Il liberalismo. È questa, per Romano Amerio, filosofo cattolico italo-svizzero del secolo scorso, la pervasiva ideologia da porre a primo obiettivo da combattere e a tutti i costi vincere, pena soccombere, malgrado essa si mostri (o forse proprio perché si mostra) apparentemente pacifica, dunque molto attrattiva e – a cominciare dal nome – ingannevolmente ammaliatrice.
Il liberalismo è infatti da cent’anni la vera prima fonte di ogni violenza sociale ideologicamente radicatasi in Europa nell’ultimo secolo.
Se il cattolicesimo non combatte e non vince il liberalismo sarà il liberalismo a combattere il cattolicesimo (lo sta già combattendo con successo da un secolo), e, fra non molto, anche a vincerlo.
L’antiliberalismo va senz’altro considerato il più universale orizzonte pratico, la più generale cornice del pensiero prepolitico e prereligioso del filosofo luganese, come si può riscontrare scorrendo i più di settecento aforismi pubblicati ora (I luglio 2010) dalla Lindau, ** valga per tutti il 471:
« Alcuni amici miei – vi leggiamo – si sono altamente stupiti perché, nella lettera a Messori sul discorso del Presidente Scalfaro, io ho parlato di totalitarismo liberale. Il totalitarismo infatti non riconosce alcuna legge sopra la volontà umana e ravvisa nello Stato l’attuazione dell’Assoluto che viene palesandosi. I regimi liberali dell’Ottocento hanno violato continuamente il diritto naturale. Hanno violato il diritto di proprietà, incamerando i beni della Chiesa. Hanno violato il diritto di associazione, sciogliendo le corporazioni religiose. Hanno violato il diritto individuale di scegliere il proprio stato di vita, obbligando chi eleggeva di farsi religioso a ottenere l’autorizzazione dello Stato. Insomma tutti quei soprusi, che la moderna società condannava nei regimi nazisti e comunisti, hanno il loro precedente in soprusi analoghi del liberalismo ottocentesco. La difesa dei soprusi veniva sostenuta in Gran Consiglio da Ambrogio Bertoni, da Carlo Battaglini, da Giovanni Airoldi, come ho dimostrato nell’analisi delle sessioni del Gran Consiglio. Ma i soprusi vennero celati o velati dalla storiografia moderna e cominciano appena ad essere scoperti e denunciati ».
Come si vede, al di là delle singole e pur vaste tematiche scorse dal Luganese in Zibaldone, delle sue pur acute considerazioni su pagine di Dante, di Leopardi o di Manzoni, al di là di sue noticille filologiche su motti dialettali o di conclusioni morali su un qualche apologo popolare, questo obiettivo primo, questo ameriano orizzonte generalissimo si prefigge di demolire – si intende: unicamente con le armi pacifiche ma forti della ragione e della grazia – ciò che potremmo chiamare oggi le città, i palazzi, le terre, le vigne, i giardini, per dir così, fintamente umanistici, falsamente liberi e fallacemente innovativi del liberalismo: demolire le sue costruzioni di carta e sabbia, i suoi giardini di aria e nuvole, le sue città vuote di essere e di persone, radere al suolo i suoi palazzi senz’anima e senza religione, le sue case svuotate del genuino, altruistico e soprannaturale amore per il prossimo, sradicare e gettare nel fuoco le sue vigne sterili di valori morali e di virtù (cose queste di origine divina e non umana), e solo per questo forti e imperiture e non labili e friabili, bruciare i giardini senza profumi e senza fiori: senza i profumi dei sacrifici e delle gioie soprannaturali e senza i fiori della freschezza delle nuove generazioni figliate in Dio santissima Trinità.
Amerio, forte della metafisica anticartesiana da lui stesso individuata, per la quale l’ordine delle essenze viene ristabilito nella sua sequenza soprannaturale (prima il Logos, poi l’amore), è a tutti gli effetti il primo filosofo a contrastare sul nascere, nel liberalismo, la più fontale matrice di ogni recente (e futura) ideologia perversa.
Per quanto riguarda il passato, egli è infatti il primo filosofo a individuare nel liberalismo la matrice di mostruosità anche opposte quali furono nazismo, fascismo e marxismo, e, riguardo al futuro, è il primo filosofo a individuare in quella filosofia la matrice di ogni più scellerata prospettiva socio-culturale che, non germinando dal pacificante, soprannaturale e unitivo comandamento cattolico, germina dalla pessima filosofia utilitaristica tematizzata più di chiunque altro da Niccolò Machiavelli.
Mi riferisco all’americanismo, al capitalismo, al laicismo, all’agnosticismo, al relativismo e al presente ecumenismo spurio; e mi riferisco persino, se si possono chiamare così (bisogna pur dar loro un nome ideologico, essendo, questi due fenomeni, prima che sociali, due fenomeni ideologici radicalmente anticattolici), agli egualmente machiavellici “borghesismo” e “mafiosismo” nazionali e internazionali, oggi ancor più e anche più incontrastatamente montanti.
Il liberalismo rappresenta per Amerio la matrice di tutte le ideologie enumerate, la cui caratteristica comune è la violenza. La cosa si vede, egli dice, ascoltando p. es. Benedetto Croce, idealista e appunto liberale, che a un certo amico suo, tal don Giustino Fortunato, secondo la testimonianza di Giacomo Devoto in La parentesi. Quasi un diario, così interloquisce: « Quante volte vi ho detto, don Giustino, che la violenza – così l’Aforisma 276 – è la levatrice della Storia? ». Con tali parole il celebre filosofo si appaia a Marx e a Lenin, che sostenevano il medesimo sul fronte del collettivismo. Croce (e con lui l’idealismo che in Germania covò il nazismo e in Italia il fascismo), Marx e Lenin (e con loro il marxismo da cui il comunismo) sono accomunati da un principio unico, che è la violenza sulla storia e la prevaricazione sulla ragione.
E qui sta il punto: l’originalità del pensiero di Amerio consiste infatti nel mettere in luce come il liberalismo sia una concezione contrastante direttamente il pensiero in quanto pensiero (v., p. es., l’Aforisma 34: « […] L’atteggiamento dello scienziato deve essere quello descritto nel diritto penale come frigido pacatoque animo. Deve cioè rifuggire da ogni desiderio di un determinato risultato e soltanto essere mosso dal desiderio di un risultato. Un’inclinazione, un pregiudizio, esplicito o implicito, tolgono quella pacatezza intellettuale che è una sorta di indifferenza alla verità. L’elemento che fa deviare l’intelletto può essere desiderio di gloria o desiderio di lucro o anche solo propensione a operare celermente e approdare presto ».
Allorché si afferma che «la violenza è la levatrice della storia» si pone l’autore dell’affermazione – il liberalismo – quale avversario solido del processo razionale dell’uomo, del sillogismo, con cui si compie la storia, ossia lo si pone avversario di quel bene sommo dell’uomo che è compiere un ragionamento.
Perché mai? perché il ragionamento esige, per ben svolgersi, tre imprescindibili condizioni: mitezza di conduzione, purezza di intenti, certezza di sé; come si vede, tre qualità anche solo di fatto negate dal liberalismo immanente e materialista e sostenute invece solo dall’amore per il ragionamento in se stesso e, nella sua pienezza, unicamente dal cattolicismo soprannaturale, il quale, patria del Logos, tale amore coltiva naturaliter.
Col liberalismo Amerio rigetta il machiavellismo, per il quale la ragione perde l’amore di compiere il ragionamento per se stesso (non le conviene) e viene invece asservita all’utilitarismo (v. l’Aforisma 513).
Il machiavellismo risulterebbe dunque l’avversario ultimo della ragione tanto quanto l’amore disinteressato, da cui nasce il retto ragionamento, è al contrario l’avversario di quell’utilitarismo da cui nasce il ragionamento per convenienza, la ragion di Stato, eccetera.
Si rende quindi necessario, in uno scritto come la mia Postfazione (che ho voluto intitolare per l’appunto “La soprannaturale armonia tra intelletto e realtà”), che vuole accompagnare una montagna di pensieri sulla verità e sul logos come è questo ameriano Zibaldone, fermarsi a illustrare in ogni particolare il grande meccanismo con il quale la mente umana compie con le tre sopradette specialissime qualità il delicato processo della ragione, la più quotidiana conoscenza della verità, posto che nelle prime due mie Postfazioni ai due precedenti volumi dell’Opera Omnia di Amerio promossa da Lindau mi ero già occupato in primo luogo dell’origine trinitaria sia della verità che della conoscenza della verità (v. “tutta la chiesa in uno iota”), in secondo luogo (v. “stat veritas, mendacium fugit”) di tutti gli aspetti della verità che possono garantire l’uomo di seguirla per giungere a Dio e così non morire, ma vivere in eterno e per sempre.
Tutto il percorso sarà tracciato e puntellato ovviamente dagli aforismi del Luganese, che ne costituiranno così la segnaletica più chiara e il terreno di sviluppo di percorso più rassodato.
§ 1 (p. 458: Uno zibaldone nella mente.): viene illustrato come si forma un intelletto, quali sono cioè i passaggi che universalmente vengono compiuti dall’uomo (ancora infante) per prendere coscienza di sé e dei propri ragionamenti, ossia del fatto che l’attività della propria mente è, come le vivande prelibate e fumanti portate in un banchetto, la vita dell’uomo in cui essa inabita.
§ 2 (p. 487: Sensus communis: le prime vivande sulla gran tavolata della mente.): è analizzato quali sono le prime e universali conclusioni compiute dalla mente. Tutte le menti di tutti gli uomini di tutti i tempi e di ogni terra, stato sociale e cultura giungono a elaborare in sé « un sistema di dati prefilosofici e prescientifici che interiorizzano in ciascuno di noi il riscontro oggettivo di cinque imprescindibili, necessarie e universali coordinate » (p. 488), il sistema mentale che Antonio Livi chiama “Sensus communis”.
§ 3 (p. 394: Splendore: è la luce che illumina la mente a se stessa.): viene colto ciò che permette alla mente di vedere dentro di sé ciò che essa è e fa. La luce della ragione naturale, che sarebbe meglio chiamare ‘luce alla ragione naturale’, è però un dono soprannaturale, tanto che Amerio giustamente la coglie come la parte davvero superiore, « quasi divina » (p. 495), dell’uomo.
Accanto a questo lume, che è il lume della coscienza, per le altrettanto cospicue sue primalità e potenza, viene posta pure la percezione che la ragione ha di sé, il sentimento che la ragione manda a se stessa di essere, di esistere proprio in quanto ragione.
§ 4 (p. 498: La sorridenza come stato dell’Essere e della Vita.), ovvero l’atmosfera, il clima, quasi l’ambiente, se si può dir così, in cui la ragione opera. Essendo questo stato d’essere fortemente contrassegnato da due fatti tanto positivi come sono la luce e la coscienza del proprio essere, l’ambiente in cui la ragione opera è lieto, è positivo, è solare, è ciò che si può dire uno stato di sorridenza, analogo in tutto all’essenza positiva, lieta e solare in cui opera e che è la santissima Trinità. Ciò è dovuto in primo luogo all’essere, che a se stesso in eterno assente, dice in eterno “sì”.
§ 5 (p. 500: L’uomo, dice Amerio, è portato naturalmente al vero.): viene illustrato qual è il rapporto tra mente e verità. « L’uomo, proprio per tale innata e riscontrata positività della propria ragione di trovarsi nell’essere e proferire a se stessa l’“io sono” in cui ciò riconosce e a sé felicemente trasmette, è portato per sua natura al vero; a causa della copula “È” percepita in sé dalla propria ragione l’uomo, come nota Amerio, è fatto e creato squisitamente, precipuamente “ per il vero, non per il falso e perciò restare nel falso gli riesce difficile” (Aforisma 587) » (pp. 500-1).
Viene portato un parallelo tra le conclusioni di soggettivisti e relativisti e il “misoneismo”, « l’‘orrore di qualsivoglia novità, da qualsiasi parte provenga’ » (p. 505), giacché relativisti, soggettivisti e scettici si dicono progressisti, ma in realtà sono psicologicamente regressivi, emotivamente nostalgici, sentimentalmente conservatori, progredienti all’indietro in un cammino tutto invertito dal tentativo impossibile ma affascinante e onirico di tornare a quell’umanità prerazionale e preinfantile che hanno con l’infanzia lasciato.
Si mostra qui quanto lo scetticismo che ha pervaso l’Occidente chiuda filosofi e artisti in un mondo che è tutto e solo loro, privato delle naturali, vive e sante conclusioni cui erano stati condotti dalla naturale inclinazione che l’uomo ha per il vero segnalata da Amerio e sistematizzata dal sensus communis illustrato, come visto, da Livi.
§ 6 (p. 516: Teodicea. Il pungolo più terribile al pensiero.): è descritta qual è la cosa che più mette in difficoltà la mente, il suo stato naturale di essere mente e l’inclinazione naturale per il suo fine: la teodicea, la presenza del male nel mondo, perché il concetto di male, non provenendo da Dio, confligge con la ragione: è un concetto in verità irrazionale – Amerio dice “ateoretico” –. Il male proviene da una passione (in primo luogo quella di un angelo per se stesso). Al contrario del bene il male nasce fuori della ragione, ha la sua radice nel rifiuto della ragione.
Giustificare dunque il male e accettare la presenza contemporanea di Dio e di male fa alla ragione umana difficoltà: vengono mostrati i due diversi atteggiamenti: di Esdra, re di Israele anticipatore di Cristo, e di Cartesio, il matematico che attribuendo a Dio l’arbitrarismo assoluto tolse il tappo allo spirito liberale.
§ 7 (p. 520: Veritas: la Straniera pretendente al trono dell’intelletto.): si viene a conoscere come si muove il rapporto sopra visto tra intelletto e verità: l’intelletto, per vivere, deve scegliere se far entrare o no la verità in sé, e poi se darle o non darle il trono che merita.
Il sistema antropologico attuale glielo nega. La Chiesa, oggi inclinata anch’essa a tale negazione di fondo, di suo invece glielo offrirebbe anche splendidamente, essendo fondata e retta dal Logos, dalla Verità. Se oggi la Chiesa non fosse spinta a concedere al mondo la sua essenza, avrebbe sul suo trono la Verità (la Verità dell’amore), ma oggi essa è spinta a mettere sul trono tout court l’amore. È una sottile differenza, ma disassa il mondo. Mettiamo sul trono la verità o vi mettiamo un amore non si sa quanto vero?
Qui si vede cosa dicono in proposito san Tommaso e i Padri della Chiesa e cosa significhi il detto di Sant’Ignazio d’Antiochia: « La fede è il principio, l’amore il fine » (p. 522).
Mettere sul trono la verità significa obbedirle (e anche in foro interno).
§ 8 (p. 527: Il magistero della verità.): viene chiosata la dimensione sociale e perciò ecclesiologica che la verità ha di tale suo necessarissimo moto verso l’intelletto e di tale sua ancor più necessaria autorità. « La Chiesa comanda [...] atti interiori e precisamente comanda di essere persuasi » (Aforisma 582, p. 528). Questo è il punto su cui si accentra il dissidio tra liberalismo e cattolicismo; si dimostra che solo la vittoria della legge, del Logos, dà alla Chiesa la pienezza di carità che da lei ci si aspetta, la pienezza di carità del suo insegnamento allorché dogmatico.
È richiamata qui quella che per Amerio è l’imprescindibile « legge della conservazione storica della Chiesa » già segnalata nella prima Postfazione (v. “tutta la chiesa in uno iota”, p. 698), per la quale « la Chiesa non va perduta nel caso non pareggiasse la verità, ma nel caso perdesse la verità » (p. 530). È illustrata la necessità per la Chiesa postconciliare non solo – come richiesto da insigni prelati quali mons. Brunero Gherardini, mons. Mario Oliveri e mons. Malcom Ranjith – di esporre una definitiva dottrina sulla « ermeneutica della continuità », ma di esporla con l’autorevolezza del carisma dogmatico, necessaria perché nessuno poi possa più prescinderne. Solo la certezza della verità dogmatizzata può dare alla Chiesa la garanzia della sua più intima e certa stabilità nel reale, primieramente in Dio, bruciando nel dogma dottrine falsissime insegnate nel postconcilio, come quella p. es. per cui « le “tre grandi religioni monoteiste” adorano lo stesso Dio », e un Papa può baciare il libro sacro ai maomettani.
§ 9 (p. 544: L’obbedienza come più alto atto d’amore.): come si stempera il ferro dell’obbedienza al fuoco dell’amore. Dimostrato che il Nuovo Testamento pullula di luoghi in cui è richiesta obbedienza tanto come il Vecchio, si dimostra come tale obbedienza riceva da Cristo la sua forma perfetta.
“Obbedire per amore” è l’atto di fede filiale, il sacrificio più alto, sottolinea Amerio, che l’intelletto umano può fare (p. 549).
§ 10 (p. 561: Libertà e licenza di coscienza.): come si fugge o si resta nella mente. Discussione della dottrina sulla libertà religiosa insegnata (ma “pastoralmente”) dopo il Vaticano II: « La libertà religiosa è talmente inviolabile da esigere che alla persona sia riconosciuta la libertà persino di cambiare religione, se la sua coscienza lo domanda ». « Il concetto – si spiega – sarebbe corretto se fosse chiaro che l’ipotesi è quella per cui da una religione falsa [...] l’uomo sente in coscienza di passare alla vera: la coscienza infatti è preposta a suggerire inequivocabilmente e sempre dove risiede la verità e dove invece l’errore di condotta » (p. 567).
§ 11 (p. 572: Conclusioni: unità, pace e carità o invece disgregrazione, violenza ed egoismo.): viene illustrato se tutto ciò porta all’unità, all’armonia e alla felicità o alla distruzione di sé.
« La saggezza – si legge nell’Aforisma 1, qui portato a chiusura della Postfazione – non è un’assoluta autocrazia e indipendenza dell’anima, ma un’obbedienza e subordinazione di essa alle cose superiori, mediante la quale essa acquista la capacità di dominare e subordinarsi le cose inferiori. Soltanto così l’anima divien subordinante e signora. Servire Deo libertas est. L’umiltà e la libertà sono ugualmente necessarie » (p. 573).
« La subordinazione alle cose superiori fa l’anima regina delle inferiori. Come si vede, il Logos (la Legge) è la chiave di volta universale per raggiungere l’unità, la pacificazione, la carità, [ossia] la felicità; dunque con Dio l’unità conquistata attraverso l’obbedienza al Figlio suo, al Logos, permette l’unità dell’Io umano con se stesso, del genere umano stesso in tutti i suoi Io e del genere umano con il creato » (di seguito).
Si portano infine al § 12 (p. 576: Qualche nota sulla vita di Romano Amerio.), alcune essenziali notiziole biografiche sull’esimio Autore.
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DALLA QUARTA DI COPERTINA.
« Soltanto nella solitudine della meditazione
è possibile scoprire la profondità della vita ».
« Servire Deo libertas est. L’umiltà e la libertà
sono ugualmente necessarie ».
« Gli antichi ravvisavano la potenza vitale nel durare
e nel persistere, i moderni invece credono che l’espressione
principale della vita sia il movimento e l’irrequietudine ».
Romano Amerio
“ZIBALDONE”: DESCRIZIONE DELL’OPERA.
Dopo Iota unum, aggiornata Summa metafisica cattolica, e Stat Veritas, analisi e commento in 55 chiose della Lettera apostolica di Giovanni Paolo II Tertio Millennio Adveniente del 1994, prosegue con Zibaldone – edito per la prima volta in un volume unico – la pubblicazione dell’Opera Omnia di Romano Amerio.
Composto da più di 700 pensieri di varia lunghezza, argomento, tenore e origine, Zibaldone raccoglie la produzione più libera e occasionale del grande teologo svizzero, che si è venuta formando nel corso di una vita e di una riflessione che copre un arco temporale di più di mezzo secolo, dagli anni ’30 agli anni ’90.
Questo libro, dal suggestivo e non casuale titolo leopardiano, contiene aforismi, brevi racconti, squarci di vita quotidiana, apologhi e dialoghetti morali, citazioni di classici, note filologiche sull’etimologia delle parole, riflessioni nate da occasioni quotidiane o da fatti storici.
Considerato modestamente da Amerio « soltanto un centone di cose disparate, incoerenti e improvvise », costituisce in realtà una sorta di autobiografia intellettuale dell’autore di Iota unum.
Il lettore può visitare così il laboratorio speculativo quotidiano nel quale il grande studioso cattolico si confronta con le tematiche più diverse, dalla storia alla letteratura, dalla filosofia alla cronaca, dal costume alla vita della Chiesa.
In questi pensieri profondi e mai banali, nati come esercizio privato e scritti con stile limpido, Amerio si rivela un osservatore acuto, originale, ironico e spesso sorridente della nostra modernità.
** La Lindau ha voluto raccogliere in un unico tomo i sei preziosi libretti stampati a suo tempo dal grande amico di Amerio, il professor Mario Agliati, nelle sue edizioni «Il Cantonetto», oggi tra i cult di Lugano.
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ERRATA CORRIGE.
A p. 21, la nota 8: «Il fatto non compiuto non può considerarsi avvenuto» va letta classicamente, spostando il primo ‘non’ davanti a ‘avvenuto’: «Il fatto compiuto non può considerarsi non avvenuto». Chiedo venia.
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(Pagina protetta dai diritti editoriali.)
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