Scheda: Edizione pro manuscripto Aurea Domus, dedicata al Pontificium Consilium de Cultura, Prefazione di Roger Scruton, Interventi di Mons. Brunero Gherardini, Alessandro Gnocchi - Mario Palmaro e di S. E. R. Mons. Mario Oliveri; Milano, gennaio 2013; in formato aureo, cm 14 x 25,, pp. 262 + XX, € 35 (distribuito a Milano dalla libreria Hoepli; a Roma dalla libreria Coletti).
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I capitolo. Ogni ente ha il suo essere nella forma. Se dunque si dimostra (§§ 1-9) che la forma di un certo ente è in qualche modo mancante, lo sarà anche il suo essere e quell'ente è nullo. Si applica qui dunque per la prima volta il processo ‘formale’ al Vaticano II, tanto più se per ‘forma’ si può intendere, come qui si dimostrerà corretto intendere, sia il nous o contenuto di un ente che il suo aspetto o linguaggio.
In particolare, si potrà capire che tutti i mali di cui oggi soffre la Chiesa in ogni ambito dipendono da un ‘male totale’ che tutti li origina: il male formale, il male della Chiesa di essere da cinquant’anni forzata a presentarsi per una Chiesa che, svuotata di sé, né è, né può essere; forzata a presentarsi, vano ma ostinato tentativo, 'Chiesa pastorale’ (ma è ‘finto-pastorale’: è iperpastorale) invece che Chiesa dogmatica, invece cioè che quella Chiesa dogmatica che metafisicamente sempre è stata e che, salvo por mano dogmaticamente alla sua dedogmatizzazione, sempre e necessariamente sarà (§ 5).
Per prima cosa va verificata (§§ 10-15 b) l’esistenza della correlazione biunivoca tra nous e aspetto, che è a dire tra Verità e Bellezza. La si trova nella ss. Trinità, dove Logos e Imago coincidono nel Figlio. A Logos si dimostra corrispondere la Verità come a Imago la Bellezza, e a tutti e quattro una certa interscambiabilità. La conclusione (§ 16-16 a) è che la forma del Vaticano II può essere giudicata dal linguaggio dei suoi documenti, conformi alla sua essenza come la Verità alla Bellezza, cioè il contenuto al suo aspetto: se esso è “proprio”, anche la forma del Vaticano II sarà “propria”; se non lo è, non lo sarà neanch’essa.
Per secondo si verifica (§§ 17-18) se esista e che linguaggio sia un linguaggio divino, un linguaggio cioè intrinseco all’essere e alla ss. Trinità. Esso esiste, si chiama “Linguaggio dogmatico” e serve a far conoscere il Padre alle creature (e, nella Trinità, a contemplarlo, §§ 19-20). Da esso discende ogni altro linguaggio umano: tutti meno perfetti ma tutti necessari alla completezza della conoscenza delle cose, fino all’ultima: quella del Padre. Esso è dato da Imago, il linguaggio di Logos, che è a dire la Bellezza della Verità; dunque è lo stesso Cristo, incarnazione di Logos/Imago (§§ 21-21 c).
Si può (si deve) concludere il I capitolo con la constatazione che (§ 22) l’imperatività dogmatica dell’insegnamento della Chiesa discende direttamente dalla ss. Trinità e la Chiesa ha come linguaggio suo proprio e “tipico” precisamente e non altri che il linguaggio dogmatico.
II capitolo. Originalità totale del linguaggio dogmatico della Chiesa nell'infinita varietà delle sue specifiche modalità manifestative; sua specifica caratura (§ 23). Analisi di alcuni aspetti salienti del linguaggio dogmatico, da distinguere dal teologico (§ 24): è il più tipico linguaggio dell'amore (§ 25); è naturale e non artefatto (§ 26); è sommamente cristico (§ 27); è per natura autoritativo e obbligativo (§§ 28-32).
Riconosciute le basi teologiche, anzi tomistiche, del “linguaggio tipico” della Chiesa (dogmatico, asseverativo e obbligativo), eccone i fondamenti scritturali, limitati al NT (§ 33).
Mostra della diversità di linguaggio usato nella Chiesa dal Vaticano II in qua e di quanto la sua natura, anche a parere degli stessi novatori, incida sulla forma dello stesso (§ 34) e persino sull’ordine logico-normativo della realtà (§§ 35-6); infatti tutti i concili ecumenici della Chiesa hanno costantemente usato una forma e un linguaggio sempre e solo dogmatici (§ 37), mentre la forma e il linguaggio del Vaticano II non sono propriamente nemmeno “pastorali” (§ 38).
Opposizione dei due modelli teoretici di Chiesa presenti dopo il concilio, il dogmatico e il non-pastorale (§§ 39-41).
Si possono così illustrare le cause per cui sono state congetturate la forma non-pastorale e le sue risultanze del tutto vane, che pongono la Chiesa in un vicolo cieco (§§ 42-5).
Illustrazione della fondamentale tesi di Romano Amerio sul rapporto Chiesa/Verità, tesi che è a base dell’individuazione della via – dell’unica via – per far uscire la Chiesa dalla crisi che la sta stringendo da cinquant’anni (§ 46) tra i due cippi liberali chiamati « Dislocazione della divina Monotriade », e « Ambiguità tra rottura de voce e continuità de facto » (§ 46 a), posto che né si può cancellare il “vecchio” modello teoretico, basato sul linguaggio dogmatico, né formalizzare il nuovo, basato sul non-pastorale (§ 47), possibile esito, questo, di peccati contro la verità – verificandone la possibilità almeno teorica – compiuti anche dagli ultimi Papi (§ 48).
Per tirare alle conclusioni, è rivisitato in chiave estetico-linguistica il nesso uomo/realtà dato dalla nota affermazione aristotelico-tomista « veritas est adæquatio rei et intellectus » (§§ 49-9 b), così da mostrare in tutta la sua forza la necessità del ritorno a un munus docendi impostato sul dogma (§§ 50-2), anzi, propriamente – posto che il vero responsabile della crisi è il linguaggio –, sul linguaggio del dogma (§ 53).
Ma la Chiesa non può ritrovare la pace senza recuperare la sua nota di “unità di spirito”, per cui tradizionisti e novatori debbono sapersi incontrare nella carità, ossia combattere le proprie idee senza sbranarsi a vicenda (§ 54).
III capitolo: conclusioni. Si articolano in una considerazione generale e in quattro specifiche: dimostrato che un linguaggio della Chiesa esiste, che è di origine divina, che è stato volutamente tralasciato dal Vaticano II in poi optando per una forma linguistica (e, da ciò, sostanziale) radicalmente inadeguata al grado del suo magistero, bisogna riconoscere che il primo strumento che muove e cambia la Chiesa, e da essa il mondo, è il linguaggio, sicché la Chiesa deve riprendere a parlare col suo linguaggio d’amore, il dogmatico, abbandonando la “lingua di legno” artefatta e ingannevole usata in sua vece (§ 55), giacché i due modelli teoretici di Chiesa sortiti dal Vaticano II sono irriducibili uno all’altro (§ 55 a), per cui si renderà necessario che il magistero del Papa torni al suo stato ordinario, al primo modello, tutt’uno col dogma (§ 55 b); ciò egli può fare attraverso la via, qui vista unica per validità intrinseca ed estrinseca, dedotta dalla tesi di Amerio, (§ 55 c); si spera siano presto molti i vescovi che auspichino venga percorsa tale via e che, per il bene della Chiesa e come unico vero servizio all’alto magistero del Papa, ne incoraggino la migliore e più celere riuscita (§ 55 d).
Conclude una riflessione “fuori campo”, per la quale quello illustrato parrebbe il solo modo per prepararsi ad affrontare (e non sarà fra un secolo) un Vaticano III, sapendo che la forma non-pastorale con cui i novatori lo vorranno aprire andrà rigettata in toto come del tutto impropria al munus del suo insegnamento, dunque invalidante il medesimo (§ 56).
Illustrazione infine (§ 57) dei motivi per cui il libro è stato dedicato al Pontificium Consilium de Cultura.
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