale con il Dottore e Maestro soprannaturale della Chiesa, il Signore nostro Gesù Cristo, di cui è per sua grazia Vicario, così da dover necessariamente pronunciare un “Noi” che raccoglie misticamente, cioè realmente pur se non fisicamente, due Io: l’Io proprio e l’Io di Cristo, cioè di Dio.
Non solo: ma, rappresentando ed essendo la propria vicarietà in continuità temporale ininterrotta, tale da garantire la continuità di insegnamento veritativo come fosse un solo e unico insegnamento malgrado la sua estensione nei secoli e nei millenni, la sua locuzione ha per soggetto un “Noi” che raccoglie, oltre l’Io di Cristo e l’Io proprio, anche gli “Io” di tutti i Papi che quel singolo Io hanno preceduto e seguiranno, così da raccogliere la somma Autorità dei cento e cento Papi in un solo “Noi” puntiforme, che fa e che dà unità di voce all’universo intero in unione al suo Creatore.
In altri termini, quella piccola parola “Noi” del plurale maiestatis, così come pensato dalla Chiesa, non solo raccoglie il magistero di secoli e millenni in un singolo e minimo vocabolo, che è già molto, ma, nella semantica leggibile in quel minimo lemma, unisce tali secoli e millenni all’eternità, e questo è il soprannaturale “tutto” che va sottolineato nel “Noi”.
Il plurale maiestatico papale si distanzia dunque essenzialmente da ogni altro plurale della retorica, quali il plurale didattico, il plurale narrativo, il plurale impersonale eccetera, tutte figure necessitate da fini pratici e umani, al contrario della nostra, mossa da obiettivi sostanziali e soprannaturali: legare la parola umana alla divina; o meglio: ricordare che una certa parola umana – quella di un Papa – è a volte, in qualche modo tutto mistico, particolarmente legata alla parola divina.
Il pregio dell’uso del plurale maiestatis papale, come si può intuire, è infondere al documento che ne origina un’autorevolezza altrimenti impossibile, come visto, e, in secondo, una altrettanto impossibile – peraltro ancora ben intuibile – oggettività: tanto come l’“Io” afferma la soggettività di un pensiero, il “Noi”, allargando il soggetto come qui si è visto, e coinvolgendo in esso persino Dio, afferma la più fredda e distante oggettività, con ciò portando la più forte garanzia di verità, necessaria a convincere i cuori dell’immensa intenzione di bene, e di bene sicuro, che si ha nei loro confronti.
4. NATURA EXTRAGIURIDICA, ANZI: FORTEMENTE AMOREVOLE,
DEL LINGUAGGIO ASSEVERATIVO E GIURIDICO DELLA CHIESA.
Perché questo è il paradosso da scoprire in ciò che si sta dicendo intorno al “Noi” e alla sua carica formale di autorità e di oggettività: che, dietro l’apparenza glaciale, cool, si direbbe oggi, distaccata e “terribile”, di un pronome tanto potente da rappresentare persino, nel suo piccolo sé, il Padre soprannaturale di ogni verità, si cela un sentimento che più caldo, più tenero, più palpitante non si può, essendo esso il più accorato amore, la più vibrante e sentita preoccupazione, di dare le più ampie garanzie ai propri fedeli, alle proprie pecorelle, che tutto ciò che discende da quel “Noi” è sicuro, è vero, è buono, è garantito, perché è affermato all’unisono, in consonanza, in armonia, col Padre stesso della Verità.
Non si dirà e non si ribadirà mai abbastanza che il discorso formale, nella Chiesa, più riveste le forme giuridiche, algide e legali, più in realtà si arroventa d’amore, perché il linguaggio della Chiesa ha più di ogni altro l’incombenza di garantire che ciò che si sta dicendo è la pura verità, è tutta la verità ed è solo la verità, e tale estrema garanzia la Chiesa può darla solo cucendo la propria parola nella veste più asseverativa, ferma e rigorosa offerta dal linguaggio.
Sul plurale maiestatis ci sarebbero ancora molte altre cose da dire, ma qui si vuole solo evidenziare che la sua assenza infirma notevolmente il tono generale di una Lettera enciclica, privandola ab origine, almeno sul piano della percezione, di un requisito che parrebbe peraltro utile, se non sostanziale, al magistero papale, allorché esso voglia porsi su un livello significativo, non ordinario, per quanto esso voglia stendersi unicamente su un piano pastorale, dunque non vincolante, non irreformabile, non infallibile, ma solo sollecitativo e suggestivo di sante e universali indicazioni.
Si consideri una qualsiasi delle Lettere encicliche papali fino a Paolo VI compreso (la sua Humanæ vitæ è ancora in plurale maiestatis, non lo è invece già nessuna di quelle scritte da Giovanni Paolo II). Si prenda per esempio la Mystici Corporis, firmata da Pio XII, pubblicata il 29 giugno 1943. Anche sotto questo punto di vista, essa è davvero esemplare, giacché dalla sua lettura si percepisce subito, fin dalle prime parole, quanto la firma al plurale abbia influenzato e direi determinato tutto il suo costrutto: vi si respira immediatamente una serietà d’intenti, un rigore – religioso prima che intellettuale –, una determinazione alla verità e al realismo, infine una schiettezza pastorale, che infondono nel lettore la consapevolezza di star cogliendo, di toccare quasi con mano, nelle preziose parole da lì salenti, qualcosa di importante, di molto importante, di vitale, di risolutivo proprio per lui.
Il “Noi”, si scopre, quel Noi lì, dice presto al lettore – certo, unitamente ad altri strumenti linguistici particolarmente presenti nella forma asseverativa del linguaggio germinante da quella peculiare fonte data dal plurale maiestatis papale – che i concetti espressi che si stanno via via cogliendo sono una realtà da prendere molto sul serio, sono una realtà determinante, decisiva. E infatti, più in là, il lettore si accorgerà che l’augusto Autore getta sulla bilancia del giudizio, oltre che luminose e semplici somme verità, anche l’indicazione di altrettanti, ben individuati e pericolosissimi errori.
Ma se tutto questo è vero, se tutto questo ha quella rispondenza con la realtà che giustamente ci si aspetta allorché si parla al tempo presente di fatti angolari, “pesanti”, netti, ciò vuol dire che questo famoso “Noi” dovrebbe essere definito, oltre che plurale maiestatis, anche plurale caritatis, plurale amoris, ovvero plurale determinato dalla e finalizzato alla carità.
Perché è la carità il nerbo essenziale, il cuore del linguaggio asseverativo, come d’altronde sanno bene tutti i portatori sani di amore: i padri e le madri, per esempio, che insegnano con infinita attenzione i rudimenti della vita ai loro figlioletti, e gli innamorati, che al dunque, al di là di ogni linguaggio poetico, al di là di ogni segnale fascinoso più o meno portatore di simboli amorosi trasversali e di leggiadre figure evocative, chiuso il proscenio delle danze, delle musiche e dei canti, possono comunicarsi qualcosa di certo e di definitivo sul loro amore solo se si dicono, molto semplicemente e senza mezzi termini: “Io ti amo”: se non usano questa formula basica e asseverativa non avranno mai nel cuore la certezza del loro sentimento, che è la prima, fondamentale e decisiva cosa da sapere intorno al loro legame.
Certo, se non vogliono comunicarla, questa certezza, è un altro discorso. Ma se lo vogliono, se vogliono vicendevolmente essere sicuri del loro amore, altro linguaggio, più sicuro, deciso e indubitabile di questo, non c’è. Ecco perché dico (si veda il mio Il domani – terribile o radioso – del dogma, RADAELLI 2013, pp. 113-7) che il linguaggio asseverativo, “dogmatico”, del presente indicativo e dalle affermazioni inequivocabili, è il linguaggio per eccellenza dell’amore, tanto che il Profeta esclama: « Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità: la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore » (Ger 15,16), perché è una parola che annuncia l’evento, e la gioia che circonda un evento può essere descritta solo da parole.
Come si può notare, è sufficiente la lettura “linguistica” di una Enciclica per entrarvi e carpirne tutta la sostanza.
5. ASIMMETRIA TEOLOGICA TRA LA SCELTA
DI PAPA SAN DAMASO – UTILIZZARE IL PLURALE MAIESTATIS –
E LA SCELTA DI PAPA GIOVANNI PAOLO I – ABBANDONARLO –.
La scelta di suggellare con firma singolare invece che plurale i propri atti di magistero e di governo, stante le considerazioni fatte sulla semantica del plurale maiestatis in uso presso tutti i Sommi Pontefici dal IV secolo al XX, in calce a quei loro documenti e atti di magistero di particolare valore, come certamente sono le Lettere encicliche (gr. enkyklos, “in giro”, “in circolo”, cioè universali), uso che si era presto esteso anche agli atti di magistero privato e persino agli atti personali, è scelta che offre forti e ragionevoli motivi di perplessità sia sulla certezza veritativa del contenuto del magistero così semplicemente, così “umanamente” suggellato, sia sulla reale portata di amore di dedizione, ossia di caritas, instillata da quei Pontefici in quei loro documenti: saranno o non saranno essi ancora ripieni di quella sostanza veritativa soprannaturale invece tanto più chiaramente e quasi arditamente esposta, quasi a “metterci la faccia” dell’Altissima e Divinissima Trinità, dal pronome di prima persona plurale formulato con il “Noi”? e se tale scelta, al contrario, come sostengono i suoi fautori, non infirma in alcun modo e neanche di uno iota tale certezza veritativa, perché mai il magistero bimillenario di Santa Romana Chiesa per secoli ritenne bene adottare tale costume, includendo in esso non solo gli atti di magistero, ma la persona stessa del Papa, tutto ciò motivando, appunto, con gli argomenti riportati?
C’è da considerare, infatti, che, teologicamente parlando, la decisione presa nel IV secolo da Papa san Damaso – adottare il plurale maiestatis – non è affatto simmetrica a quella del tutto opposta presa nel XX da Papa Giovanni Paolo I, poi mantenuta e avvalorata dai Papi successivi – abbandonare il plurale maiestatis –: la prima, infatti, non faceva altro che esplicitare un concetto fondante del magistero – la “Logoscrazia” che regna sulla storia di cui parlo in RADAELLI 2008 –, per il quale, esprimendosi esso, in specifiche situazioni, a nome (orizzontalmente) dell’universalità dottorale della Chiesa – ossia di tutti i vescovi, che quel Papa però chiamava “figli”, non “fratelli” – e parlando (verticalmente) a nome di Dio, l’Io di quell’uomo eletto Vicario di Cristo, chiunque fosse, nella successione Apostolica petrina veniva a trovarsi in quell’intima relazione con l’Io collettivo della Chiesa e con l’Io divino, tale da poter essere espressa solo da un “Noi” anche in quei pochi secoli in cui – appunto dal I al IV – fu di fatto espressa da un “Io”: nel quale “Io” il “Noi” era già però, se così si può dire, “chiaramente implicito”.
La seconda decisione invece, che rigettava il “Noi” e riprendeva l’uso dell’“Io” singolare, con ciò stornava proprio quel concetto di unione mistica (che non vuol dire irreale, ma, per quanto unione sommamente reale, vuol dire, per il carattere soprannaturale di uno dei due componenti, unione “misterica”), di legame ideale e intenzionale (sia orizzontale che verticale), sì da ridurre, rattrappire il soggetto parlante alla singola persona di quel Papa lì, slegandola e rendendola avulsa dal contesto umano e divino che abbiamo detto dovrebbe sempre circondarla e che dovrebbe appunto parlare per mezzo suo, così svuotando la Logoscrazia di se stessa.
Dunque la decisione presa da Papa san Damaso dopo il 366 (anno della sua elezione), non faceva altro che raccogliere ed esplicitare la consapevolezza, la coscienza della realtà divina delle cose, realtà divina fino ad allora comunque presente egualmente alla mente di tutti, fossero stati san Pietro o il più umile dei fedeli, ma non ancora espressa apertis verbis, non ancora manifestata con la bocca in ciò che era nel cuore; è adombrato qui il classico principio di Lérins, che dà a una dottrina un valore di credibilità magisteriale vicino al dogma: « Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est », “[Noi crediamo solo a] ciò che sempre, in ogni luogo e da tutti è stato creduto”: prima implicitamente, ora esplicitamente. La decisione di Papa Giovanni Paolo I e successori invece, proprio per la sua natura negativa, per la sua natura autoprivativa, non può più essere letta come implicante quella realtà divina ora tralasciata, ma come un suo chiaro rigetto, forse persino come una sua silente smentita.
Con ciò non si vuol dire che questa fosse l’intenzione di chi fece quella scelta, giacché i motivi potrebbero essere anche altri, per esempio la ricerca di una certa semplicità, o di una qualche umiltà di esposizione, tale da togliersi di dosso, in qualche modo, quelli che si vollero ritenere, se pur inopinatamente, paludamenti inutili – persino dannosi! – alla verità con cui presentare la Chiesa.
Resta il fatto che la scelta fu fatta, e fu fatta e approvata in successione e da uno, e da due, e da tre, e da quattro Pontefici. E se qualcuno ritiene che essa fosse motivata al fondo da motivi non strettamente religiosi, cioè teologici, ma “ideologici”, “di convenienza comportamentale”, come i succitati, resta ben possibile che questo qualcuno avesse ben ragione a crederlo, perché essa va di pari passo con altre scelte analoghe, che si vedranno nel seguito dell’analisi.
Fu una scelta dedogmatizzante? Certo contribuì a smussare l’auctoritas, ad allontanare la potestas del dogma dalla personalitas del Papa: la figura del Papa-dogma iniziava anche con ciò a essere scalfita, e il ferreo, cristico, soprannaturale chiavistello veritativo che serra i polsi al Mistero dell’iniquità forse subiva qui una prima significativa (vistosa, ma, in apparenza, teologicamente non davvero rilevante) limatura.
6. IL LINGUAGGIO DELLA LUMEN FIDEI,
FRUTTO RATZINGERIANO DEL MUTAMENTO DI LINGUAGGIO
AVVENUTO COL VATICANO II.
Colpisce ad esempio, per dar seguito a questa sommaria analisi linguistica, l’assenza totale, in una Lettera enciclica particolarmente imperniata sulla virtù della Fede, della parola “dogma”, di un concetto, cioè, ormai bandito dalla Chiesa da tempo: esattamente da cinquant’anni. Nella Humani generis, per esempio (Pio XII, 1943), essa compare sette volte e altre tre in parole derivate; e nella Pascendi Dominici gregis (san Pio X, 1907) diciassette volte, più cinque in derivate.
Del dogma, nella cattolicità – e non solo, come ci si potrebbe aspettare, tra i suoi molti nemici –, si ha ormai oggi un tale ribrezzo, una tale ripulsa, e, da parte dei Pastori che ancora non ne hanno ribrezzo e ripulsa, un tale tremebondo timore di pronunciarne anche solo la parola, che se ne cancella ogni traccia persino in un documento universale dell’ordine di un’Enciclica papale che tratta precipuamente del campo per il quale esso dogma ha senso, e intensivamente senso. Non è paradossale? Dirò di più: non è inaudito?
Ma tutto diviene più comprensibile se ci si porta nella prospettiva formale aperta dal Vaticano II, nella quale si trova, come la pianta nel seme, la scelta – che avverrà di lì a due pontificati – di abbandonare il plurale maiestatis papale: la Gaudet Mater Ecclesia incanala in un nuovo corso magisteriale, che sarà chiamato “pastorale” anche se pastorale non è, la didattica anche degli atti più straordinari, solenni e universali, come sarebbero, di loro, i sedici documenti del Vaticano II di cui quella è il Discorso inaugurale, in tal modo portando però nel magistero un ortogonale mutamento di linguaggio che si rivelerà non solo formale, ma sostanziale, come espongo con dovizia di argomenti nel mio Il domani … del dogma cit. (RADAELLI 2013): sembra che la primissima meta da raggiungere non sia più, per la Chiesa, offrire ai propri fedeli, alle proprie pecorelle, la certezza della verità, ma di limitarsi a dare il suggerimento di essa; non più l’ordine di obbedire alla verità, ma il consiglio.
E questo passo indietro, questo distacco della spina dalla rete energetica della verità, operato con la mano destra, sarebbe dovuto proprio al fattore che maggiormente si sostiene di combattere con tutti i mezzi con la mano sinistra, il relativismo religioso, culturale, teologico e filosofico, perché in realtà non ci sarebbe stato nessun passo indietro, nessuno stacco della spina, se non fosse mai stata accreditata dai novatori nella Chiesa – come si vedrà fra poco – la tesi che la verità non obbliga, che la verità non si impone, che la verità lascia libera la coscienza di seguirla o di non seguirla, essendo la coscienza, secondo questa nuova teologia, il primum cui ogni cosa, verità compresa, sarebbe soggetta.
7. LA VERA, MA EQUIVOCA, E MAI CONSIDERATA ERMENEUTICA,
IN CUI VA INQUADRATO IL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II.
Paradigma di tale tellurico sommovimento è la celebre affermazione, nel Discorso alla Giornata mondiale per la pace, I gennaio 1999, di Papa Giovanni Paolo II: « La libertà religiosa è talmente inviolabile da esigere che alla persona sia riconosciuta la libertà persino di cambiare religione, se la sua coscienza lo domanda ».
L’affermazione suscitò scalpore. Non vi è al mondo chi non vi vide impresso lo stigma di quella tutta nuova concezione della libertà che costituiva uno dei cinque-sei punti cardinali di netta e insanabile divergenza dottrinale tra chi, massimizzando, voleva vedere nel Vaticano II un punto di frattura, detta pure, come lo sarà da Benedetto XVI nell’altrettanto celebre Discorso alla Curia romana del 2005, « ermeneutica della rottura », e chi invece vi voleva vedere, minimizzando, un percorso lineare, o, per stare ai termini di quel Papa, un’« ermeneutica di riforma nella continuità », ossia un cambiamento non traumatico, ma armonico e consequenziale.
Tralasciamo la problematica cui qui si accenna, che chi scrive ritiene comunque di aver chiarito da tempo proponendo, sulla sponda di alcune decisive riflessioni di Romano Amerio, una terza lettura, in cui il Vaticano II risulta essere né momento di rottura, né di continuità, ma, con inaspettato ma ben studiato escamotage del magistero che lo aprì, che lo condusse e che lo concluse, e del successivo magistero che lo radicò nella coscienza religiosa seguente, riesce a essere momento collettore di entrambi (v. RADAELLI 2013, pp. 192-6), e di entrambi si mostrerà infatti ben più realistico (Ibidem, pp. 247-8). In tale terza e ameriana lettura il Vaticano II è momento magisteriale equivoco, o, per dirla con lessico ratzingeriano, è momento magisteriale da interpretare unicamente riscontrandovi una « doppia ermeneutica: e di rottura de facto, e di continuità de voce » (Ibidem, p. 192).
« Rottura de facto» perché linguaggio, dottrine (e, queste, in almeno cinque-sei punti) e conseguente liturgia, sono oggettivamente ben dissimili dai precedenti; « continuità de voce » perché la pur reiteratamente e ostinatamente ribadita continuità non è mai stata dimostrata, non se ne è mai portato un solo argomento scritturistico o di Tradizione.
Utilizzando questa doppia, equivoca ermeneutica, anche affermazioni come quella surriportata di Giovanni Paolo II vanno inserite nel sistema linguistico uscito dal Vaticano II: « La verità non si impone », si dice, e a tale caduta di imposizione va fatto corrispondere un linguaggio magisteriale adeguatamente disobbligante, molle, articolato secondo una tutta nuova piattaforma chiaramente svincolata da ogni anche minimo accenno giuridico-legalistico: la parola della Chiesa, dalla Gaudet Mater in poi, si vuole che sia persuasiva sempre, impositiva mai, come infatti è nella presente Enciclica.
Ma ciò, come si vedrà fra poco, parrebbe a tutti gli effetti una scelta legata in qualche modo al modernismo, e, più ancora, a una certa del tutto particolare, traumatica concezione di katéchon, o catena a satana e al suo Anticristo, infiltratasi nella Chiesa giusto cinquant’anni fa col Vaticano II, e forse sarebbe bene avanzare qualche riserva, tanto più che essa si inserisce in un quadro di intenzionale dedogmatizzazione generale utile solo ad avvalorare l’ipotesi avanzata di “doppia ermeneutica” e a desostanziare la Chiesa dell’elemento che le dà vita, senza però formalizzare la cosa, né dirlo a nessuno.
8. LA VERITÀ NON SI IMPONE CON VIOLENZA SULLA COSCIENZA.
MA LA COSCIENZA HA L’OBBLIGO – E LA LIBERTÀ – DI OBBEDIRLE.
Da notare, peraltro, che, solo per restare nel Nuovo Testamento, i passi in cui è espressamente comandato qualcosa da parte di Gesù Cristo o degli Apostoli sono più di quaranta – non uno o due, ma più di quaranta –, come mostro in Il domani … del dogma cit. (pp. 132-9).
Da notare poi che Cristo si fa chiamare « Signore e Maestro » (Gv 13,13), autoritative condizioni entrambe che esigono decisamente pronta, “cieca” e assoluta obbedienza.
Da notare infine che Dio, nel primo dei dieci comandi mosaici, ordina espressamente: « Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altro Dio all’infuori di me » (Es 20,2-3; Dt 5,6), che è a dire, parafrasando nel lessico di Papa Giovanni Paolo II: « Quella cattolica è la tua religione, è quella cui devi obbedienza. Non cambierai mai religione, neanche se la tua coscienza te lo domanda ».
Con tali ben chiari concetti, Dio non si fa scrupolo di comandare all’uomo di aderire a una verità, e ciò fa proprio all’inizio della sequenza dei dieci comandi – nei quali Dio non si fa scrupolo di ordinare all’uomo di aderire a dieci precise disposizioni veritative – ordinando, in primis, di avere un Dio, in secondo di avere un Dio perfettamente individuato; e non mette affatto tale comando così categorico e irrefutabile sotto la pròtasi ipotetica « Se la tua coscienza te lo domanda »: Egli ordina all’uomo, 1), di avere un Dio, 2), di avere a Dio precisamente e non altri che Lui, 3), che altro Dio la coscienza non deve né avere né ricercare, 4), che tale Dio la coscienza non deve e non può assolutamente rigettare.
Forse che Dio si è spinto troppo in là? Ma ciò che qui si vuole dimostrare, con dimostrazione strettamente filosofica, ossia senza entrare in territori teologici estranei alla problematica, è proprio questo: che Dio ha tutte le possibilità di comandare alla coscienza, senza con ciò togliere alla coscienza la sua libertà, e che ciò deve fare poi anche la Chiesa, utilizzando il linguaggio amoroso del dogma, e si vuole dimostrare che questa prima Lettera enciclica di Papa Francesco, come molte altre precedenti, al di là della densità di qualche buono spunto tematico, di citazioni scritturistiche e di osservazioni dottrinali sulla multiforme relazione che la fede e la verità hanno con l’amore, è del tutto priva di tale linguaggio “dogmatico”, ossia amoroso, e con ciò è del tutto priva della forma sostanziale e amorosa della Chiesa e della Rivelazione, che è la forma dogmatica, alla quale forma la Chiesa ha diritto e la cui rinuncia, anche se non ancora rinuncia formale, diviene per la Chiesa minaccia grave, pericolosa per se stessa, e, ovviamente, pericolosa per tutti gli uomini che essa Chiesa deve portare alla salvezza, ma che, così desostanziata, più non dà la garanzia di lì portare, mancando con ciò essa non solo alla verità, ma pure a quella speranza e a quella carità cui i suoi Pastori parrebbe tanto tengano, ma de facto…
Con tutto ciò, si vuol dire che il linguaggio impositivo e dogmatico dovrebbe tornare a essere serenamente riconosciuto linguaggio primo e conduttore di ogni altro linguaggio della Chiesa, anzi, ancor prima, di quello della Rivelazione, e ciò per un motivo filosofico, come fa notare pure Amerio, giacché l’uomo non ha e non può avere con la verità un rapporto di mero “buon vicinato”, come parrebbe avere nel caso in cui la verità è proposta, ma non mai comandata, ma ha un rapporto di precisa sudditanza, un rapporto tassonomico in cui la verità è al primo posto, è sul trono, e l’uomo al secondo – in sua intellettuale soggezione –, ai piedi del trono.
E questo rapporto tassonomico si presenta tutto al contrario di quello che parrebbe insegnato da Papa Giovanni Paolo II, perché quando qui si dice ‘uomo’ si intende dire ‘la libertà dell’uomo’, e l’espressione completa che si diceva va dunque letta così: “La verità è al primo posto, è sul trono, e la libertà dell’uomo è al secondo”, tanto che il Beato Papa Pio IX condanna (presente indicativo; questo, fino a prova contraria, ossia fino a espressa confutazione, è magistero in atto: forse che il magistero attuale potrebbe smentirlo? lo ha smentito? e, se sì, come parrebbe nel caso dell’affermazione magisteriale rilasciata da Giovanni Paolo II, con quale coscienza? e ancora: con quale potestà? e specialmente: con quali argomenti? può il sacro magistero smentire se stesso?), dunque, dicevo, il Beato Pio IX condanna il liberalismo religioso, nel Syllabus, cioè condanna quell’asserzione modernista che dichiara: « È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera » (XV Proposizione), che è a dire, nei termini traslati in quelli di Papa Giovanni Paolo II, che il Beato Pio IX condanna l’asserzione che verrà peraltro affermata poi da quel suo augusto Successore: « La libertà religiosa è talmente inviolabile da esigere che alla persona sia riconosciuta la libertà persino di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera, se la sua coscienza lo domanda ».
Che l’asserzione di Papa Giovanni Paolo II sia proprio quella medesima condannata dal Beato Papa Pio IX è evidente. Malgrado ciò, e malgrado la forza di magistero del Syllabus, che, almeno per il fatto di essere un documento dottrinale allegato a una Lettera enciclica, è atto di certo superiore a quello di un semplice Discorso, oggi difficilmente si troverà nella Chiesa un solo prelato che difenda quanto asserito con forza giurisdizionale universale da
Pio IX e che si premuri di correggere e di far correggere quanto asserito invece quasi come semplice opinione da Giovanni Paolo II, malgrado – a evidente forza di legge – dovrebbe pur farlo.
9. I QUATTRO PUNTI CHE DIRIMONO LA QUESTIONE DECISIVA
E CENTRALE DEL RAPPORTO TRA VERITÀ E LIBERTÀ.
Per chiarire la cosa, e riscontrare così quanto la presente Enciclica segua un corso fortemente anomalo sia secondo la filosofia, dunque secondo ragione, sia, a fortiori, secondo la religione, dunque secondo dottrina, bisogna ricordare che, come scrive Amerio in Zibaldone, Aforisma 587 (v. AMERIO 2010, p. 353), « è difficile serbare la coerenza quando si dicono cose false [perché] noi siamo fatti per il vero e non per il falso»: l’uomo è fatto per il vero, l’uomo è inclinato alla verità, e se l’uomo distingue la verità dall’errore è proprio in virtù di tale ingenita sua inclinazione alla verità e avversione all’errore.
Dunque cominciamo col dire, in primo luogo, che tra uomo e verità non c’è neutralità, non c’è una non-relazione, come di due enti che vanno ciascuno per la sua strada, o girovagano a caso incontrandosi o non incontrandosi come in uno stato entropico, che è ciò che sostengono liberali, relativisti e modernisti, ma c’è una precisa collocazione, nella quale l’uomo si dispone, si volge con naturalezza alla verità, la riconosce, e ciò perché l’uomo riconosce nelle cose il principio di non-contraddizione, che non permette a un ente di essere in alcun modo il suo contrario: con in mano, ossia nella mente, ben chiaro e innatamente tale principio, l’uomo propende naturaliter alla realtà delle cose e alla verità che le esprime, e viceversa schiva, avversa, disdegna l’errore e la falsità – o falsificazione –, figlie marce della contraddizione in termini.
Il motivo di tale predisposizione alla prima e invece resistenza ai secondi è semplice: sia la verità che l’uomo fanno parte dell’essere, fanno parte della realtà. La falsità invece, e l’errore, non ne fanno parte, ma anzi li avversano, vi si oppongono, li contraddicono, come se l’acqua del letto di un torrente, da un certo punto in poi, con l’errore o la falsità, prendesse ad andare in su invece che in giù, scontrandosi con l’acqua che, scendendo per il corso della verità, compie il suo flusso naturale. Noi e la verità siamo coerenti con l’essere, non lo contraddiciamo: pesci e torrente seguono la forza di gravità (la forza dell’essere) e scendono entrambi come i gravi. L’errore e la falsità no: l’errore e la falsità lo contraddicono: sono come l’acqua che va a ritroso e, scontrandosi col flusso naturale, non segue la legge di gravità, portando confusione e anarchia sia all’acqua che tra i pesci. Da qui la potenza della premessa ameriana.
Si tenga conto che se non ci fosse tale sicura e precisa inclinazione per la verità l’uomo non distinguerebbe il bene dal male, che invece esistono in un ordine oggettivo e immutabile di verità morali detto comunemente legge naturale, la quale legge naturale ogni uomo riscontra incisa « sulle tavole del cuore umano dal dito stesso del Creatore » (Rm 2,14-5).
In secondo luogo va considerato, ciò premesso, ossia premessa tale decisiva coerenza tra noi e la verità – ‘acqua e pesci seguono la medesima legge dei gravi’ –, tale per cui noi coeriamo con essa, ci incliniamo ad essa – i pesci non potrebbero vivere fuori dell’acqua, o, tranne i salmoni, controcorrente –, e non essa coerisce e si inclina a noi, va considerato, dicevo, che la coppia uomo-verità non costituisce dunque una coppia simmetrica, ma asimmetrica, dove l’asimmetria è a favore della verità, che, come l’acqua può scorrere senza pesci, in tal modo anch’essa può sussistere – come Dio – senza l’uomo; ed è a sfavore dell’uomo, che, come i pesci non possono vivere senz’acqua, anch’egli non può vivere senza verità, cioè senza Dio, senza rimettersi a Lui, attraverso l’assecondamento della propria inclinazione alla verità.
È in questa decisa asimmetria che va inquadrata la classica definizione, « Veritas est adæquatio rei et intellectus »: la verità che noi assumiamo dev’essere il risultato di un’assunzione in noi della realtà in armonia con la verità, a noi esterna, delle cose. Tale assunzione deriva, segue la realtà della cose, la verità a noi esterna, e anche qui il motivo della cosa è semplice: la verità a noi esterna, la realtà, ci precede, ci è avanti, e ci sopravviverà pure, e non parlo solo della realtà del creato, ma della Realtà creatrice, di Dio, Verità somma, che ci precede e sopravanza assolutamente e in tutt’altro ordine; dunque la nostra relazione con la realtà, con la verità, non può essere altro che di adeguamento – e ciò dev’essere necessariamente –, cioè di apprendimento, comprensione, acquisizione.
Questo apprendimento, o comprensione, o acquisizione della verità implicano un assenso, un sì, e cos’è l’assenso se non un’obbedienza? Con ciò si vuol dire che la conoscenza stessa della verità delle cose è, nella sua più semplice, elementare e quotidiana realizzazione, un’obbedienza, un atto cioè di sereno, placido, naturale ‘adeguamento alla cosa appresa’, alla verità, tale per cui si possa poi raggiungere una certa grande, larga, universale unità tra l’uomo e le cose, poi tra l’uomo e Dio, proprio attraverso la conoscenza.
Tutto ciò dimostra che la verità ha sull’uomo un pacifico dominio, un placido e pacato imperio, come è pacifico, placido e pacato il “dominio” dell’acqua sui pesci: i pesci vivono dell’acqua, e senza acqua periscono.
In terzo luogo, senza approfondire il tema proprio in relazione all’affermazione di Papa Giovanni Paolo II come nella mia monografia su Amerio (v. RADAELLI 2005, pp. 206-13), e nella mia Postfazione allo Zibaldone del Luganese (v. AMERIO 2010, pp. 561-72), a questo punto basta dire che, se è pur vero che l’uomo è libero di scegliere in ogni momento e campo il male invece che il bene, o, per stare alla metafora dell’acqua e dei pesci, se è pur vero che l’uomo è libero di scegliere di vivere nell’acqua o invece di uscirne fuori, è però pure egualmente vero che il bene – il vero, l’acqua – lo costringerebbe a seguirlo, ossia che la verità si impone all’uomo come fatto cui obbedire, e cui obbedire appunto obbedendo l’uomo – con quell’assenso che si diceva – al lume della propria pura, casta e limpida ragione che gliela indica sopra e forse anche contro ogni influenza che possa venire da qualsiasi altra considerazione che non sia data dalla sua pura e retta ragione: passioni, convenienze, calcoli passionali, abitudini, legami famigliari e di clan, usanze, circostanze storiche, ignoranza vincibile e mille altre cose così.
Due sono le considerazioni finali da fare a questo punto: la prima, che l’uomo è libero di scegliere se aderire alla realtà – alla verità – o se non aderirvi; la seconda, che la verità – la realtà – gli imporrebbe, come l’acqua ai pesci, dunque solo per sua pura convenienza, e convenienza di vivere invece che di morire, di aderirvi.
Tralasciare la seconda considerazione per tenere unicamente la prima serve solo a dire le cose a metà, cioè a falsificarle, ma questo è ciò che fa il liberalismo e il relativismo, e con essi, nella Chiesa d’oggi, il modernismo, condannati dalla XV Proposizione sopra vista del Syllabus.
Dunque la verità si impone alla libertà. Ecco un ulteriore motivo per considerare che quell’ipotesi ventilata da Giovanni Paolo II – « se la sua coscienza lo domanda » – può valere, se proprio la vogliamo far valere, solo se la religione da abbracciare è la cattolica. Ma questa, sfortunatamente, non è l’ipotesi presa in considerazione dal quel pur Beato Papa.
A parte ciò, e questo è il quarto e ultimo punto, c’è da dire infine che la verità non violenta la libertà, non la schiaccia, non la uccide, e questo quarto punto è quello su cui pesantemente (e maliziosamente) equivocano liberalismo, relativismo e modernismo (i primi tre punti essi neanche li considerano), perché una cosa è riconoscere la realtà dei fatti alzando il diritto della verità sopra la libertà; ben altra è invece alzare la soperchieria, la dittatura, la prepotenza illegittima – senza legge – di una verità alla quale, al dire di liberali e modernisti, la libertà dell’uomo soggiacerebbe.
Ma tutto ciò è falso: la verità si impone alla libertà della coscienza, è vero, ma se la libertà della coscienza le si vuole ribellare, se vuole falsificare per esempio la realtà, o semplicemente se vuole errare, come vuole errare la coscienza che preferisce a quella cattolica – allorché le si presenti con tutte le evidenze della verità – una religione famigliare, la religione per esempio professata dal clan di appartenenza, per non dispiacere ai congiunti, o per non contrariarli, o per non attirare su di sé il loro odio – tutte cose irrazionali, che, costi quel che costi, non dovrebbero incidere sulla scelta di una retta coscienza –, ebbene: quella coscienza è libera di seguire le proprie decisioni, è libera di non scegliere eroicamente la verità anche a scapito della propria vita, come invece di slancio seppero sceglierla giovani inermi come i santi martiri Stefano, Lorenzo, Cecilia, Agata, Perpetua, Felicita, Anastasia, ma pure, per non restare agli antichi, il giapponese Paolo Miki, l’ugandese Carlo Lwanga, il polacco padre Massimiliano Kolbe eccetera; la coscienza è libera infine di svincolarsi dalle maglie ortogonali, rette, precise e luminose della ragione, assecondando come e quanto vuole l’errore e la falsità determinati dalle circostanze, negando come e quanto vuole la verità portata dalla ragione alla luce del sole.
Come si vede, bisogna dunque saper distinguere: la verità si impone, di suo, se pur dolcemente, ossia pacificamente e senz’alcuna violenza, alla coscienza, alla libertà. Sicché la coscienza, la libertà, restano libere di sottrarsi al suo pacifico imperio e di scegliere in tal modo o di legarsi rettamente, ragionevolmente e santamente (e magari pure eroicamente: questa è un’ipotesi da non tralasciare) a essa verità, o invece di legarsi a una prigionia, di accettare una dittatura, di votarsi a una morte, che non hanno, esse no, nulla di pacifico, nulla di placido, nulla di armonico, perché sono dovute alle passioni (sempre violente), alle convenienze (astutamente incarceranti), a solo materiali paure (terribilmente dittatoriali).
Riassumendo:
primo, tra verità e uomo un rapporto c’è, tale da poter dire che l’uomo è fatto per la verità, è inclinato alla verità;
secondo, questo rapporto è asimmetrico: l’uomo, fatto per la verità, la può conoscere assentendole, ossia ubbidendole;
terzo, ma l’uomo, fatto per la verità, e che per questo dovrebbe, conoscendola, assentirle, cioè ubbidirle, può anche rifiutarla, usando male della sua facoltà di scelta libera;
quarto, la costrizione della verità sull’uomo dovrebbe, per la sola autorità dell’Ente creatore da cui proviene, piegare la coscienza dell’uomo a seguirla, ma in ciò non la forza, perché in essa non c’è violenza, né dittatura, né prepotenza, essendo di pura e tutta spirituale ragione.
10. ANCHE TUTTO IL NUOVO TESTAMENTO CONFERMA
IL CARATTERE IMPERATIVO DELLA VERITÀ SULL’UOMO
E QUELLO OBBEDIENZIALE DELL’UOMO VERSO LA VERITÀ.
Tutte le Encicliche dei grandi Papi che utilizzarono la forma di magistero vigente prima del Vaticano II – come visto, fino a Paolo VI compreso – furono scritte in una forma che teneva conto, che presupponeva questa dottrina della libertà, così come, d’altronde, la presupponeva il NT: Gesù Cristo dice: « Se mi amate, osservate i miei comandamenti » (Gv 14,15), perché, il primo comandamento da osservare essendo quello della fede in lui, ed essendo lui la stessa verità, aderire a lui che è la verità non è altro che osservare un comandamento promosso dalla natura stessa delle cose, come visto sopra, per la quale l’uomo è già, di suo, inclinato alla verità.
Dice infatti l’Aquinate: « Gratia non destruit, sed perficit naturam », “La grazia non distrugge, ma perfeziona la natura” (Tommaso d’Aquino, S. Th., I 1 8 ad 2). In questo caso Gesù sollecita a girare verso di lui l’assenso dovuto alla verità, e l’ipotetica pròtasi « Se mi amate » costituisce la condizione previa e ovvia, da leggere, nel nostro caso, in tutta la sua più limpida chiarezza: “Se in me amate la verità”, “Se verso la verità avete un trasporto d’amore e non di indifferenza, né, tantomeno, di odio”, cui segue l’apòdosi conclusiva: “[Avendo voi tale amore], osservate i miei comandamenti”, ossia “Osservate, guardate bene, aderite, seguite, ossequiate con amore di dedizione ciò che la verità esige da voi per il fatto stesso che essa si trova – per identico amore – dinanzi a voi”.
Su questa stessa linea sono tutti i più di quaranta passi del NT in cui sono esplicitate le parole di comando sia da parte di nostro Signore che dei suoi Apostoli, per non dire di quella che possiamo chiamare la “tonalità generale” in cui è espressa la divina Rivelazione, tonalità che dà all’insieme della Parola di Dio un’indubbia caratteristica sopra ogni altra: se essa è la Parola dell’Alleanza, pur se della Nuova Alleanza, essa non si pone comunque certo come un invito, come una proposta, anche se quest’aspetto costituisce certamente la prima fase di ogni patto tra due contraenti, ma si pone come una ferma pretesa, come un’esigenza da rispettare, come un ordine e un comando, determinati strettamente dal carattere veritativo in essere, della verità che si impone di per sé a un intelletto, della distinzione tra male e bene che si impone di per sé a una coscienza, intelletto e coscienza che a loro volta, però, devono darle l’assenso come lo si dà a una vera e propria legge: una legge che non forza, che non violenta, che non costringe con sopraffazione manesca, essendo legge intellettuale e di ragione, ma pur sempre una legge.
In ogni caso, più di quaranta passi del NT in cui è comandata una qualche verità non sono pochi per concludere sul carattere imperativo del Vangelo – senza contare poi le proposizioni in cui è invece richiesta una stretta obbedienza –, specie se proferite da un uomo che si fa chiamare, essendoli, “Signore” e “Maestro”, “Figlio di Dio” e “Dio”, e dai suoi apostoli e discepoli, che da lui direttamente ricevono la stessa autorità di legislatori, giudici e maestri in luogo suo.
O non basta neanche tutto ciò?
11. L’ERRORE È COSTITUIRE IL VANGELO (O LA FEDE) COME
’INCONTRO CON UNA PERSONA’ E NON COME ‘VERITÀ’,
COSÌ DA OCCULTARE LA SUA ASIMMETRIA CON L’UOMO.
Questo carattere, di essere il NT in primo luogo una verità, unito a sua volta al fatto che una verità ha con l’uomo un rapporto asimmetrico tutto a favore della prima, mette in risalto il concetto decisivo, il cardine su cui si fonda il cattolicesimo, concetto sul quale, ben per questo, si impernia tutta la presente prospettiva critica sull’Enciclica di Papa Francesco, e il concetto è questo: « Il principio primo del cattolicismo – per dirla ancora una volta con parole di Romano Amerio – è l’obbedienza, o equipollentemente l’autorità » (AMERIO 2009/a, p. 40): l’obbedienza, o, che è uguale, l’autorità, costituiscono il cardine fontale da cui prende l’avvio la nozione cattolica di Dio, a cominciare dal rapporto tra Padre e Figlio-Cristo.
L’orizzonte pastorale in cui è stata costruita la presente Lettera enciclica aggira tale concetto cardinale, e ciò fa usufruendo, in parte, della forma pastorale ormai del tutto sganciata da ogni pretesa anche vagamente asseverativa e dogmatica, in parte poi usufruendo della elaborazione pseudopersonalista formatasi in Italia dopo il Vaticano II, ora sparsa per tutta la Chiesa, per la quale Vangelo e Fede sono sintetizzabili nell’“Incontro con una Persona”, riducendo in tal modo a equivocabile fenomenologia e a soggettivo sentimento non più necessitato all’obbedienza un fatto fino ad allora riassumibile nella più classica “teologia dell’Annuncio”, o “della Parola” – rigorosa e oggettiva, questa, come la verità –, sulla quale teologia si è basata la pedagogia cattolica di due millenni, cioè di sempre: dalla chiamata dei primi Apostoli a Papa Pio XII.
L’ipodogmatismo permesso dalla forma pastorale, unito all’accentuazione ipertrofica della “teologia dell’Evento” – o “dell’Incontro” – schermano quanto basta il principio obbedienziale cattolico agli occhi sia dell’augusto Autore, chiunque sia, che dei suoi fruitori, o fedeli, o pecorelle, così da far credere all’uno e agli altri di aver raggiunto gli obiettivi cattolici che si ritiene debbano essere raggiunti da un’Enciclica sulla Fede cattolica, in tal modo invece del tutto disattesi.
Lo Scritto è disseminato di indicazioni in tal senso: « La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore » (§ 4); e poco dopo spiega che essa « è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte », per il fatto di essere anche « luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi […] essa è luce per le nostre tenebre », facendo però della luce non, come ci si aspettava, il simbolo più classico della conoscenza, ma, con inaspettato spostamento semantico, dell’amore: la « memoria fondante », che appunto riceverebbe tutta la sua importanza fondativa per il fatto di essere memoria di verità, è memoria di una vita, se pur « della vita di Gesù », così spostando l’attenzione dalla rivelazione, dal dogma, dal logos, all’esperienza, al fenomeno, all’evento.
Due parole sulla “teologia dell’Incontro”. I nuovi teologi “pseudopersonalisti”, e i Papi e la Gerarchia magisteriale che in una certa misura paiono sempre più seguirli, confondono il prima col poi, la causa con l’effetto, perdendo, in tale grave sfasamento falsificatorio della realtà, l’ordine individuato da sant’Ignazio d’Antiochia: « La fede è il principio, l’amore il fine », quell’intoccabile e sacro ordine che farà esclamare a sant’Agostino « O Chiesa beata! In un primo tempo hai udito, poi hai veduto », ossia “Hai prima udito le profezie, poi visto l’Uomo profetato”, rammentandosi dell’ordine tassonomico ben scandito dal Salmo: « Come avevamo udito, così abbiamo visto » (Sal 47,9): prima si ode la Parola, il Logos, poi e solo poi si vede la Persona, la sua figura e i suoi gesti di miracoloso Amore.
Quest’ordine realistico e immutabile delle cose, discendente dallo stesso ordine infratrinitario (prima il Logos, poi l’amore), se traslato nelle nostre categorie diventa: “La fede nella Verità è il principio, l’incontro con (Quel)la Persona il fine”.
Attenzione: questa strada sviante è pure aberrante, perché, per la sua estrema pericolosità, dovuta all’essere stata intrapresa, attraverso la teologia “pseudopersonalista” ora vista, persino dai livelli più alti della Chiesa, è strada che non solo corrompe se stessi (sviante), ma pure gli altri (aberrante).
Essa si configura esemplarmente nella cataclismatica « dislocazione della divina Monotriade », come la definisce Amerio in AMERIO 2009/a, p. 315), per la quale lo Spirito Santo diventa seconda Persona, e il Logos terza, sicché l’amore, la libertà, la volontà, portati in primo piano da una ipertrofica “teologia dell’Incontro”, vengono posti avanti al Logos, e il Logos, fino ad allora ben rappresentato dalla “teologia della Parola”, vien spinto loro dietro e lì atrofizzato.
Questa indebita « dislocazione » fu riconosciuta e denunciata da Romano Amerio, e unicamente da costui, se pur quasi trent’anni fa (la prima edizione Ricciardi di Iota uscì nell’84); fu poi ripresa unicamente da chi scrive (per quanto in ogni suo libro) fin dalla monografia sul Luganese del 2005.
Ma per fermare cento e mille avversari la verità individuata in detta fontale e tremenda « dislocazione » dev’essere riconosciuta e appoggiata non solo da uno, ma da cento e mille, perché è solo da lì, precisamente dal ripristino dell’ordine presente in primo luogo nella Trinità (e poi anche nella realtà), capovolto da quella « dislocazione », che la Chiesa può ripartire per ricostruire la sua propria vera forma e superare così la propria attuale crisi formale.
Crisi “formale”, quella attuale della Chiesa, per due motivi: uno, “formale” perché l’universale bouleversement dell’ordine delle cose di Chiesa posto dalla « dislocazione », intaccando l’atto primo della Chiesa per essere se stessa – essere essa il depositum delle verità rivelate, ossia del dogma, intorno a cui sono chiamati i fedeli –, è, appunto, fatto formale; due, “formale” perché tale abietta « dislocazione » è stata compiuta e tutt’ora viene intenzionalmente condotta “sottotraccia”, ossia nella più studiata informalità, che è a dire guardandosi bene i Pastori anche più alti di formalizzarla come sarebbe loro preciso dovere formalizzare allorché i loro atti, come nel caso, abbiano a oggetto l’essenza della Chiesa, ma i Pastori non formalizzano il pur avvenuto cambiamento di detto ordine delle essenze giacché è a loro ben presente l’impossibilità metafisica di correggere in qualche modo anche una minima parte della dottrina, cioè della forma, o, il che è lo stesso, del linguaggio della Chiesa, senza con ciò correggere la sua stessa essenza, come mi dilungo a illustrare, ancora una volta, nel mio Il domani … del dogma, pp. 178-201.
È proprio questa la verità che andrebbe ben più diffusa di quanto sia ora, cioè universalmente invece che per niente. Ma la sua diffusione implicherebbe riconoscere di aver per cinquant’anni preso una strada invece impercorribile, e di averla presa con suoni di trombe e tamburi che neanche a Nicea, e di aver poi tenuto l’essenza della Chiesa sospesa in un territorio equivoco (v. ibidem); e tutto questo, per essere riconosciuto e digerito, ha bisogno di un aiuto soprannaturale, che è l’ultima cosa che la Chiesa – la sua configurazione storica – è disposta a chiedere ora, intendo nella forma dogmatica con cui dovrebbe chiederlo, perché sovvertirebbe tutto il disegno ecumenista, dedogmatizzante e sottotraccia iniziato per l’appunto col Vaticano II.
Bisogna riconoscere peraltro che l’Enciclica presenta anche qualche raro passo in cui è ben presente e sviluppata la teologia di sempre, la “teologia dell’Annuncio”, per esempio allorché afferma che « Nella fede, dono di Dio, virtù soprannaturale da Lui infusa, riconosciamo […] che una Parola buona ci è stata rivolta e che, accogliendo questa Parola, che è Gesù Cristo, Parola incarnata, lo Spirito Santo ci trasforma » (§ 7), oppure che « la fede accoglie questa Parola come roccia sicura sulla quale si può costruire con solide fondamenta » (§ 10), o facendo notare come la versione greca di Is 7,9 « Se non crederete, non resterete saldi », presentando « un gioco di parole con due forme del verbo ‘amàn: “crederete” (ta’aminu), e “resterete saldi” (te’amenu) », permette al profeta (Isaia) di invitare il re Acaz « ad affidarsi soltanto alla vera roccia che non vacilla, il Dio d’Israele » (§ 23). L’Autore è ben consapevole che questa teologia rocciosa esige obbedienza, sicché al § 40 (I Sacramenti e la trasmissione della fede)scrive: « L’Apostolo afferma poi che il cristiano è stato affidato a una “forma di insegnamento” (typos didachés), cui obbedisce di cuore (cfr Rm 6,17) » e più avanti (§ 49), a proposito della « garanzia della connessione [della fede] con l’origine », può senz’altro concludere che « per questo il Magistero parla sempre in obbedienza alla Parola originaria su cui si basa la fede ed è affidabile perché si affida alla Parola che ascolta, custodisce ed espone ».
Tutta l’attenzione per la “teologia della Parola” è però finalizzata e assorbita da quella “della Persona”: il suo fine non è quello di presentare un Dio Logos, ma un Dio Persona, con un bouleversement prospettico di 180°. Esemplare il § 8, dove l’Autore si sofferma sulla fede di Abramo: « Nella sua vita gli accade un fatto sconvolgente: Dio gli rivolge la Parola, si rivela come un Dio che parla e che lo chiama per nome. La fede è legata all’ascolto. Abramo non vede Dio, ma sente la sua voce. In questo modo la fede assume un carattere personale. […] La fede è la risposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome ».
Questi concetti obbedienziali, che sarebbero anche in linea con la Tradizione, sono però tutti qui: due o tre, e per di più sparsi per lo Scritto come massi erratici: dispersi qua e là, fanno perdere al loro Autore la grande occasione – vista la saggia decisione di provare a legare le due teologie confliggenti in un unico habitat pedagogico – di consegnare due teologie a quel santo e perfetto ordine tassonomico che, riconoscendo al Logos il primato fondativo di ogni ulteriore azione di volontà e di carità che gli spetta, avrebbe risolto ogni difficile situazione; ordine indicato peraltro dal santo vescovo di Antiochia e concetto a sua volta infisso, come visto, nel più alto ordine metafisico trinitario inchiodato dall’Amerio nel santo ordine veridico – non il dislocato! – della divina Monotriade: prima il Logos, poi l’Amore, solo in tal modo garantendo se stesso e tutta la cattolicità di seguire la retta disposizione della legge e della teologia che ne deriva.
Ripeto: prima il Logos, la verità, poi l’amore, la libertà.
12. L’ARGILLA DEL SENTIMENTO POSTO DALLA “TEOLOGIA DELL’INCONTRO” SOSTITUISCE IL BASALTO DEL GIUDIZIO
POSTO DALLA “TEOLOGIA DELL’ANNUNCIO”.
In questo orizzonte, parrebbe potersi intravvedere però, se pur lontano, se pur vaghissimo, nello Scritto, un certo principio autoritativo obbedienziale. Ma dove sono il principio di non-contraddizione che lo governa, la libertà che ne permette il sopruso, il giudizio che lo difende e la punizione che ne ripristina il diritto? Quella che, per questo preciso motivo – e, si badi bene, per nessun altro, ma questo basta –, da ottima teologia “finale” è stata a mio avviso, isolandola, tramutata in falsissima e pericolosissima teologia “iniziale”, è stata gonfiata, ampliata ed esaltata esattamente per scardinare il principio ipercattolico e porre sul suo trono un falso principio d’amore: dire “incontro con una Persona” vorrebbe poter dire “amore con, di, da e per una Persona”; infatti la presenza estensiva e preponderante, nell’Enciclica, di questa teologia, soffoca e snerva senza pietà l’altra, e le brucia le ali.
Il fatto è che, di per sé, filosoficamente parlando, la “teologia dell’Incontro”, imperniandosi sul sentimento invece che sul pensiero, ossia imperniandosi precisamente e volutamente su ciò che, come l’amicizia, la presentazione di sé “così come si è” (con relativa accettazione da parte dell’Altro, cioè di Dio), vuole escludere a priori ogni giudizio, ed è ben giusto che ciò succeda, perché essa non è altro che una “non-teologia”, e per la filosofia il passaggio dalla “teologia dell’Annuncio” a quella “dell’Incontro” non è che il passaggio da un insegnamento a un evento, da un concetto a una fenomenologia, da un ben preciso e circostanziato logos a una vaga e indefinita mozione degli affetti, ossia dall’idea all’atto, le quali cose, però, così disordinate, non portano solo a un ribaltamento del loro ordine naturale, frutto malato dell’ameriana « dislocazione della divina Monotriade », ma pongono tale ribaltamento su due piani disassati, su due piani fra loro come “ortogonali”, perché una cosa è passare da un concetto all’atto che lo realizza – come dalla progettazione alla fabbricazione –, altra è anteporre l’atto realizzativo al concetto – la fabbricazione alla progettazione –, magari anche cancellandolo del tutto – una fabbricazione senza progetto –; questo passo toglie all’atto umano quella coscienza di sé dovuta proprio alla riflessione, filosofica e teologica, compiuta attraverso la conoscenza (cioè la parola), e, tale conoscenza, sia diretta che per testimonianza (= conoscenza di fede). Ma se togliamo all’atto umano la coscienza datagli dalla riflessione, facciamo dell’uomo una formica, un rospo, un bovino.
Sicché chi è invitato a seguire la “teologia non-teologia dell’Incontro”, o “dell’Evento”, o “della Persona”, si trova a dover affrontare realtà cui, come per il calcolo della stabilità di un edificio, non è preparato, mancandogli le basi acquisibili solo dalla “teologia dell’Annuncio”, della Parola, del Logos, cioè dell’Insegnamento intorno a Quella Persona (che pur andrà incontrata e al cui incontro tutto è subordinato).
In altre parole, l’amore non può precedere la fede e la dottrina che lo disegnano e configurano in quell’amore lì (nell’“amore di dedizione”, o caritas), e senza le quali esso, privo di ogni individuazione, di ogni base, di ogni specificazione, di ogni distinzione, e di altre nozioni così, o almeno privo di tutte quelle specificazioni contenute in una corretta “teologia dell’Annuncio”, verrebbe avvicinato, o persino identificato, con le erronee nozioni di “amore” di altre confessioni religiose, come infatti sta drammaticamente avvenendo.
Quella che, spostata dal suo corretto luogo conclusivo e finale, si impoverisce in una tutta fenomenologica, soggettiva ed esistenzialistica “teologia dell’Incontro”, o anche “teologia dell’Evento” (ma dire “evento” è dire Heidegger, è dire fenomenologia esistenziale e antimetafisica), ha in cinquant’anni vanificato e reso del tutto obsoleta, di più: sgradevole, spregevole, insopportabile, la santa, vera, millenaria, e specialmente metafisica, oggettiva e dogmaticamente aletica “teologia dell’Annuncio”, ha reso irrespirabile l’unico luogo teologico della Chiesa che possa essere senza alcuna preoccupazione vitale a ogni suo altro passo, il quale altro passo, comunque, non può che essergli successivo.
La “teologia dell’Incontro”, così santa, desiderabile e gloriosa se posta nel suo luogo deputato, se posta cioè come la Terza Persona è posta dopo il Logos che è la Seconda, fa terra bruciata di ogni nozione che si presenti come legge, come comandamento, come giudizio di verità, con tutti i loro conseguenti contrappesi di obbedienza, di obbligazione, di anatema, cosicché avviene che il dogma, sulla strada luminosa e solare della comunione d’anime – direbbe a questo punto Paolo Franchi, che così scrisse a proposito della tradizione politica e culturale dei cattolici democratici secondo i politici e i commentatori del momento –, il dogma, dicevo, viene lasciato lì in mezzo, sulla strada, come un cane morto.
13. STORIA DI ‘DOGMA’, IL CANE PASTORE
LASCIATO MORIRE DAL PROPRIO PADRONE.
“Meglio un cane morto, che un cane rabbioso”. Dunque cane rabbioso. È così che accusano sia stato il dogma nei secoli: un cane rabbioso. Specie – ma non solo – nei secoli cupi – dicono gli “Illuminati” après Voltaire – dell’Inquisizione. Ma, essendo un cane rabbioso, da tempo lo vogliono, e senza mezzi termini, un cane morto.
Questo, à peu prés, il ragionamento di liberali e liberaloidi più o meno cattolici, più o meno agnostici, più o meno atei, di tutto il mondo, e, oggi, della stragrande maggioranza dei Pastori della Chiesa odierna, Pastori che possiamo chiamare, per la loro specifica caratura non assimilabile a quella dei loro predecessori, a qualsiasi tempo costoro siano appartenuti, “vaticansecondisti”.
Ma il mondo d’oggi, cioè sia i nemici della Chiesa – all’esterno i liberali al potere culturale e spirituale, all’interno i Pastori da essi tanto apprezzati e amati e da questi abbondantemente ricambiati –, che la Chiesa stessa (si intende sempre: nella sua compagine storica, non mai nella sua essenza), il mondo d’oggi, dicevo, dimentica che, se non fosse stato per quel forte e insonne “cane pastore” che con ogni cura e attenzione riportava una per una al loro divino Pastore le pecore disperse, e che contro le temperie e i rovesci più terrificanti teneva ben radunato il gregge sotto i ripari degli ovili, forse, diciamolo pure, e anche senza forse, oggi non ci sarebbe neppure più un gregge, ossia non ci sarebbe neppure più una Chiesa.
E, se pur ci fosse – ai minimi termini, però –, non si conterebbero più le pecore sbranate dai lupi, dagli sciacalli, dalle volpi, dai cani randagi, o rapite dagli uccelli rapaci, ossia non si conterebbero più le eresie, gli errori dottrinali, le falsità, gli inganni, come infatti tutte queste cose più non si contano oggi, in cui di quel fortissimo cane pastore, di ‘Dogma’, ci si è quasi liberati: quanti i combattimenti furibondi sostenuti (e sempre “uno contro tutti”), quante le lotte, quanti i momenti di pericolo dove sembrava che i branchi famelici, o la grandine e gli uragani, avessero la meglio!
Ma ‘Dogma’ era sempre al pezzo, ‘Dogma’ correva subito dove il Buon Pastore lo chiamava, ‘Dogma’ fiutava il pericolo quando ancora tra le pecore sembrava regnare pace e tranquillità, e anzi, ben prima di ogni avviso di pericolo, ‘Dogma’ era già accanto a quelle di esse più indifese: alle pecore madri, agli agnellini; era sempre lì a spingere con amore le inferme, con ogni attenzione le malate, con appassionata dedizione le più riottose, e, per tutte, con altruistico sprezzo di ogni pericolo per sé, fino a che non fosse stato sicuro che ciascuna di esse, anche le più lontane, fosse in salvo, al riparo dai denti sanguinari o dalle tempeste, dai rostri e dalle furiose grandini che si potevano abbattere all’improvviso, e con violenza terribile, sui dolci pascoli.
Questo ha fatto nei secoli e nei millenni ‘Dogma’, ossia, in primo luogo, quello che è il Depusitum Fidei, la verità dogmatica, solo per il fatto di esserci, e di esserci in quanto dogma, in quanto verità dogmatica; in secondo, questo è ciò che, contando su tale concetto inscalfibile contro cui si rompevano i denti i divoratori, su tale solida e inamovibile garanzia, hanno fatto tutti i milioni di santi, eroici e intrepidi Pastori della Chiesa che lo hanno sostenuto, annunciato, difeso, e poi spiegato, studiato, analizzato, e poi anche proclamato, promulgato, affermato contro ogni insidia e irragionevolezza.
‘Dogma’ era sempre vigile, niente sonno per lui, nessun riposo, e se oggi è lì, abbandonato ai margini della strada come morto, è solo perché il sommo Pastore cui qui sulla terra furono affidate le pecore dal Pastore grande che è nei Cieli, ha da cinquant’anni voluto raccogliere e accettare in cuor suo le cattive storie messe in giro sul suo bravo cane pastore dai molti e molto potenti nemici della Chiesa: lupi, iene e sciacalli travestiti da uomini ragionevoli; e si è lasciato pian piano convincere che in ogni caso – vere o false che fossero quelle storie così insistenti e cattive – era meglio per tutti, alla fine, cambiare decisamente rotta e “dimenticare” il cane, “perderlo”, “abbandonarlo” da qualche parte, come che fosse, e pascolare e condurre il gregge, d’ora innanzi, non più con l’aiuto di ‘Dogma’, troppo aggressivo, troppo irruento, troppo impaurente, troppo poco scodinzolante e amico, ma condurlo unicamente con la sua propria voce, e nient’altro (ecco che riaffiora anche qui una concausa della caduta del plurale maiestatis), giacché – questa la finissima scoperta –, anche senza il dogma « la verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore » (Dignitatis Humanæ, Proemio).
Da cinquant’anni il dogma è stato tralasciato, e i pastori confidano che la verità penetri « soavemente e insieme con vigore » nelle menti degli uomini loro affidati. Col risultato che tutti vedono.
Tristissima, nel frattempo, la vita di un cane randagio, specialmente se quel cane era stato per secoli la vera forza del suo santo Padrone, specialmente se era per via di quel cane e solo per lui che il gregge, nella sua lunga e davvero sorprendentissima storia, aveva potuto salvarsi dai pericoli più terrificanti e dai nemici più aggressivi e insidiosi.
Tristissima la sua vita, specialmente perché a scansarlo, a gettargli sassi, ad allontanarlo con male parole e con bastoni, ora erano proprio i suoi amici di un tempo, i pastorelli figli e fratelli del Pastore sommo, che lui aveva saputo servire fino ad allora con tanta veloce e sicura lealtà.
Tristissima. E infatti, in cinquant’anni, una lenta e inesorabile infermità, dovuta a incuria, disprezzo, negligenza, affamamento, ora sembra abbia davvero permesso che il “cane Dogma” venisse buttato, come si vede, ai bordi della strada, mezzo morto, e lì lasciato, semi invisibile tra sassi e rovi, in attesa che magari qualcuno, passandoci sopra, lo finisse per sempre.
I liberali! È a loro che – fuori e dentro la Chiesa – dobbiamo il perverso luogo comune, oggi universalmente ben radicato, per il quale due autentici opposti che più opposti non potrebbero darsi, in anni di alacre e infido lavorìo culturale, di ingannevoli “suggerimenti”, di serpentine e falsissime dimostrazioni cosiddette “storiche”, sono stati prima avvicinati, poi sovrapposti, infine ben schiacciati uno sull’altro fino a farli identificare quasi fossero la stessa identica cosa. Parlo, da una parte, del concetto di ‘dogma’ – cristallina e umilissima acqua tutta e unicamente Spirito Santo (v., p. es., Gv 4,14) trasfusa nel pur povero linguaggio umano –, e ancora parlo di quel fuoco ardente e perenne capace di trasfondersi nei nostri cuori con le sue indelebili e luminose verità (v. At 2,3-4), e parlo invece poi, appunto all’opposto, di quelli che vengono additati al pubblico ludibrio come i convincimenti umani più tetragoni e irragionevoli, che vengono portati alla giusta gogna come le posizioni più ottusamente incapaci della benché minima dialettica, che vengono spinti al più doveroso disprezzo come le nozioni più caparbiamente chiuse non dico allo scatto dell’audacia infuturente, ma spesso anche solo all’attenzione di una ragionevole parola diversa e “altra” da quella tanto confortante cui ci si è solo abituati, il che sarebbe, dicono, una garanzia.
Un’operazione culturale, questa, di vastissima portata, di portata universale, e “culturale”, poi, nel senso più lato, assorbendo in “culturale” lo spirituale, il religioso e il morale, anzi la radice dell’atteggiamento poi spirituale, religioso e morale di un uomo.
Si può citare a caso un giornale qualsiasi che si abbia sottomano, a dimostrazione di quanto tale sommerso lavorìo sia continuo, diffuso, compulsivo e imprevedibile, quasi come la malattia in un febbricitante: « L’atteggiamento scientifico […], se fosse universalmente applicato, ci libererebbe dal pesante fardello che ci viene imposto dai dogmi e dalle norme estrinseche » (John Devey, Scienza, modello per la società, Il Sole 24 Ore, 8-9-13, pagina d’apertura); e ancora: « Se i dogmi e le istituzioni tremano quando appare una nuova idea… » (Ibidem).
“Pesante fardello imposto dai dogmi”? “I dogmi e le istituzioni tremano”? E che cosa c’entrano mai i dogmi – le sante e altissime verità rivelate: la ss. Trinità, l’Incarnazione, l’assunzione di Maria al Cielo… – con l’atteggiamento scientifico e con una nuova idea? Non c’entrano niente.
Ma se mai c’entrassero, p. es. con la molto positiva influenza sull’atteggiamento scientifico che certo può dargli il loro esservi, la loro esistenza, è p. es. per la garanzia di stabilità delle leggi di cui persino la scienza, fondata sul dubbio e sul deserto di ogni a priori, ha assoluta necessità per non veder vanificate in una universale e caotica entropia le sue ipotesi di lavoro, e, in quanto alle “nuove idee”, ben vengano sempre e siano le favorite tutte le nuove idee nell’ambito dell’essere, di cui i dogmi non sono che la conoscenza per testimonianza per la parte preclusa alla conoscenza diretta, parlo delle intimità di Dio (Dio, in sé, deve essere conosciuto e riconosciuto anche scientificamente, come ricorda senza vie d’uscita Rm 1,19-21, e anzi l’uomo è obbligato, nel senso dato qui ai §§ 8-9, a riconoscerne l’esistenza e la necessità): le nuove idee non potranno che portare nuove conoscenze nel terreno vivo e fertile garantito, seminato e arato proprio dalle prime verità.
Si è visto sopra infatti che il dogma è puro come l’acqua, e, specialmente, vivo come il fuoco: le sue faville scoppiettano nei cuori, nulla è libero e imprendibile come il dogma, e la scienza non ha nulla da temere, ma tutto da guadagnare da un sano rapporto con le verità eterne.
Ma è evidente lo spirito mistificatorio che conduce asserzioni aprioristiche e antiscientifiche come quelle sopra riportate, spirito di cui esse sono esempio tra i tanti possibili utile solo a disonorare e calunniare Dio, la comunicazione santa che Egli ha fatto di Sé a noi uomini e la Chiesa che ne è sua umile e indifesa dispensatrice.
Ma non basterà certo un libro, e un libretto poi come quello che si potrebbe fare con queste pagine, a ridare a ‘Dogma’, a questo “cane morto”, ciò che gli è dovuto: la vita.
Basterebbe dunque, per far ciò, che quel Pastore sommo che si diceva riconoscesse con semplicità e forza d’animo di aver ancora essenziale bisogno di lui, del cane ‘Dogma’, e lo richiamasse – un fischio solo –: subito si infonderebbe nella sua carcassa agonizzante tutta la vita e la forza di una volta: come tutti sappiamo, forza soprannaturale, e il fremito della verità, il sussulto vitale della vera e garantita conoscenza tanto scuoterebbe ancora il fedele guardiano del gregge, da ritornare a dargli in un solo soffio la presenza veritativa, la forza penetrante e la bellezza sfolgorante di sempre.
14. LA TEOLOGIA DEI CANTI E DELLE CETRE,
DELL’AMORE E DEL DILETTO.
E invece, che avviene? Dopo aver abbandonato, “dimenticato” sulla strada della Chiesa – sulla strada che deve compiere la Chiesa dietro il suo Pastore sommo, il Papa, lungo la storia del mondo, della civiltà, della cultura e delle arti – il fedele, instancabile e sicuro cane pastore dal nome forte, ‘Dogma’, oggi il gregge si allieta con flauti e cetre, con (soporifere) nenie e con danze come sulle spiagge e nelle notti di veglia di Copacabana, si allieta con flauti e con canti così come flauti e canti sono le parole di questa Lumen Fidei di cui si sta parlando, la quale, sembrerà strano, pur essendo una Lettera enciclica sulla Fede, in nulla accenna a dogmi, ad anatemi, a eresie, a Inferno, a peccati, a pene eterne.
Nel frattempo le eresie, i peccati, l’immoralità più bruta, imperversano e si spargono per la Chiesa in ogni dove, come tutti vedono, senza risparmiare nulla, e il gregge stesso è sbandato in mezzo a famelici branchi di lupi e sciacalli culturali anticattolici che lo sbranano e dilaniano infierendo sul povero ebete che corre di qua e di là, già stordito e già come ipnotizzato dalle danze e dalle cetre dei suoi ebbri Pastori, ivi compreso il Sommo, che anzi sarebbe proprio il Conduttore primo dei nuovi ritmi, delle musiche sincopate, delle nuove melodie che si levano dalle nuove spiagge toccate dalla Chiesa.
I flagelli, i castighi, sono stati banditi da tempo, e quei flagelli e castighi che Dio però comunque sta mandando, non essendo riconosciuti perché sono per l’appunto stati banditi e dunque non possono esserci, si abbattono sul gregge disperso così disperdendolo ancor più, nell’attesa che un giorno i suoi gioiosi e inebriati Pastori posino cetre e flauti, si fermino dal danzare e cantare, e si accorgano una buona volta dello scempio causato dal loro perduto timor di Dio, dalla loro perduta vera e appropriata sua adorazione.
Il dogma è “un cane morto”, sì. Ma, se davvero è così, se davvero quello che si vede sulla strada, lì tra i sassi, è ormai solo un corpo senza vita, perché non liberare decisamente la vista del suo ingombro?
Infatti, per uscire dalla metafora, ovvio che faccia mille volte più presa sul piano sentimentale propagandare il calore dell’amore e della vita, dell’amicizia e della persona, piuttosto che convincere che la Fede nasca dall’ascolto di una Parola – di una dottrina, di una norma, di una legge – che, discesa da un Dio d’amore, e che si fa tutto amore per noi, va in primo luogo seguita e obbedita per la sua autorità somma, quella di essere pronunciata dal Dio che ci ha creati; ragionevole autorità, ma autorità, tanto che la pena del rifiuto di tale razionale richiesta è la perdita della propria vita, materiale e spirituale (v. Ap 2,11; 20,13-4; 21, 8).
Sentimentalmente parlando, tra i due approcci non c’è storia: si veda Copacabana, appunto, o “Giornata mondiale della Gioventù 2013”: disfatta su tutta la linea della prima teologia, ossia del senso del soprannaturale, della religione adorante Dio e non l’uomo, della metafisica come base del mondo, dell’adorazione Gregoriana; trionfo invece della seconda, di teologia, ossia della religione, della dottrina e persino dell’adorazione come sentimentalismo, come spettacolo, come atto ludico (con ballo “in unisono” di vescovi vestiti in abiti liturgici: religiosamente parlando, un vero orrore, un sacrilegio, un’efferatezza si pensava impossibile per la sua sfacciata perversione).
Tanto più che il primo e più stretto corollario alla “teologia dell’Incontro”, dopo la sua dislocazione da seconda a prima, in luogo della divelta “teologia dell’Annuncio”, è diventato la convinzione che la Persona che si incontra non pretenda affatto, dal fedele, un cambiamento, una conversione purchessia: nella “teologia dell’Incontro”, privata della Parola che la salvaguardava da ogni contraddizione, Quella Persona accetta il fedele così com’è, lo ama per quello che è, lo cerca per quello che è, e il fedele non deve far altro che presentarsi, mettersi lì di fronte a Quella Persona, così da camminare insieme « in un cammino verso la comunione piena con il Dio vivente. […] Il credente viene invitato a entrare nel mistero che professa e a lasciarsi trasformare da ciò che professa » (LF 45).
E questo cammino il credente pare proprio possa fare con tutte le sue “povertà, carenze e debolezze”, come sono stati rinominati tutti quegli atti che, nella “teologia dell’Annuncio”, erano le sue colpe e i suoi peccati (anche mortali!).
Ma tutto ciò, oltre allo snaturamento della fede, della religione e dell’adorazione, divenute leggere, vacue e colorate come fossero farfalle, porta dritto al relativismo, all’indifferentismo, alla indistinzione delle essenze, dunque al pareggiamento di verità a paralogismi, verità a sofismi, verità a falsità, cioè all’eguagliamento tra bene e male.
La “teologia dell’Incontro”, detta anche “della Misericordia”, ha falcidiato sul suo incontrastato e vittorioso cammino il senso e il concetto stesso – peraltro fondativo di ogni altro – di autorità, la necessità del giudizio, la giustezza dello sdegno divino, l’esigenza del suo giusto castigo, della doverosa correzione del Padre (v. Pro 3,12), dunque dell’obbligo della sua severità proprio nell’ambito della sua misericordia.
Sul suo cammino senza ostacoli, in cinquant’anni, di tutto ciò che Cristo stesso insegnò al riguardo (v. le “invettive” sulle città di Corozim, Betsaida e Cafarnao in Mt 11,20-4, o il pianto del Cristo su Ierusalem in Lc 21,6), è rimasto nella Chiesa e in tutto l’Occidente un deserto più arido di quello di sale.
E infatti: dove mai si parla, nell’Enciclica, di peccati (veniali e mortali)? dove di Inferno (pieno, orrendo ed eterno)? dove di sdegno di Dio (e di timor di Dio), di pena, di giusto castigo, di se pur correttivi flagelli, di dannazione eterna? dove di Limbo (cancellato anche dal catechismo)? dove si parla mai di conversione e di penitenza? dove mai di diavoli, di satana e della loro caduta? dove di peccato originale? dove mai si parla di giudizio individuale di Dio (di Cristo!) e di giudizio di Dio (di Cristo!) universale?
Ho letto tre volte la Lettera Enciclica, ma, come già le parole “dogma”, “errore”, “eresia”, “condanna” e simili, non ho trovato questi concetti nemmeno la terza volta. E ciò, si noti, proprio in un momento come l’attuale, in cui più che mai sarebbe necessario parlare esattamente e proprio di queste cose: di ira di Dio (di nostro Signore Gesù Cristo), di giusti castighi e severi se pur correttivi flagelli, di peccati, di colpe anche collettive eccetera.
Si continuerà a non parlarne, tranne i soliti liberali irrisori di ogni serio discorso che si vuole intraprendere per riportare la civiltà cristiana nel suo alveo soprannaturale, ossia nel dogmatico, da cui pare essa faccia tutti gli sforzi per levarsi, o almeno di non far vedere (e di non vedere) di trovarvisi.
15. L’INDIPENDENZA DELL’UOMO.
QUESTO È IL PUNTO CHE LA “TEOLOGIA DELL’INCONTRO”
UTILIZZATA DALLA LUMEN FIDEI PERMETTE DI NON TOCCARE.
Il linguaggio è professorale, illustrativo, cattedratico, espositivo, al limite del noioso: è la spiegazione, se pur non sempre del tutto scontata – come quando, al § 11, è avvicinata la fede alla Paternità di Dio –, di tutto ciò che, intorno alla fede, secondo la nuova “teologia dell’Incontro”, potrebbe e dovrebbe sedurre in qualche modo l’uomo, il suo cuore, senza però intimorirlo, senza preoccuparlo di un unghia, secondo l’espressione della Gaudet Mater Ecclesiæ: « A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio », che è lo stesso però che dire: « Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni » (Is 30,10), e specialmente senza mettere l’uomo nel giusto sospetto di stare per togliergli, con la richiesta della (se pur amorevole) obbedienza alla Fede, proprio quel che ha di più caro alla sua anima: la sua sacra, inviolabile, sublime indipendenza.
Perché questa è la grande preoccupazione (e la grande accusa) che liberismo, relativismo e modernismo ecclesiastico fanno alla Chiesa: di rubare all’uomo l’indipendenza, e con essa mettere in mortale pericolo il bene più prezioso dell’uomo (lo straordinario e subitaneo successo di Vito Mancuso presso ecclesiastici formidabili come il fu card. Martini e l’arcivescovo Bruno Forte, poi presso tutti i cattolici novatori e gli scalfariani d’Italia è tutto qui).
Infatti molti cattolici – davvero “astutissimi”! – si fanno presto atei credendo che cancellare Dio dalla loro testa permetta di mettere in salvo la propria libertà. Non si accorgono di fare solo come quegli struzzi della barzelletta.
Questo è il motivo profondo per cui il linguaggio dell’Enciclica non è in alcun modo, neanche per un attimo, e specialmente neanche nelle intenzioni, asseverativo, fermo, tassativo, giudiziale, in una parola: “dogmatico”, come è dogmatica, pur non pretendendo di contenere alcun dogma, la Mystici corporis e come lo sono le tante altre Encicliche stese, come quella, sulla base della dottrina antiochena sopraddetta, le quali tutte, con tale dogmaticità “incorporata”, possono richiedere al credente – che sia fratello nell’episcopato o semplice fedele –, e di fatto gli chiedono, l’assenso ossequioso e obbediente alle dottrine esposte, ossia chiedono al credente il dono della sua indipendenza, e forse pure un altro assenso, che è a dire un ancor più grande dono: assentire a eventuali condanne di dottrine (meglio: di teologie, come le declassa Livi nel suo già citato e importante Vera e falsa teologia, v. Livi 2012, passim) da severamente condannare.
L’indipendenza è il valore che il cattolicesimo, con piena coscienza, toglie al credente chiedendogli la Fede, è il valore primo; e il sacrificio dell’indipendenza è quello che Amerio chiama giustamente « il più grande sacrificio che un uomo possa compiere, superiore anche al martirio fisico » (AMERIO 2019/b, Chiosa IV), perché con esso l’uomo si toglie da se stesso la propria libertà: compie un atto libero, e con tale atto estremo offre la propria mente, quasi fosse la propria testa posta su un piatto d’argento alzato ai Cieli dalle sue stesse mani, al Dio che lo ha creato, amato e redento, così facendosi simile a lui – precisamente nel Figlio –, attraverso una sua (di Dio) prerogativa, perché l’uomo si fa imago di Dio attraverso l’Imago che è lo stesso Figlio di Dio (v. RADAELLI 2007, 2011, 2013, passim).
Questo punto è cruciale, perché, in barba ai falsi convincimenti cui vogliono arrivare tutti coloro che, pur di tenersi stretta la propria indipendenza, sono disposti a negare persino l’esistenza del buon Dio, permette di capire che l’uomo sacrifica la propria libertà solo apparentemente, in realtà acquistandone un’altra, di libertà, più vera e più piena: obbedendo alla Fede cattolica l’uomo infatti sacrifica la propria indipendenza umana per farsi, col suo aiuto, simile a Dio e acquistare in tal modo la libertà dei figli di Dio, che è la libertà e l’indipendenza nientemeno che della natura divina, e ciò compie solo grazie alla qualità “Imago” posseduta dal Figlio.
Ecco perché ci si è tanto dilungati, precedentemente, sulla questione della libertà: la Fede è legata alla libertà come nessun’altra cosa al mondo e non si può fare un serio discorso sulla Fede senza fare un serio discorso sulla libertà.
Ne discende che dunque sarebbe piaciuto vedere tutto questo nella Lettera enciclica Lumen Fidei, giacché questi pensieri avrebbero potuto e dovuto essere il suo più intimo epicentro: il suo cuore. Se non lo sono, ciò dipende dal fatto che anche questo magistero ratzinger-bergogliano vuol essere, come i precedenti, dedogmatizzante, depotenziando però, con verità e fede – e più ancora –, anche la carità, anche l’amore. E la bellezza che solo da verità e amore nasce.
Ma, mi chiedo ancora, carità e amore – non dico bellezza – non erano proprio quei tali altissimi e importantissimi valori di riferimento su cui tanto si affatica da cinquant’anni il magistero vaticansecondista? non erano proprio loro: carità e amore – non dico bellezza –, il motivo e l’oggetto di tutti quei possenti, cataclismatici, universali sommovimenti che, a partire da ecumenismo spurio e bonomia, hanno diviso la Chiesa in mille nemici e diecimila schiere, chi di rottura, chi di continuità, chi di non saper cosa dire, chi di equivoco a bella posta?
16. FALSITÀ E GIUSTEZZA DELL’ESPRESSIONE CHE DICE:
“LA VERITÀ SI IMPONE IN FORZA DELLA STESSA VERITÀ”.
Cosa si è perso, cosa manca, al fondo, nella Lumen Fidei? La sviante, e, per la sua pericolosità, aberrante teologia “pseudopersonalista” entrata nel Vaticano II attraverso la caduta di quella forma dogmatica che, come tutti i venti concili precedenti dello stesso tenore di magistero (solenne, straordinario e universale), anche quello avrebbe dovuto avere, decadendo invece in una forma surrettiziamente pastorale che nemmeno pastorale fu, teologia di cui poi si fece ancor più latore il Beatificato Papa Giovanni Paolo II, inficia, compromette, e, diciamolo pure: avvelena il magistero papale ed ecclesiale, specialmente deprivando il rapporto tra verità e uomo di quel carattere imperativo che si è illustrato necessario (in senso scolastico: ‘imprescindibile’), ossia insito nella natura stessa dell’antropologia umana, rapporto che, nei confronti dell’uomo, ha unicamente la verità, sicché le Lettere encicliche pubblicate successivamente a quell’assise – come d’altronde tutto il magistero elaborato e insegnato da lì a oggi – vengono sempre più chiaramente caratterizzate dalla volatilizzazione di quell’atmosfera pacificamente ma fermamente imperativa che, trasportando a piene mani verità e verità una sull’altra, e con ciò trasportando potente e travolgente amore – le fiamme e le faville dell’amore –, pervadeva tutto il magistero precedente, e vengono altresì caratterizzate dalla caduta di ogni specifica ingiunzione, specie quella richiesta dalle verità espresse, di essere prima di tutto amate – « Se mi amate, osservate i miei comandamenti » (Loc. cit.) –, e, in quanto amate, allora osservate e ossequiate nel loro comando, che è tale solo in quanto umile, limpido e casto portatore delle verità da seguire per la propria salvezza e della Realtà ultima da in tal modo procurarsi.
La decadenza della Fede da “pesante” a “leggera” si è fatta sempre più netta: le incandescenti faville di fuoco somigliano sempre più a colorate e lievi farfalle e ciò che era intenso bruciore dell’anima, tale da sprigionare dispiacere per i propri peccati e poi ardore per la volontà di Dio sembra stia divenendo qualcosa di sempre più indefinito: persi i limiti della legge, della dottrina, dei comandamenti, immersi nel flusso “dell’amore”, a che serve saper più bene a cosa precisamente si presta fede, e a Chi? Perché dunque parlare ancora di costrizione alla Fede e di sua obbedienza?
D’altronde, il magistero conciliare non avrebbe potuto essere più chiaro: « La verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore » (loc. cit.). Sottile la distanza tra la verità qui finemente aggiustata, cioè (forse senza volere) falsificata, di questa celebre asserzione, e la verità pura del magistero precedente: anzi, paradossalmente, l’asserzione conciliare parrebbe persino la sintesi di quanto qui detto ai §§ 8-10.
Ma il punto è proprio questo: che la verità si potrebbe imporre all’intelletto solo in forza della sua propria e intrinseca potenza veritativa, come sostiene l’asserto conciliare, unicamente se l’intelletto che dovrebbe accoglierla fosse un intelletto purissimo, “angelico”: esente cioè dal peccato originale, e, se battezzato, in primo luogo in grazia di Dio, e, in secondo, radiosamente aperto, come appunto si diceva sopra, alla pura ricezione della verità in sé per sé, ossia castamente spianato da ogni pregiudizio promosso da passioni o circostanze esterne al ragionamento, come le sopra viste.
L’asserto conciliare è valido solo per i santi, intendendo per ‘santi’ quegli uomini che hanno eroicamente forgiato le proprie menti a lasciarsi penetrare dalla verità divina nella completa remissione della propria mente alla volontà sua.
Ma cos’hanno fatto i santi per lasciarsi così invadere dalla verità? La loro prima istanza non è stata certo quella di disporsi “a un incontro con una Persona” – questa è immediatamente successiva: la prima è e dev’essere un’istanza di verifica testimoniale, ossia gnoseologica –, ma, a cominciare dai primi Apostoli (v. Gv 1,36-51), hanno prima di tutto cercato di capire, di apprendere, di conoscere in cosa consistesse quella certa Buona Novella che si presentava loro. Hanno cioè cominciato dalla parola, per esempio dalla testimonianza del Battista (v. Gv 1,15-34): l’hanno valutata, calibrata, soppesata e confrontata con altre parole – simili od opposte – dei molti “maestri” più o meno millantatori del momento e dei santi Profeti del passato, infine l’hanno scelta e fatta propria, interiorizzandola, ossia obbedendole.
Lo schema classico è ancora quello configurato dall’Antiocheno: « La fede è il principio, l’amore il fine », dunque le due teologie – “della Parola” e “dell’Incontro” – sono entrambe valide, ma solo nella sequenza detta: dislocando la sequenza si sovvertono i fattori, e non solo in tal caso cambia il prodotto, ma gli stessi fattori, che, fuori del loro luogo deputato, trasmutano la loro essenza, sicché la verità non è più verità e l’amore non è più amore (v. Bernardo di Chiaravalle, Apologia all’Abbate Guglielmo di Sait-Thierry, § 14, da me ripreso e tematizzato in RADAELLI 2007, pp. 145).
Tutto ciò per dire che, ancora una volta, è vero che « La verità non si impone che in forza della stessa verità », ossia è vero che la verità ha una sua maestà, una sua autorità, una sua potestà intrinseca, tutta e solo sua, umile e disarmante per la sua semplicità. È vero che poi l’uomo è portato con altrettanta diretta semplicità a inclinarsi a essa. Ma è altresì vero che se l’intelletto dell’uomo non si apre alla verità, alla sua schietta e “terribile” maestà, non c’è autoimposizione che tenga: la verità resta fuori dell’intelletto che, usando, se pur malamente, della propria libertà, le sbatte la porta in faccia – oppure gliela chiude garbatamente davanti: scegliete voi –, e non c’è « soavità » o « vigore » che tenga: questa è la storia.
Con ciò si vuol dire che questa Enciclica, che apparentemente usa una forma e un linguaggio pastorale in un orizzonte prevalentemente “pseudopersonalista”, con ciò proponendosi al mondo con un bagaglio che sembra strabocchevole d’amore, oltre che naturalmente, in una misura però che ci si guarda bene che sia intimorente, di verità, in realtà dimezza, setaccia e inaridisce le misure davvero strabocchevoli e inusitate d’amore e di verità che sarebbero straripate dalle sue pagine se solo il loro augusto Autore (Benedetto o Francesco che fosse) avesse utilizzato a piene mani la vera forma e il vero linguaggio della Chiesa – la forma e il linguaggio del dogma e della sua ambienza –, e non avesse accorciato e dimezzato i concetti guardandosi bene dal parlare apertis verbis di tutte quelle realtà tanto strettamente correlate alla Fede che pur vanno ben conosciute e tenute presenti allorché si rigetta la Fede o qualche suo anche minimo articolo.
Amerio sottolinea che, allorché si passa sopra a realtà come peccato, dannazione eterna, Novissimi eccetera, con essi si annienta la necessità della Redenzione e in ultimissimo si annienta semplicemente il cattolicesimo. Certo: non si vuol dire che sia questa l’intenzione neanche dei Papi più novatori, ma perché assecondarne, non volendo, lo spirito, solo per accattivarsi in tutti i modi la benevolenza degli uomini, e degli uomini liberali? Non si capisce forse che così facendo forse si cattura la loro benevolenza, ma certo si perde la verità, e, specialmente, ci si inimica Dio?
C’è infine un’ultima considerazione da fare sull’impoverimento e sullo sviamento magisteriale portati dalla particolare forma di linguaggio dedogmatizzante e ipodogmatica scelta dalla Lumen fidei per veicolare quella teologia “pseudopersonalista” che la sottende e sostanzia: che la perdita dell’imperio e del comando impliciti nell’esposizione della verità dottrinale è con ciò anche perdita dell’amicizia sociale, della solidarietà, del senso di partecipazione e di consenso, ossia di universale fratellanza, offerti all’uomo dal comune sottostare ogni uomo a una legge che li prende davvero tutti: la legge naturale – la legge attraverso cui si realizza in ogni specifica circostanza quella « adæquatio rei et intellectus » che si diceva – è l’elemento che salva l’individuo dal solipsismo cui sarebbe senza di essa condannato, è la casa comune cui ciascuno fa riferimento, sia perché ha appunto certo qualcosa di comune da condividere, sia e ancor più perché ha qualcosa che nella sua “comunanza” sovrasta il singolo e così lo può ricevere e ben accogliere, cosa che non potrebbe avvenire se mancasse la sovramisura dell’idealità. Non l’idealità hegeliana, impersonale, gnostica e immanente e perciò stesso inconsistente, ma l’idealità personale e trascendente del Logos.
17. LEX MINUS CREDENDI, LEX MINUS ORANDI.
LA CHIESA, FORZATA DA CINQUANT’ANNI A FARE
MENO VERITÀ, MENO BELLEZZA, MENO ADORAZIONE.
Non si può tralasciare poi di accennare, se pur sommariamente, a quanto tutto questo processo “dedogmatizzante”, cui porta la prima Enciclica di Papa Francesco (o Benedetto XVI?), dia un contributo forte e incisivo di analogo processo decisamente “deadorante” nel Rito liturgico: si sa che lex credendi, lex orandi, ossia: “come si crede, così si prega”, e infatti il persistente dimezzamento della tonalità autoritativa di magistero e il rovesciamento della corretta teologia da deiforme ad antropocentrica di cui esso è veicolo, qui ora visti col ribaltamento della “teologia dell’Annuncio” in “teologia dell’Incontro”, naturale conseguenza della sopravista « dislocazione della divina Monotriade », portano a una ricaduta diretta sul modus orandi, accentuando il rinsecchimento della già decaduta adorazione attuale, dovuta tutta al Novus Ordo Missæ.
Del tema, nei suoi termini generali, parlo in diversi miei lavori (specie in RADAELLI 2007, 2011 e 2013), ma non si può non ostensire anche qui l’insistenza fuori luogo – e fuori legge divina, o ius divinum – con cui l’attuale magistero novatore astringe fino a proibizione de facto, anche dopo il Motu proprio Summorum Pontificum, la celebrazione del Rito Perenne detto ‘di san Pio V’, o Tridentino, o Gregoriano, oggi molto impropriamente e volutamente detto ‘Extraordinario’, ossia il Rito che veniva serenamente celebrato in tutto l’orbe cattolico fino al Vaticano II compreso.
La “dedogmatizzazione”, unita alla conseguente “deadorazione”, non è altro che la trasformazione del ferro in argilla, della pietra in sabbia, un’apertura delle Porte di bronzo attraverso cui possa meglio infiltrarsi nella Chiesa il « fumo di satana » di cui si avvide anche Paolo VI, principale artefice di quelle trasformazioni e di quell’apertura.
Va fatta chiarezza: tale Rito è – e non può non essere, come pure sempre è stato e sempre sarà – per diritto di istituzione divina il Rito Ordinario – l’unico Rito Ordinario – di santa Romana Chiesa.
Di ‘istituzione divina’, si è detto, la cui pienezza e solidità dogmatica non pochi e santi Papi (san Damaso, san Gregorio Magno, san Pio V, per dire solo i più celebri) contribuirono a far risplendere e a fortificare, ma i loro interventi ecclesiastici restarono sempre estremamente rispettosi dell’intangibilità assoluta, in ogni sua parte, del nucleo sostanziale di Rito essenzialmente divino: divino nella sostanza soprannaturale e miracolosa, divino nella forma sacrificale-propiziatoria, divino nel linguaggio misterico-universale.
Paolo VI, con l’istituzione del suo Novus Ordo, sapendo di non poter abrogare il Rito Perenne, lo proibì però per tutto l’orbe, così “obrogandolo”, direbbe Cicerone, ossia abrogandolo de facto non potendolo abrogare de iure; ma, così facendo, non solo compì un atto che non gli era permesso, dunque dittatoriale, inammissibile, ma anche si smentì, perché contemporaneamente insisteva nel sostenere che la sua artificiale costruzione (così anche il cardinale Ratzinger nella sua Premessa a GAMBER 1992) fosse la naturale trasformazione del Vetus Ordo secondo le esigenze moderne. Ma come si fa a proibire ciò che si dice star proseguendo?
Il fatto è che invece, in primo luogo tale celebrazione non può essere in alcun modo e da nessuno essere abrogata; in secondo, non può essere in alcun modo e da nessuno nemmeno obrogata; in terzo poi essa dev’essere invece, piuttosto, positivamente e con ogni mezzo, sia imperativo che sollecitativo ed educativo, da tutti i Pastori dell’Orbe celebrata e fatta celebrare cum populo, nella Chiesa, quale Rito la cui forma è sicuramente, fortemente e in ogni sua parte sempre appoggiata al dogma come nessun’altra mai potrebbe (v. BACCI-OTTAVIANI 1969).
Contro lo ius divinum, oltre il Novus Ordo si schierarono prima l’Instructiones de Constitutione (14-6-1971) in cui si disponeva che « in tutti i Paesi “dal giorno in cui i testi tradotti [del nuovo Messale] saranno usati per le celebrazioni in lingua vernacolare, sarà permessa solo la forma riveduta della Messa e [del Breviario], anche per coloro che continuano ad usare il Latino », poi la Notifica Conferentia Episcopalium (28-10-1974), dove si richiede che i vescovi di tutto il mondo debbono assicurarsi che tutti i sacerdoti e fedeli di Rito Romano, « nonostante il pretesto [sic!] di una qualche consuetudine, anche di lunga data, accettino rigorosamente l’Ordinario della Messa nel Messale Romano »; la sacra Congregazione per il Culto divino pubblicò nel ’74 un’ulteriore Notifica che specificava che poteva essere celebrato solo il Novus Ordo e che il Gregoriano, invece, era proibito.
Fu una vessazione generale, il cui fine era annientare il Rito celebrato per duemila anni (persino dai quasi 2.500 Padri del Vaticano II): tra il Vetus Ordo e il Novus, nessuno doveva più poter confrontare tra loro i due Riti, anche perché Papa Paolo VI si era autoconvinto che quello steso a tavolino (così più volte anche il card. Ratzinger, in RATZINGER 1992 e 2001) non fosse altro che la naturale continuazione del Perenne, e che dunque di Riti ce ne fosse solo uno. Ma allora, se fosse stato realmente così, perché proibirlo? I Papi san Damaso, san Gregorio, san Pio V, e tutti gli altri che apportarono abbellimenti e rinforzi liturgico-dogmatici, mai si sognarono di proibire la celebrazione del Rito Perenne nelle forme in cui di volta in volta lo avevano trovato, perché era naturale per tutti i sacerdoti della Chiesa adeguarsi a tali naturali abbellimenti e rinforzi che non raddoppiavano il Rito, ma lo maggioravano in fede, in bellezza e in adorazione (Papa Ghisleri proibì unicamente i riti che, non superando i 200 anni di consuetudo celebrationis, non garantivano la loro assimilazione al Perenne, dunque si trattava di un divieto il cui fine era esattamente l’opposto di quello di Papa Montini).
Che il Rito perenne non possa essere né abrogato né obrogato – e ciò sia nella celebrazione sine populo che anche e specialmente cum populo – è convinzione comune, valga per tutte quella del noto liturgista Klaus Gamber, che nel suo La riforma della liturgia romana (GAMBER 1979) osserva: « Nessun documento della Chiesa, neppure il Codice di Diritto Canonico, dice espressamente che il Papa, in quanto Supremo Pastore della Chiesa, ha il diritto di abolire il Rito tradizionale. […] Di certo non è compito della Sede Apostolica distruggere un Rito di Tradizione apostolica, ma suo dovere è quello di mantenerlo e tramandarlo ».
Anche il cardinale Ratzinger prende posizione, se pur come dottore privato: « Dopo il concilio Vaticano II si è ingenerata l’impressione che il papa potesse fare qualunque cosa in materia liturgica, soprattutto se agiva su incarico di un concilio ecumenico. È accaduto così che l’idea della liturgia come qualcosa che ci precede e che non può essere “fatta” a proprio arbitrio sia andata ampiamente perduta nella coscienza diffusa dell’Occidente », e già qui si può notare una larvata ma chiara critica all’operato montiniano, « Difatti però – prosegue –, il concilio Vaticano I non ha per nulla inteso definire il papa come un monarca assoluto, ma, al contrario, come il garante dell’obbedienza alla parola tramandata: la sua potestà è legata alla tradizione della fede e questo vale anche nel campo della liturgia. […] Anche il papa può essere solo umile servitore del suo giusto sviluppo e della sua permanente integrità e identità » (Ratzinger 2001, p. 162).
Insomma, in parole povere: SEMPER lex plus adorandi, UNQUAM lex minus adorandi, sempre una legge più adorante, mai una legge meno adorante.
Il Motu proprio Summorum Pontificum non modificò tale situazione di – bisogna pur dirlo – dittatoriale e deadorante brutalità se non apparentemente: già il fatto di indicare come ‘ordinario’ un Rito che al massimo potrebbe assurgere a ‘straordinario’, e viceversa ‘straordinario’ il Rito che divina natura sua è e non può non essere che ‘ordinario’, e nulla può spodestarlo dalla sua divina ordinarietà, dovrebbe mettere sull’avviso ogni anima che avversi con sano sentire cattolico un magistero modernista; ma poi il secondo fatto affermato, che un sacerdote abbia la libertà di celebrare il Rito Perenne (Romano, Ambrosiano o altro che sia) unicamente sine populo, giacché altrimenti debbono essere aperte complesse procedure la cui positiva conclusione può essere in ogni momento dall’Autorità impugnata e sospesa, è cosa che ancor più giustifica ogni e più ragionevole allarme, come si è potuto vedere in ormai troppe occasioni, in cui i Pastori novatori hanno portato a una deadorazione analoga all’ecumenica loro già attuata dedogmatizzazione: primo fu il monastero benedettino di Le Barroux, poi la Fraternità San Pietro, poi Campos (dove si concelebra e si amministra la comunione anche sulla mano), poi l’Istituto Buon Pastore, ora è la volta dei Frati Francescani dell’Immacolata: in ognuna di queste realtà i modernisti hanno imposto vessazioni di ogni tipo per limitare, circoscrivere e abbruttire in ogni modo l’adorazione col Vetus Ordo, imponendo regole cui la coscienza cattolica dovrebbe ribellarsi e cui di fatto si ribella, rimanendo però con le mani legate dall’obbedienza.
Obbedire bisogna, pena la caduta della virtù necessaria al cattolicesimo (e anche le più gravi sanzioni canoniche).
E allora come si fa? Come suggerisco ancora dal tempo de Il Mistero della Sinagoga bendata (v. RADAELLI 2002), la strada è indicata da san Tommaso: è quella della ragione e della “correzione fraterna” (v. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II 33), è la via misericordiosa della dimostrazione insistente e documentata dell’inalienabilità del Rito Perenne, sine populo o cum populo che sia, per via della sua origine apostolica, il cui livello divino è superiore a ogni legge ecclesiastica, e tale natura preserva e garantisce – e deve preservare e garantire in ogni situazione e momento – chiunque voglia servirsene, giacché chi si appella al diritto divino, allo ius divinum, si appella a ciò da cui ogni altro diritto – canonico compreso – riceve i suoi munera.
La resistenza dovrebbe fondarsi in specie sul concetto, da far rilevare al massimo, che il diritto divino cui ci si appella è il medesimo su cui è costituito quell’Ordine sacerdotale che conferisce ai Pastori il munus sanctificandi, il potere cioè di celebrare i divini Misteri. La medesima radice deve ricordare a tutti che non ci si può allontanare da essa senza pregiudizio, perché la medesima radice lega l’Ordine al Sacrificio come l’effetto alla causa e dunque una modificazione della causa porterebbe a una medesima modificazione sull’effetto.
Oltre a ciò, l’obbedienza può appellarsi alla Bolla Quo primum di Papa san Pio V, mai revocata – né mai revocabile – e al motu proprio Summorum Pontificum di Papa Benedetto XVI, anch’esso tutt’ora legge positiva della Chiesa, per abrogare il quale un Papa dovrebbe emanare una legge di eguale livello, salvo comunque poi scontrarsi con la natura perenne e inabrogabile del Rito in se stesso, confermato dalla Bolla irreformabile Quo primum che codifica il Messale Tridentino, la quale Bolla non permette ad alcuno, fosse pure un Papa, poi in nessun modo, fosse pure l’atto più solenne di un governo papale, e in nessun tempo, fosse pure fra mille anni, di essere minimizzato, dimezzato, « dimidiato », come diceva Romano Amerio con termine plastico, perché imporre di adorare meno è, come mostro in Sacro al calor bianco. La Messa di san Pio V e la Messa di Paolo VI alla luce della Filosofia dell’Æsthetica trinitaria (RADAELLI 2008), l’atto più contro natura di tutti gli atti contro natura che l’uomo possa mai compiere.
Ma c’è un fatto che dovrebbe essere infine ricordato, superiore a ogni altro, ed è che oltre all’obbedienza giuridica si dovrebbe tutti aver presente quell’obbedienza alla verità che tutti muove: fedeli e Pastori, di cui qui si sono voluti ricordare le origini muovendosi su un territorio strettamente filosofico, obbedienza che dovrebbe facilitare la ricomposizione di ogni dissidio, nel rispetto del Bene a tutti superiore.
Una Lettera enciclica sulla Fede non può non toccare questi argomenti, almeno per la realtà posta dal vincolo “Lex credendi, lex orandi”, cui non ci si può sottrarre: la teologia che si diceva, “dell’Incontro”, con i suoi forti risvolti poi anche pseudoecumenici e protestantizzanti, si riversa e si compenetra nella liturgia comunitaria e antropocentrica – ecumenista e pseudoprotestante – di Paolo VI, e il linguaggio narrativo (tecnicamente: “epidittico”) del nuovo magistero dedogmatizzato trasuda senza soluzione di continuità nel linguaggio affabulatorio e sempre meno orante della nuova Messa, così da trasformare tristemente quell’adagio in Lex MINUS credendi, lex MINUS orandi. Ma è ammissibile tutto ciò?
Ci si rende conto che da cinquant’anni la Chiesa orante viene forzata dai suoi più alti Pastori, dal Trono più alto, a pregare meno, ad adorare meno?
Ci si rende conto che da cinquant’anni la Chiesa orante viene costretta da quei suoi più alti Pastori e da quel suo Trono più alto a celebrare con meno dogmaticità, ossia, come rilevarono nello studio sopracitato i cardinali Bacci e Ottaviani, con meno garanzie di fedeltà alle verità rivelate?
La nuova antropologia cattolica si è aperta un varco che nella prassi liturgica comunitaria esprime la nuova teorica teologica “dell’Incontro”. L’una e l’altra sono fondate su una universale quanto occultata adulterazione del reale, su quella « dislocazione della divina Monotriade » di cui si parlava, ed è proprio da lì che dovrebbe partire la resistenza all’una e all’altra, mostrando con riverenza e rispetto ai Pastori – fossero anche Sommi – che, ancora una volta, è la Fede il fatto su cui si gioca tutto. Non la carità: la Fede.
Tanto che nostro Signore chiedeva: « Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra? » (Lc 18,8): non chiedeva se avesse trovato carità, e quanta, ma fede, fede, fede.
18. PRIMA CONCLUSIONE: LA LUMEN FIDEI, DEDOGMATIZZANDO
E DISLOCANDO TEOLOGIE DI PER SÉ VERE, IMMISERISCE LA MISURA
DI VERITÀ E D’AMORE CHE DOVREBBE ELARGIRE AI FEDELI.
Non si può scrivere una Lettera enciclica sulla Fede senza parlare di libertà, e non si può scrivere una Lettera enciclica sulla Fede che, parlando di libertà, non parli anche di tutti quei gravi elementi conseguenti che ne sono i necessari corollari, e che, ridotti all’osso, si possono riconoscere nel giudizio, che a sua volta deriva dal principio dell’essere, che è il principio di non-contraddizione, distintivo di bene e male (dal giudizio dipendono, come si intuisce, il peccato o la santità, la gloria o la caduta, il Regno di Dio o l’Inferno, la conversione o l’ostinazione nell’errore e nel male eccetera).
Però una Lettera enciclica sulla Fede che non parla di libertà e di giudizio depotenzia con ciò tre fatti: primo, l’argomento intrapreso; secondo, la verità che lo sottende; terzo, l’amore che lo veicola. Ciò si rileva unicamente per contribuire, con la proposta di tale diagnosi, a dare ai Pastori preposti il quadro più corretto della Chiesa su cui devono operare: senza fede, verità e carità, la Chiesa inaridisce, e, fino a che non verrà ripristinata la vera e unica forma di Chiesa e di magistero con cui essa può avanzare nella storia – la forma dogmatica –, qui non si può non esprimere il timore che la Chiesa corra oggi il grave pericolo di restare schiacciata dalla propria stessa aridità veritativa e caritativa, p. es. con le mille e mille inenarrabili e scandalosissime immoralità che scorrono come sangue avvelenato nel clero, nelle famiglie e tra i fedeli, o nella prassi liturgica più incontrollata nelle sue forme realizzative spesso deliranti, raccapriccianti e blasfeme.
A cosa serve una Lettera enciclica sulla Fede che non denunci gli errori e le eresie oggi pullulanti nella Chiesa, primo fra tutti la pusillanime convinzione di un celeberrimo arcivescovo di Milano, osannata dai relativisti di mezzo mondo, per la quale « ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente, che si interrogano a vicenda (!)» (Carlo Maria Martini, Cattedra dei non credenti, 1987)? se non si anatematizzano e fustigano gli errori contro la Fede, a che dilungarsi tanto sulla Fede?
Ma la Chiesa è in piena crisi formale, che è a dire di essenza, di linguaggio e di sostanza, come chi scrive ha già sostenuto e ampiamente dimostrato in Il domani – terribile o radioso? – del dogma, e la crisi formale porta anche a questo: a non voler riconosceremetà delle colonne portanti della sua esistenza, la metà da cui proviene la sua giustizia, tenendo in piedi solo le colonne della misericordia e dimenticando che queste, senza quelle della giustizia, si sfasciano, vanno in frantumi, sempre come ricorda san Bernardo. In quel mio libro preciso in cosa consista, da dove origini e come si possa superare la crisi formale della Chiesa, “formale” perché, essendo la Chiesa il proprio stesso dogma, se essa lo “dimentica”, se essa – come sta avvenendo – si dedogmatizza, essa compie contro la sua stessa forma uno svuotamento, una rimozione di contenuto che, pur metafisicamente impossibile a completarsi, si badi bene, dunque non a entrarvi, ma a completarsi, perché ne andrebbe della sua integrità e della sua carità, la rende però sempre più indifesa, sempre più disarmata davanti a ogni attacco, specie se dall’interno, come di fatto sta avvenendo.
Preservarsi nella forma dogmatica, e, al presente, recuperarla, invertendo la rotta dedogmatizzante, sarebbe invece sufficiente a garantire alla Chiesa la propria vittoriosa difesa, come sempre successo, attraverso l’intervento divino, garantito unicamente dalla sua forma. (In quanto alla conclusione del processo dedogmatizzante, essa è impedita solo oramai dai due decisivi giuramenti di Cristo riportati in Mt 16,18, « Portæ Inferi non prævalebunt adversus eam », e 28,20, « Ego vobiscum sum omnibus diebus », come illustro nel lavoro succitato).
L’augusto Autore della Lumen Fidei – chiunque sia chi l’ha scritta: l’uno e l’altro dei due Pontefici sono in sostanziale continuità novatrice – pare non voglia tenere pienamente in conto che dalla Fede dipende tutto, ossia che la buona esistenza dell’intero universo dipende dalla Fede e solo dalla Fede, giacché, se è vero come è vero l’assetto delle cose affisso da sant’Ignazio d’Antiochia visto sopra, e se è vero come è vero che dire universo è dire vita e dire vita è dire volontà, è dire libertà, è dire carità (o amore, che è uguale), allora quel santo assetto, quella precisa disposizione – « La fede è il principio, l’amore il fine » –, chiarisce una volta per tutte che se non si ha ben presente e ben forte il principio della Fede come fatto ben definito, roccioso, potente, indubitativo, non si costruirà mai una società civile con gli stigmi e i perni ben inchiavardati necessari alla sua più santa evoluzione, non si costruirà mai una città capace di infuturirsi – se si può dir così – nel suo naturale inveramento escatologico: nel Cristo, nel suo Regno di pace e di splendore divini.
Ma si contribuirà, nella misura più proterva e purtroppo anche, per dirla tutta, ma va detta tutta, più rispondente alle aspettative dell’Avversario e del diavolo, alla decostruzione di tale granitica Rocca, alla distruzione di tale doverosamente incrollabile Pietra (sempre guardandosi bene dal completare tale distruzione con il darle lo stigma dogmatico a ciò necessario), per farne un castello di sabbia cancellabile in ogni momento, come sta avvenendo, dalle onde delle illusioni e dai marosi irrefrenabili delle più assurde e veementi passioni, una società (anche ecclesiale, specie ecclesiale) liquefatta, rovinata nella frantumazione delle essenze alla Copacabana, nel dissolvimento dell’identità delle cose, dove il dubbio sistematico sforma martinianamente, cioè da dentro, il cristiano nel suo esatto contrario, l’agnosticismo imbruttisce laicamente le anime in tristissime loro caricature, l’antropocentrismo avvizzisce l’adorazione in liturgie non solo congegnate a essere meno adoranti, ma spesso persino blasfeme.
19. SECONDA CONCLUSIONE: CON LA LUMEN FIDEI LE CATENE
CHE TRATTENGONO L’ANTICRISTO SONO SEMPRE PIÙ SLEGATE,
MA LA CHIESA HA L’OBBLIGO DI RINSERRARLE, ANCHE SE COSÌ
ALLONTANA LA SUA VENUTA, E, CON ESSA, LA PROPRIA VITTORIA.
In una sua intervista a Maurizio Blondet, ancora nel lontano ’93, Massimo Cacciari improvvisamente esclamava: « II Papa deve smettere di fare il katéchon! ». Ma si sbagliava: l’incatenamento dell’Avversario, dell’Anticristo, di satana, ossia di quella potente personalità tutta irrazionale, tutta passionale, tutta AntiLogos, profetata dall’Apostolo, e con essa e prima di essa l’incatenamento di tutte quelle forze culturali, sociali, economiche e religiose che la preparano, ne plasmano la strada e che ne spianano la diffusione, è stato da tempo – esattamente da cinquant’anni – lasciato ben lasco, smollato, e lo svuotamento di potenza delle forze legate all’essere, e, da qui, alla ragione, quali, in specie, il principio di non-contraddizione, oggi più che mai contraddetto, è ormai quasi completo.
La cultura anticattolica oggi plasma la società molto più di quanto faccia la cultura cattolica, attraverso tutti i più potenti canali mediatici, attraverso cioè gli imperi di giornali, di riviste, di tv, di film, attraverso le grandi e capillari holding di internet e dei social network globali, poi attraverso i libri, le collane editoriali, le giornate culturali, in ogni salsa con cui sia possibile colpire e plasmare, plasmare e colpire, essa ha preso di gran lunga il sopravvento sul Messaggio e sui mezzi della Chiesa in percentuali devastanti, senza paragoni tra l’una e l’altra; potremmo dire con maggioranzebulgare.
Non contenta, da parte sua la Chiesa, un po’ per quello spirito di bonomia che si diceva sopra, un po’ per mostrarsi, di conseguenza, moderna anch’essa come coloro che dovrebbero essere i suoi antagonisti, un po’ ancora per quel tutto erroneo e falso spirito di carità segnalato anche da san Bernardo, nato dal disordine delle essenze da cinquant’anni amerianamente dislocate, si adopera con tutte le forze – con invenzioni irrazionali, irragionevoli e tutte fuori asse come, ieri, La Cattedra dei non credenti, oggi Il Cortile dei Gentili – a ulteriormente lasciarsi invadere il cuore dallo spirito borghese e laicista del mondo, e così ulteriormente avvelenare nello spirito un gregge già gravemente compromesso e abbandonato a se stesso con la dedogmatizzazione dottrinale e la deadorazione religiosa imperanti.
Ecco che in tal modo, con queste due vaste direttrici cultural-religiose qui appena delineate – identificabili, a larghe maglie, in “borghesia” e “Chiesa” –, da decenni in laborioso e studiato movimento, la tenaglia che teneva ben rinserrato nel dogma, cioè nella verità e nell’amore, lo spirito anticattolico sempre palpitante in troppi cuori per quel sogno di indipendenza e di libertà che si è detto, si dischiude pian piano, si apre, si spalanca, così liberando le potenze irrazionali presenti in entrambi i corni: sia nella laica borghesia che anche, purtroppo, nella Chiesa. Queste potenze si caratterizzano per la proprietà di celarsi nel più fitto razionalismo, ammantandosene, come si sa, con i più vertiginosi sofismi.
E se gli anni Settanta sono gli anni in cui la borghesia si libera dell’alleanza con la Chiesa conclusa nel ’29, dopo poco svela il suo vero volto e le sue reali intenzioni, cui oggi stiamo approdando tutti: svela il suo intento più vero e profondo di egemonia spirituale: egemonia della borghesia su tutta la società. Chiesa compresa. Che è a dire egemonia del liberalismo su quello che a questo punto dovrebbe essere senz’altro chiamato, per diretta opposizione, veritarismo.
Tanto quanto, infatti, col termine “liberalismo” è indicata quella dottrina che ha nella libertà il suo fulcro, la sua origine formale e dunque la sua ragion d’essere, così con termine analogo per desinenza astrattiva si indicherà in “veritarismo” la dottrina che sedimenta fulcro, origine e ragion d’essere nella verità. Il veritarismo viene da Dio e porta a Dio, il liberalismo viene dall’uomo e porta all’uomo, o meglio: viene dalla carne e porta alla carne, ma « chi semina nella carne, dalla carne raccoglierà corruzione » (Mt x,y), dunque il liberalismo è una filosofia all’uomo senz’altro tutta sconveniente.
Dunque oggi è avvenuto che non solo il laicismo (la borghesia) è riuscito a guadagnare la propria insana indipendenza dalla Chiesa, ma ha raggiunto una posizione culturale egemonica a largo raggio, cioè anche spirituale, tale da aver prostrato a condizione di servitù alla propria egemonia la stessa Chiesa.
Il che vuol dire che non si ha qui solo la rottura di ogni incatenamento, ma l’incatenamento inverso: quell’incatenamento per il quale ciò che doveva essere incatenato incatena ora le catene che lo incatenavano: la passione si è liberata della ragione, e non solo si è liberata, ma l’ha asservita e incatenata. Ma mentre il katéchon della ragione era il naturale incatenamento dell’Io, il falso e predatore katéchon delle passioni si fa dittatura delle passioni e del razionalismo sullo spirito.
Ma cos’è, chi è, in che consiste l’incatenamento? Come visto in incipit dello scritto, così si esprime la 2 Ts 2,6-7: « E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione [la manifestazione dell’Anticristo], che avverrà nella sua ora. Il mistero dell'iniquità [sempre la manifestazione dell’Anticristo] è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene ».
« Chi finora lo trattiene » è to Katéchon, “l’Incatenatore”, “Colui che frena”. To Katéchon è il Cristo, il Logos divino, che scaccia i demòni (cfr Mc 1,25; 34). In secondo luogo è quindi la Fede in Lui: gli Apostoli scacciavano i demòni in virtù della fede in Lui (« Io vedevo satana cadere dal cielo come una folgore », dice loro il Signore al loro ritorno dalla prima missione nel mondo, in Lc 10,18). Dunque il Katéchon è il Sommo Pontefice che santifica, insegna e governa la Fede, ed è la Chiesa che tale Fede espande su tutta la terra. Se la Fede è forte, se il Sommo Pontefice saldo, se la Chiesa solida, anche il ferro delle catene che tengono l’antico Avversario sono forti, salde e solide come non mai. Se invece la fede è debole, il Sommo Pontefice lasco, la Chiesa molle, saranno deboli, lasche e molli, cioè di argilla e acqua, anche le catene che tengono avvinto satana, e con lui l’Anticristo.
Tanto più che, dalla Chiesa e dalle sue leggi, si proietta sulla civiltà che ne esce una ulteriore sorta di katéchon nelle leggi, nelle regole, nei costumi e nei modi di vivere culturali e spirituali della società, proiettati negli ambiti civili più diversi: essi sono katéchon tanto quanto sono la fedele e coerente proiezione delle leggi-katéchon della Chiesa, ossia tanto quanto sono genuinamente cristiane. Si capisce che dunque un loro annacquamento, l’insorgere di una loro debolezza, dipendono direttamente dallo stato di salute della Chiesa.
In cosa consiste la debolezza? Proprio nella perdita della forma dogmatica del linguaggio della Chiesa, e, da lì, della sua sostanza, viste alla Ia conclusione. Non ci si ripeterà.
Ora, gli gnostici oggi sostengono – v. Cacciari 2013, uno dei Grandi sapienti della borghesia liberale – che più in fretta il katéchon – Cristo, Logos, Fede, Pontefice, Chiesa o Società cattolica che sia – snerverà il potere di contenimento dell’Antico Nemico, liberando satana e l’Anticristo, più in fretta giungeranno gli Ultimi Tempi, e con quelli il definitivo annientamento del diavolo e del Mistero d’iniquità, sì da giungere più in fretta, dopo di ciò, alla Parusia, alla vittoria del bene sul male, alla gloria finale del Regno del Logos.
(Mi accorgo che qui però avrei fatto infiltrare le aspettative cattoliche tra le gnostiche: in realtà alla gnosi spuria interessa unicamente che con la caduta del katéchon si concluda l’attuale eone, come lo chiamano gli gnostici, e si apra – o si riapra – con una nuova era, o eone, una nuova età dell’uomo, di questa nostra assai migliore, magari “dell’oro”.)
En passant, vorrei fosse chiaro che gli “Ultimi Tempi”, per gli Scrittori sacri, sono tutti i tempi dopo Cristo, infatti i “Primi” sono tutti quelli prima di Cristo, motivo per cui noi, perennemente vivendo gli Ultimi Tempi, perennemente si deve vivere « con la cintura ai fianchi e le fiaccole accese » (Lc 12,35), in attesa dello Sposo che, chiudendo i Tempi, viene a prenderci « per aprirgli subito, appena arriva e bussa » (Ibidem).
Ma, tornando a noi, quella in tal modo indicata è una prospettiva irrazionale, e irrazionale perché machiavellica, ossia dettata dal principio di utilità (trafitto da Amerio in Aforisma 276, v. Zibaldone, AMERIO 2010, pp. 156-7), che guarda la stretta ed egoistica “convenienza del mondo” nei termini impersonali di salvazione, e ciò fa venire in mente la marxiana, egualmente irrazionale teoria della lotta di classe, per la quale alcune generazioni di milioni di operai avrebbero dovuto immolarsi per il futuro di felicità, oltretutto completamente ipotetico, delle generazioni dei figli a venire, e non in termini di universalità e individualità dei salvati, determinabili solo dal razionale (dall’unico razionale) principio di carità, principio proveniente solo dal Logos (evidente anche qui la santa disposizione antiochena: prima il Logos, poi la carità), e principio opposto dunque allo gnostico, come si vede, in tutto.
L’universalità dei salvati deve andare di pari passo con la loro individuazione personale, e questo è il motivo per cui la fine dei tempi è precisamente nelle mani di Dio, della sua somma carità e della sua inaccessibile e longanime “scienza dei predestinati”, ed è estremamente presuntuoso congetturare in qualsiasi modo di avvicinare (o anche allontanare) quei tempi senza riporre tutta la fede in lui e nella sua magnanimità. Ciò è proprio “gnostico”, in senso stretto, perché parte da un atto di presunzione: quello di avere quella luce di intelligenza e di potenza sui tempi che solo Dio ha.
La gnosi spuria, di cui oggi circolano diverse proposte, tutte enunciate in linguaggi esoterici, fumosi, magrittiani, cioè surreali, filosoficamente parlando è al fondo idealista, schiacciata su un fondale irrealistico di onnipotenza di un logos umano che non sa compiere il necessario distinguo tra se stesso e l’essere.
Il Papa, piuttosto, deve santificare, insegnare e governare “a tutto dogma”, se così si può dire; la Chiesa deve mostrarsi cristallo indefettibile; il principio di non-contraddizione non può decadere; e tutto ciò perché la forza delle catene che rinserrano il maestro della menzogna e del dubbio sistematico deve garantire di tenere indefinitivamente lontano nel tempo il suo sguinzagliamento, così da poter raccogliere nell’Arca della salvezza tutte le anime che Dio vuole salvare, le quali dovrebbero essere idealmente tutte, pur se di fatto saranno, di quelle tutte il cui numero è conosciuto comunque solo da Dio, poche. In altre parole, guai, guai, guai a chi accelera la rottura delle grandi acque, a chi spinge per la fine del katéchon, a chi anche solo asseconda la sua liberazione.
E tutto questo perché, insieme e sopra a tale triplice dovere – di santificare, insegnare e governare “a tutto dogma” –, vi è anche quello di rispettare e di far rispettare il principio di verità, principio che non può essere abbandonato, e dal Papa poi, come vorrebbero gli gnostici, solo perché così si avvicinano i tempi belli: il Signore ci insegna che il Regno di Dio – al contrario delle teorie marxiane e gnostiche sopraddette – è già qui e ora, in ogni cuore, in tutto il suo splendore, appena quel cuore compie – o solo desidera compiere – un atto di carità in suo nome, ossia lo compie – o anche solo lo desidera compiere – per Fede.
Dunque il “tanto peggio tanto meglio”, che immola uomini a uomini e sacrifica verità a verità per mero e machiavellico utilitarismo, è dinamica configurabile soltanto da chi è nemico della Fede, poi della Carità, giacché si può essere convinti che il bene escatologico dell’universo possa essere raggiunto unicamente perseguendo la sua morte, ossia il suo disastro, il suo disfacimento, solo se non si crede nella forza positiva della Fede, nella costruzione dell’identità delle cose attraverso la fedeltà al loro essere – il principio di non-contraddizione è l’ultima e più forte catena a rinserrare il Principe della menzogna nelle sue atre prigioni –, nella costruzione, in tal modo, di cristallo in cristallo, della riconoscibilità di ogni cosa attraverso il tratteggio in ogni sfaccettatura della sua conoscibilità attraverso il perseverante adeguamento della nostra mente a ogni anche minima realtà: Fede e scienza, nella Chiesa, ci vogliono. E grande costanza, come si può capire, cioè forte, fortissima Roccia.
Sotto questo aspetto, dunque – ancora una volta, come si vede, strettamente filosofico –, la Lettera enciclica Lumen Fidei dovrebbe essere rivista completamente, strutturalmente, perché, così com’è, dà troppo adito al pensiero che paia essere stata scritta – pur non essendolo affatto e in nessun modo – quasi per assecondare le illusioni gnostiche (non a caso però, illusioni filosofiche, oggi come ieri, e non teologiche, cioè di uomini di Chiesa).
E non solo andrebbe riscritta la Lettera, ma anche andrebbe riorganizzata tutta la struttura teologica, formale e linguistica in cui si sta muovendo la Chiesa da cinquant’anni, giacché, così come sono strutturati, teologia, forma e linguaggio odierni paiono fatti apposta per scardinare i ceppi dell’Antilogos, liberandolo e scatenandolo contro la Chiesa più di quanto già faccia, specie negli ultimi cinquant’anni, come si è visto, il che sicuramente non è nelle corde e nelle intenzioni dei Pastori, sia perché pensiero troppo sottile e perverso per menti che in realtà sono solo state sbandate dal grande abbaglio della bonomia – nel senso di mostrarsi benevole e concilianti con tutti (e con tutte le religioni), per mostrare a tutti quanto sia in tutto superiore la forza viva dell’amore –, e tale insana perversione, essa sì, può entrare nella Chiesa per lo davvero minima sottigliezza del velo che separa il vero amore di caritas fondato sul Logos portato da Cristo e i molti e sempre tutti falsi amori pseudoamori, non così fondati sul Logos come dovrebbero, ma sull’Io umano e sulla sua preservazione); non è poi possibile pensiero intenzionale dei Pastori, tornando a noi, quello gnostico, perché è dottrina troppo ingombrante, troppo vistosa per non essere riconosciuta per tempo, o almeno muovere sospetti sulla sua esistenza.
No: i novatori – di cinquant’anni fa od odierni che siano –, per quanto spinta sia la loro teologia novatrice, sono stati sedotti solo dalla “bonomia di convenienza”, solo cioè dalla convinzione che l’uomo vada convinto con la « medicina della misericordia » (Gaudet Mater Ecclesia, 7,2) e non con la forza placida ma anche esigente, come visto, della verità, e dunque è da escludere che siano stati sedotti dalla gnosi, almeno: non da questo pensiero contorto, implesso e massimalista della gnosi (oltretutto, nella fattispecie di Cacciari 2013, pensiero scritto con prosa farraginosa, prolissa, oracolare, cervellotica, spesso delirante: illeggibile).
Ma se le cose stanno così – e, ripeto, ci sono buoni motivi per ritenere che stiano effettivamente così, come mostro anche in Il domani … del dogma, pp. 170 e 238 –, questa è ragione sufficiente per rivedere da cima a fondo, come dicevo, la dottrina e la struttura sia della Lumen Fidei che, in generale, di tutta l’impalcatura magisteriale della Chiesa degli ultimi cinquant’anni: troppo contigue esse entrambe alle mire e agli orizzonti gnostici e materialisti odierni, per quanto deliranti e introversi, per poter tenere la stessa rotta: la rotta è comunque chiaramente errata, e la sua coincidenza con quella gnostica, anche se certamente cosa né concepita né voluta, essendo evidente controprova dell’errore in cui si è incorsi, dovrebbe bastare a un suo totale ripensamento.
Inoltre, è evidente che il moto gnostico-borghese è quello di non solo raggiungere l’agognata indipendenza dalla Chiesa (da Dio), cosa avvenuta in Italia a partire dagli anni ’70, ma di mettere la Chiesa (cioè Dio) sotto la propria legge, cosa che sta avvenendo proprio sotto i nostri occhi.
20. POST SCRIPTUM. LE DUE FUNZIONI DI VERITÀ
– E QUELLA, CONTRARIA, DI FALSIFICAZIONE – DEL KATÉCHON
NEGLI “ULTIMI TEMPI”, CIOÈ NEI NOSTRI DEL “DOPO CRISTO”.
Infatti, cosa dice il Signore? Dice: « La verità vi farà liberi » (Gv 8,32). Ma se dire dogma è dire ‘verità sicura regalata da Dio’, possiamo forse anche dire: « “Il dogma” vi farà liberi »?
E se dire dogma è dunque dire Logos, e dire Logos è dire Legge, possiamo forse dire, ancor più, « “La Legge” (la Legge!) vi farà liberi »?
« La Legge vi farà liberi »!? Possibile!? Ma questo non è come dire: « “To katéchon”, “la forza che trattiene”, “il potere che frena”, “la catena di ferro”, vi farà liberi », cioè un autentico controsenso?
Perché questa è la paradossale, ma veritiera e fortissima promessa del nostro Maestro e Signore e solo sua (infatti nessuno ha mai osato neanche lontanamente affermare qualcosa del genere): che liberatore è proprio il katéchon, affrancatrici son proprio le catene.
Ma cosa sono le catene? sono la ragione, sono il placido ma rigoroso percorso sillogistico, sono le semplici e severe regole del puro calcolo intellettuale, sono il limpido rispetto per la proporzione aurea, per la legge naturale, per il sistema prescientifico e prefilosofico universale detto da Livi Senso comune (v. LIVI 2010), per il sì obbedienziale ai comandamenti del creato, e, sopra tutte queste cose e altre simili, santamente liberatorio è proprio lo slancio senza riserve a obbedire a queste catene, cioè alle leggi di Dio.
E si badi bene a questo fenomeno incredibile, che mai davvero nessuno si aspetta: ognuna di esse catene, raccolte come sono nella memoria delle leggi, cioè nella Tradizione, in sintesi: nell’aurica e sublime parola “verità”, è proprio ciò che permette lo scatto dell’audacia, il passo in avanti dell’innovazione, lo scarto vivo della inventio, la rottura delle regole della ricerca, come sempre è avvenuto nella storia e in specie nella storia dell’arte, restando – questa la regola decisiva –, con purezza d’animo, nei limiti ben determinati e precisi dell’essere, e senza mai contraddirlo, si veda il mio RADAELLI 2011, Secondo Capitolo: Tradizione e Audacia, passim.
A questo punto, però, bisogna chiarire: sono due le ‘funzioni di verità’ del katéchon, ossia del Logos, ossia del Cristo, che è a dire della Fede, cioè della Chiesa, ovvero, in ultimo, del Papa, e, in ultimissimo, del principio di non-contraddizione (di cui peraltro si serve anche il pensiero della società civile): la prima di esse la chiameremo ‘funzione di forza liberante’ per tutte le istanze conseguenti – nel più limpido nitore – alla purezza della ragione, la quale è nell’uomo la patria del Logos, dunque del Cristo, poi della Fede, della Chiesa, del Papa, del dogma, fino al principio di non-contraddizione, così da poter leggere l’asserto giovanneo sopra visto nel paradossale: « La catena vi farà liberi », « Le porte di bronzo vi libereranno », « Le catene di ferro vi scarcereranno»: Logos, Legge, Fede, Papa, dogma, Chiesa, danno alla ragione umana l’impulso, e massimo, a che essa Chiesa avanzi, si innovi, produca bellezza, verità, armonia, civiltà, benessere, perché la religione secondo ragione umanizza l’umanità e incivilisce la civiltà come nessun’altra forza al mondo, neanche la libertà. Vedasi l’apporto del cristianesimo alla civiltà occidentale, e scusate se è poco.
Ma contemporaneamente, e per lo stesso motivo, l’altra e opposta funzione di verità del katéchon, delle catene di ferro che sono tutte quelle tremende e soprannaturali realtà sopraddette (Logos, Cristo, Fede, Papa, dogma e via dicendo), è prigione, è vincolo, è forza che trattiene, e che pure percuote, fustiga, castiga e ricaccia nell’abisso (da dove proviene) l’Avversario, il Mistero d’Iniquità, satana e gli altri spiriti maligni, che è a dire le passioni maligne, l’irrazionalità malvagia, il Rivoluzionario, il Ribelle, la Rivoluzione, la Ribellione.
Il ferro dell’essere, liberatorio del sì e carceriere del no, svolge entrambe le funzioni, e la Fede, virtù di conoscenza per testimonianza, aggancia l’uomo alla prima e così lo salva e porta alla Gloria, ma, se rifiutata, lo incatena alla seconda.
Sicché un’Enciclica come si deve sulla Fede tutte queste cose le dovrebbe ben dire, e se non le dice sarebbe bene preoccuparsi che il suo silenzio non suoni appoggio alle tesi egoistiche della gnosi, cioè del borghesismo liberale, laico (e facilmente massone), che non considera affatto la verità come matrice di libertà e di carità, come invece è nella santa, luminosa e solida gnosi cattolica portata nel mondo da Cristo.
E con ciò, dopo aver rimarcato la differenza (tutta a favore della Chiesa) tra la visione gnostica e quella cristiana del rapporto tra katéchon e libertà allorché è in gioco la carità, qui si è potuto fare altrettanto allorché in gioco è la verità: la purezza del dogma, ferreo katéchon, nel senso di carcere, di qualsiasi Anticristo, è talmente potente da poter garantire di dare tanta vera libertà agli intelletti ripieni di Fede da offrire loro sia, in primis, la più forte garanzia di poter rendere (per grazia) la più bella ed eroica testimonianza cristiana, sia poi anche (sempre per grazia) la più aggettante apertura al futuro della vita nella civiltà, nella cultura, nelle arti, persino nelle necessità economiche, sia infine (e ancora per grazia) la più stabile solidità, che è quel che più preme, nel granito della verità.
Ciò fu promesso da Maria Vergine fin dalla primissima delle sue molte e molte apparizioni sulla terra (nel 41 d. C., a solo otto anni dalla morte e resurrezione di Nostro Signore, e non ancora assunta Essa in Cielo). Questa prima e materna apparizione avvenne a san Giacomo Maggiore, fratello di Giovanni, allorché, sul Tago, Ella volle rassicurare quell’apostolo, angustiato per la mancanza di frutti della sua predicazione, e gli predisse che la fede, lì, sarebbe stata invece rocciosa e forte come il granito di quel pilastro (‘pilar’ in spagnolo, da cui “Vergine del Pilar”) su cui lui la stava per l’appunto vedendo.
(Tornato a Ierusalem, nel ’43-4 l’apostolo sarà fatto decapitare da Erode Agrippa; da non confondere con Giacomo il Minore, figlio di Alfeo e Cleofa, cugino di Gesù, così detto perché chiamato al seguito di questi successivamente all’altro Giacomo; costui fu il primo vescovo di Ierusalem, martirizzato nel ’63).
C’è però da considerare forse, purtroppo, anche una terza possibilità, una terza funzione del katéchon, ma stavolta ‘funzione di falsità’, e non ‘di verità’: una terza realtà dunque, ma posticcia, fasulla, artefatta, e questa terza realtà è terribile, inaspettata, ripugnante: non se ne vorrebbe proprio parlare. Se se ne parla, è perché anch’essa è una realtà, e la realtà, anche la più scabrosa, se ciò diviene l’unica via percorribile per portare alla salvezza le anime, va pur detta.
Con essa il sacro Ferro della Legge non dà all’uomo la libertà, come avviene nella Chiesa secondo la promessa di Cristo (« La verità vi farà liberi »), né rinserra la gola a chi, come satana e i suoi, odia la verità, secondo la profezia di san Paolo (« Il mistero d’iniquità [l’Anticristo] è già in atto, ma è necessario sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene »), ma, sorprendentemente, con subdolo inganno tradisce in se stesso la propria missione e il proprio stesso essere: in questa terza via la Roccia tradisce la Roccia facendosi acqua, il Basalto il Basalto facendosi sabbia, il Ferro il Ferro facendosi argilla.
Se la Chiesa (se il Papa, se il Katéchon “che trattiene” le forze del male), nella sua configurazione storica, si fa essa stessa compartecipe, compagna, alleata del proprio nemico, compartecipe dell’antico Avversario, che dire, cosa pensare, che figura dare?
Sant’Ambrogio, commentando il Cantico, « Nigra sum, sed formosa » (1,5), riconosce che la Chiesa è santa e peccatrice: santa nella sua essenza soprannaturale, peccatrice nei suoi uomini – greggi e Pastori –, sempre passibili di cadere in qualsiasi genere di vizi e in qualsiasi comparto del male, compreso quello contro la virtù della fede, come purtroppo dimostrano i molti eresiarchi nati dalle sue stesse file.
Forse che la configurazione storica e transeunte della Chiesa è tanto peccatrice da farsi forse persino nemica, traditrice, della sua essenza sovrastorica e santa? Può avvenire ciò?
Stanti le parole di Cristo viste (« Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra? », e ripeto: non si chiede se troverà carità, ma fede), sventuratamente sì, ciò può avvenire: perché la domanda « troverà ancora fede sulla terra? », posto che la fede è portata dalla Chiesa, sua ragione prossima, può essere traslata in: « troverà ancora LA CHIESA sulla terra? », e la Chiesa potrebbe non essere più trovata o per opera dei suoi nemici esterni, come comunemente e giustamente si ritiene, che la vogliono da sempre annientare, analogamente al Cristo suo Capo e Modello di vita, ma pure a opera dei suoi nemici interni, in questo simili dunque a Giuda, dove l’Anticristo è dato dalla realizzazione della profezia di Cristo in Mt 24,15: « Quando dunque vedrete stare in luogo Santo l’abominio della desolazione, di cui parla il profeta Daniele, chi legge intenda! », laddove, con il riferimento a Daniele, GESÙ intende alludere a Dn 9,27: « Egli stabilirà un saldo patto con molti, per una settimana; in mezzo alla settimana farà cessare sacrificio e oblazione; e sulle ali delle abominazioni verrà un devastatore; e questo, finché la completa distruzione, che è decretata, non piombi sul devastatore ». Nel 167 a.C. il re greco Antioco Epifane fece erigere un altare a Zeus sull’altare del tempio di Ierusalem. Questo evento è conosciuto come “l’abominio della desolazione”.
“L’abominio della desolazione”, che pur culminerà con l’impossessamento da parte di satana, dell’Anticristo e di ogni forza che lo prepari e lavori per lui, del « luogo Santo », ossia del Trono più alto, che è a dire della Chiesa nella sua conformazione storica, non è qualcosa che avviene di colpo, ma, come si può intuire, è qualcosa che nasce e che si diffonde lentamente, proprio elaborando e divulgando una dottrina, che poi si radica dando vita a una cultura, a un modo di pensare che deve potersi espandere e trovare rispondenza e consenso nei popoli in un percorso di anni e anni, come è successo col liberalismo, e, nella Chiesa, ieri col modernismo e oggi, anche se nessuno ne parla, col dubitativo “martinismo”, con la “teologia della Liberazione”, con la « dislocazione della divina Monotriade » di cui entrambe sono, se pur in prospettive diverse, le logiche conseguenze, e con il conseguente spodestamento della “teologia dell’Annuncio” a opera della “teologia dell’Incontro”, che, di per sé, come si è visto, è solo una “non-teologia” che spodesta una teologia.
Spodestamento, questo, che – pur avvenuto sul piano della distorsione della realtà –, resta però impossibile che davvero avvenga, perché è impossibile che i due piani – del pratico e del teorico – possano intersecarsi: la “teologia dell’Incontro” si introna su un “luogo Santo” – quello della “teologia dell’Annuncio” – che non gli appartiene perché è luogo teoretico, è luogo ideale, è luogo conoscitivo e veritativo, è, come direbbe Livi, luogo “aletico”, ossia ‘portatore sano di verità’, e quell’altra (non) teologia invece è luogo pratico, attuativo, realizzativo, per il quale c’è necessità di essere in possesso dei dati veritativi intercettabili unicamente dal luogo a esso necessariamente previo della conoscenza.
Come fa dunque a salire la “teologia dell’Incontro” su un luogo tutto ortogonale e perpendicolare alla sua propria postura? Tentativo audace, ma insano. Un po’ come quello di Antioco Epifane, in fondo, che era sì riuscito a intronizzare una non-realtà sbieca e disassata come Zeus al posto della realtà diritta e solida del Dio di Israele, ma poi – se pur dopo atrocità inenarrabili – fu sbaragliato e ucciso (v. I-II Mc): la realtà (Dio) ha sempre l’ultima parola. Se no non sarebbe.
Ed è invece ciò che sta avvenendo da cinquant’anni: è la famosa « dedogmatizzazione » di cui qui si parla e di cui parlano, come visto, apprezzati uomini di Chiesa e chiarissimi filosofi come Antonio Livi, è l’« adogmatismo » di cui parlano illustri teologi come Brunero Gherardini (v. GHERARDINI 2011), è lo pseudopastorale « linguaggio di legno » in luogo del dogmatico « linguaggio di fuoco » di cui chi scrive disegna origine, intenzioni, modalità di diffusione e di governo, ma di cui mostra anche la possibile sconfitta – e la conseguente vittoria della Chiesa – nel già citato suo Il domani … del dogma.
Se le cose stanno davvero così, il momento parrebbe grave: si tratterebbe allora di scongiurare il consolidamento di una presa di possesso infausta, avvenuto il quale si accelererebbe – con la caduta della dottrina e, con essa, del principio di non-contraddizione che affigge la realtà a se stessa – la profezia di Daniele e del Cristo stesso. Non è il caso: son troppi i popoli ancora senza il santo Annuncio, e troppo persi quelli che, avutolo, lo hanno di recente abbandonato.
Saprà la Chiesa tornare a raccogliere la grande sfida del dogma, che è a dire la grande sfida contro la “bonomia per convenienza”, come seppe fare per duemila anni, o tenterà ancora di autodivorarsi nel relativismo dedogmatizzante insegnato sull’esempio degli ultimi arcivescovi di Milano, fino a quando Cristo stesso dirà “basta”?
Che il Signore e la ss. Vergine, Madre della Chiesa, assistano dunque la loro Sposa e Figlia: è arrivato il momento di rimettere la barra diritta sulla Stella Polare, non c’è tempo da perdere.
Ogni occasione è buona per “ridogmatizzare” il santo Annuncio e la sacra Liturgia perenne che ne è il più bel frutto. Nessuno può davvero permettere che l’Anticristo sia spinto, anche da sante forze, fuori della sua Voragine.
Enrico Maria Radaelli
Milano, 15 settembre 2013
Beata Vergine Addolorata.
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REFERENZE BIBLIOGRAFICHE ALL’ARTICOLO.
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AMERIO 2009/b = Romano Amerio, Stat Veritas. Seguito a “Iota unum”, ed. e Postfazione di Enrico Maria Radaelli, Torino: Lindau 2009.
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