PROEMIO.
Quale fu il primo, tra i tanti tormentoni teologici, che per lunghissimi anni afflisse la Chiesa e svanì poi per sempre davanti allo splendore di una dichiarazione dogmatica?
Cento anni se li prese tutti il tormentone ariano «omooùsios o non omooùsios?»; e decenni durò quello su «Madre di Dio o non Madre di Dio?»; il più celebre, su «maculata o non maculata?», fu chiuso da Pio IX nel 1854 dopo ben sei secoli di discussioni. Quello su «grazia o libero arbitrio?» portò in campo finissimi teologi gesuiti e domenicani; lo sospese, sfibrato, Paolo V, lasciando aperto un margine attraverso cui la diatriba gorgoglia sotterranea tutt’ora.
A chiudere anche la più querula questione basterebbe che ognuno, in tutta semplicità, si attenesse alla logica aletica, per la quale da certe premesse discendono unicamente certe conclusioni; e riconoscesse poi, sulla base del principio di non contraddizione, la non appellabilità al criterio del «sì però», perché anche i più sofisticati “distinguo” si esauriscono nella stretta sia dell’essere (una cosa è quella cosa e non altre), sia della logica aletica (che a un certo punto non ammette più repliche).
Ben a ragione Papa Gregorio Magno sosteneva che la più parte di errori ed eresie fiorisce non dal ragionamento «frigido pacatoque animo» (fatto con animo scevro da passioni), ma dalla più funesta e stolta delle erinniche nemiche della ragione: la vanagloria.
1. CONCILIO VATICANO II: PASTORALE O DOGMATICO?
Con riferimento al Vaticano II, di cui stiamo per celebrare nel 2012 il 50° anniversario di apertura e nel 2015 quello di chiusura, da cinquant’anni il tormentone teologico tutt’ora e dovunque dilagante è: «fallibile o infallibile?», che è a dire: «pastorale o dogmatico?».
Da cinquant’anni – c’è forse qualcuno che non se ne sia accorto? – nella Chiesa non si discute d’altro, e quando anche si discute d’altro, si ricade invariabilmente qui e solo qui, perché qui e solo qui è lo snodo che dà o non dà valore a ogni discussione su una qualsiasi delle dottrine che trapassano da parte a parte la Chiesa d’oggi, travagliandola (alcuni dicono distruggendola, altri rinnovandola) come mai prima d’ora. Lo snodo attraverso il quale si cerca d’introdurre nella Chiesa tante novità dottrinali sta tutto nella formula che definisce la qualità del magistero conciliare: «pastorale o dogmatico?».
L’odierno refrain teologico si ripropone anche come «continuità o discontinuità?», chiara eco dell’analisi di Benedetto XVI nel suo Discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005: «riforma nella continuità o riforma nella discontinuità», vale a dire nella rottura?
Qui “continuità” significa perfetto anche se non immobile mantenimento della Tradizione apostolica e del suo soggetto, la Chiesa; “discontinuità”, invece, ogni sostanziale rottura, fosse anche minima, della accennata continuità.
Ma, come ben si vede dalla storia, va ringraziato Dio perfino dei tormentoni teologici che ci manda: essi sono, se non l’unico, certo un formidabile mezzo per permettere al magistero e alla teologia di precisare il grande «discorso su Dio», ovvero una sempre più chiara e approfondita conoscenza della divina Rivelazione in tutti i suoi termini: per esempio la conoscenza indubitabilmente certa cui si è giunti del mistero trinitario, dell’incarnazione e redenzione del Verbo, del nesso tra Cristo, Maria e la Chiesa, quindi della nuova Alleanza e dei dogmi nei quali la Chiesa ha precisato il contenuto di essa, condannando o scongiurando drammatiche lacerazioni al suo interno.
Si noti come le questioni che tormentarono la Chiesa nella sua bimillenaria fatica furono tutte assolutamente sostanziali intorno a qualche dottrina veramente decisiva, a un particolare ma rilevante aspetto dell’economia della salvezza, a uno specifico articolo di fede che, se inteso e formulato bene, avrebbe chiarito ancor più la gloria di Dio e la sua bontà verso di noi, ma, se male, avrebbe rovinato, per l’analogia unitaria dei singoli dogmi, tutto il divino edificio della dottrina cristiano-cattolica.
Quella che si trascina da cinquant’anni è una polemica non su un semplice problema di forma, ma sull’alternativa tra pastoralità e dogmatismo, formulata in apertura della solenne assise conciliare.
Peraltro, anche la polemica ha un enorme valore, soprattutto quando richiama le regole che governano la formulazione della verità rivelata; sia dunque benedetta pure la presente polemica, se contenuta nel rigore della logica aletica che si diceva. Se invece fosse l’espediente per succhiare il sangue della Chiesa e annullarne la vitalità, che la si getti subito tutta nel fuoco.
All’importanza e ineludibilità della metodologia critica non può affatto sottrarsi la teologia, magari per seguire le mode del momento; e in certi miei lavori, le Postfazioni alle opere di Amerio edite da Lindau e ora, più in profondità, in La Bellezza che ci salva, dimostro quanto sia lontano da detta metodologia il criterio d’una pastoralità che determina il relativismo degli stessi asserti dottrinari.
Le parole in oggetto, che danno la definizione formale che cerchiamo, pronunciate da Papa Giovanni XXIII nei modi e nei tempi più appropriati, ossia nel solenne Discorso di apertura dell’Assise conciliare, non lasciano dubbi sul loro significato: «La forma di esposizione [del concilio ecumenico Vaticano II è] di indole prevalentemente pastorale» (Gaudet Mater Ecclesia, 6.5). «Prevalentemente», leggiamo, giacché anche l’ideatore del concilio prevede che i suoi documenti possano richiamarsi a verità dogmatiche già presenti nel deposito della Chiesa.
Sarebbe stato opportuno, pertanto, mettere in chiaro, sì, l’indole “mere pastoralis” del concilio, ma senza sbarrare aprioristicamente l’ingresso al dogma in quanto tale.
Formalmente, tutto appare concluso qui: qui infatti, cioè unicamente nel previo pronunciamento della Cattedra papale, il concilio riceve la sua forma.
Ogni altra forma che gli si conferisse successivamente non avrebbe alcuna sussistenza, giacché un ente riceve la sua forma in fase di progettazione da parte di colui che lo concepisce e lo determina, mantenendone il pieno controllo “per se vel per alios” in fase d’attuazione.
In tutti i casi, quelle parole verranno riprese pari pari da Paolo VI, subentrato nel frattempo a Giovanni XXIII, nel suo Discorso di apertura della Seconda sessione, § 2.4, e ancor meglio al 4.4: «Ci sembra venuto ora il tempo nel quale si debba più profondamente esaminare, riordinare, esprimere la verità sulla Chiesa di Cristo, forse non con quei solenni enunciati che sono detti definizioni dogmatiche, ma piuttosto facendo uso di dichiarazioni in cui, con un magistero più chiaro e autorevole, la Chiesa si pronuncia su ciò che pensa di se stessa»; il concetto sarà dal Pontefice ripreso e ancora una volta confermato, ce ne fosse stato bisogno, anche alla chiusura della Quarta e ultima sessione conciliare: «Il magistero della Chiesa, pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche […] ha assunto la voce facile e amica della carità pastorale». Le conferme dell’indole pastorale sono dunque più che abbondanti e sicure; resterà a molti incomprensibile soltanto come un magistero pastorale possa essere «più chiaro e autorevole» di un pronunciato dogmatico.
2. I DUE MOTIVI OPPOSTI PER CUI
PER «TRADIZIONISTI» E NOVATORI L’«INDOLE PASTORALE»
DEL CONCILIO È PROVVIDENZIALE.
Sicché tutti i teologi e il magistero stesso sono d’accordo nel riconoscere, come ben si esprime Brunero Gherardini nel suo Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, p. 90, che si sta parlando «di un Concilio che, fin dalla sua convocazione […], escluse formalmente dal proprio orizzonte l’intento definitorio». Ma se tutti son d’accordo sull’«indole pastorale» del concilio, a che il tormentone? Dov’è mai il problema?
Il problema è proprio qui. Qui le speranze dei «tradizionisti» – uso qui intenzionalmente un neologismo, una parola cioè che, non esistendo nel vocabolario, indica però con precisione una nozione essenziale, tradizionismo, da tradizione, in luogo del classico tradizionalismo, da tradizionale, poiché tra i due concetti (vedi La Bellezza che ci salva, p. 289, nota 31), «c’è una differenza, dall’etimo, persino oppositiva»: l’uno denota vita, moto, continuità, futuro; l’altro immobilismo, attaccamento allo status quo, vago senso di morte; sicché tutti noi uomini fedeli alla tradizione, che per dispregio veniamo detti ‘tradizionalisti’, dovremmo invece essere chiamati ‘tradizionisti’, ‘portatori del moto della vita che dal passato si fa presente per progredire con audacia nel futuro’ –; e qui ancora, in secondo, come dicevo, le illusioni (del tutto infondate) dei neomodernisti, o novatori, come saranno chiamati d’ora in avanti i facitori di novità (in buona o in mala fede che siano).
Qui, dico, perché questo formale riconoscimento di un’indole strettamente pastorale permette alle due opposte posizioni teologiche di garantirsi la copertura necessaria (copertura ai primi reale, ai secondi fittizia) per esercitare due opposte operazioni:
1) ai tradizionisti l’«indole pastorale» garantisce l’assenza nel magistero conciliare di novità dogmatiche non provenienti dalla Tradizione ecclesiale e capaci, perciò, di operare nella Chiesa una qualche anche minima rottura formale;
2) ai novatori, che ripropongono oggi quella Nouvelle Théologie già condannata da Pio XII con la Humani Generis, l’«indole pastorale» apre surrettiziamente un pertugio per far entrare nella Chiesa novità non componibili con il quadro dogmatico della fede cristiano-cattolica, stante la loro provenienza dall’odierno immanentismo, novità spurie e desantificanti che essi bramano nascondendosi la loro cattiva natura, senza doverle far passare all’unico vaglio, il dogmatico, che le certificherebbe inequivocabilmente per ciò che sono: tutte figlie dell’odierno naturalismo del mondo.
3. LA QUESTIONE DELLE NOVITÀ DOTTRINALI.
L’«indole pastorale» è dunque utile a entrambe le sponde, se pur per opposti motivi: all’una per coprire fin dall’inizio, nelle novità che l’altra propaga, il mortale veleno desoprannaturalizzante di cui sono impregnate; all’altra per velarlo e così servirsene senza censure. Di quali novità si tratta?
Merita notare che, per quel che si poteva capire del concilio al suo inizio, nessuno si aspettava e nessuno annunciava novità alcuna: Papa Giovanni XXIII aveva chiaramente affermato che era intenzione del concilio solo quella di avvicinare la Chiesa al mondo.
Ma proprio qui, in tale «apertura al mondo», sta almeno implicitamente la ragione dell’interminabile tiritera su «fallibile-infallibile», «pastorale-dogmatico», «continuità-rottura» eccetera. I sostenitori della Nouvelle Théologie, i vari Chenu, De Lubac, Congar, Rahner e altri, non fecero mistero dei loro intenti modernisticamente innovatori, di cui affidarono il compimento a interi episcopati senza che il Pontefice, già di suo sensibile a quei clangori, vi si opponesse.
Ci vollero solo due giorni dalla sua apertura per far esplodere nel concilio un disegno cospiratorio paziente ma determinato: il 13 ottobre 1962 il cardinale Liénart mise a segno con un colpo di mano la rottura della legalità conciliare buttando a mare due anni di lavoro preparatorio del quale peraltro lo stesso Pontefice si era compiaciuto.
Entrano così nel concilio le novità cui si riferirà Papa Paolo VI all’udienza del 12 gennaio ’66, o in quella del 2 luglio ’69: «La parola “novità” ci è stata data come un ordine, come un programma».
Muro portante della sponda novatrice è che ciascuna di tali novità sarebbe in continuità con l’equivalente dottrina pregressa. I tradizionisti fanno invece notare che l’asserto è, sì, affermato, ma mai però dimostrato.
La prima e del tutto inaspettata caratteristica dell’odierno tormentone è che campioni di novità non sono solo cardinali, vescovi e teologi, ma anche, se non proprio in prima battuta, i Papi.
Si tratta d’una peculiarità originale, che introduce l’elemento più forte del problema e lo drammatizza; ma si vedrà, dimostrando come tutto ciò avvenga, che questo è un falso problema.
4. I TRE GRADI DI MAGISTERO: I DUE DOGMATICI E IL “PASTORALE”.
Cominciamo dal punto che raccoglie l’accordo universale: tutti difatti (ma non quelli della Scuola di Bologna, per la riserva mentale storicistica che da sempre li contraddistingue) consentono all’infallibilità delle dottrine già definite dal magistero ecclesiastico presenti nei testi conciliari, in particolare (ma non soltanto) nelle quattro Costituzioni dette appunto «dogmatiche».
Il consenso cessa sull’infallibilità di ciò che i novatori hanno presentato come sviluppi dottrinali di dette definizioni, e che i tradizionisti invece considerano come novità assolute perché del tutto inconseguenti dalle definizioni medesime.
I difensori della continuità rispondono affermativamente a tale quesito, giacché in caso contrario la continuità si volatilizzerebbe.
Dunque la domanda è: può lo sviluppo magisteriale di una dottrina di fede essere uno sviluppo falso?
Sì, lo sviluppo di una dottrina vera di per sé può essere falso, perché la portata della premessa può essere soggettivamente falsata.
Nel caso d’un concilio, dalla premessa vera, anzi infallibile, di precedenti definizioni, potrebbe non necessariamente procedere una conclusione altrettanto vera, o per la ragione anzidetta, o perché il concilio fin dal suo esordio abbia preferito assumere una posizione non formalmente irrigidita dal precedente patrimonio dogmatico.
Quando si trova un problema interpretativo di questa natura, il criterio più corretto è interpretare il corollario logico di una dottrina vera alla luce in primo luogo della logica aletica che si diceva, dimostrando che non è un corollario né logico né aletico, quindi alla luce della tradizione, dimostrando che non è in linea neanche con la tradizione.
Questo accadde all’ultimo concilio, dichiarato formalmente pastorale, come visto, almeno tre volte: in apertura, che è quel che conta, poi all’apertura della Seconda sessione e per ultimo in chiusura; sicché in tale assemblea da premesse vere si è potuti giungere, a volte, anche a conclusioni almeno opinabili (a conclusioni che, canonicamente parlando, rientrano nel 3° grado di “costrizione” magisteriale, quello che, trattando temi morali, pastorali o giuridici, richiede unicamente un «religioso ossequio»), se non «addirittura errate», come riconoscono gli stessi novatori contraddicendo se stessi (cfr. Libertà religiosa. La Chiesa era nel giusto anche quando la condannava?, Post Scriptum 2a), «e comunque non infallibili» (Idem), e che quindi «possono essere anche mutate» (Idem). Pertanto, tali conclusioni vincolano non formalmente come se fossero dogmatiche, ma “solo” moralmente , in considerazione dell’alta Cattedra che le proclama.
D’altronde, se a gradi diversi di magistero non corrispondono gradi diversi di assenso da parte del fedele, non si capisce il perché dei gradi diversi di magistero. I gradi diversi di magistero sono dovuti ai gradi diversi della loro prossimità alla divina Rivelazione.
È quindi ovvio che alle dottrine direttamente da Dio rivelate si debba un ossequio totalmente obbligatorio (1° grado) e alle dottrine con queste connesse e come tali definite dal magistero ecclesiale sia dovuto un identico ossequio (2° grado); le dottrine indubbiamente connesse con la fonte rivelata ma prive della definizione ecclesiale non appartengono né al 1° né al 2° grado, sono però meritevoli di un ossequio interno ed esterno come espressione del principio del Lérinense, recepito nel Vaticano I (quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est).
I tre gradi garantiscono ai fedeli l’autenticità della dottrina ecclesiale. Il garante in ognuno di essi è il munus dogmatico della Chiesa (Mt 16, 16-19; 18, 18), alla quale fu assicurata, alle condizioni ricordate, l’assistenza infallibile dello Spirito Santo.
Quel munus, pertanto, crea nei fedeli il vincolo della obœdientia fidei, ed esige da parte della Chiesa la stessa obbedienza alle condizioni che la rendono infallibile.
Il vaglio per riconoscere a una dottrina la certezza dovuta alla sua prossimità alla Rivelazione è dato unicamente mettendola a confronto col fuoco dogmatico: ciò che è paglia brucerà, ma l’oro divino risplenderà in tutto il suo fulgore.
Le dottrine dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione, oggi dogmi, cioè oggi articoli di fede appartenenti al 2° grado, sono investiti in quanto tali dal carisma della infallibilità ecclesiale ed esigono la suddetta obœdientia fidei: ma fino rispettivamente al 1854 e al 1950 appartenevano alle dottrine opinabili, cioè al 3° grado, e si doveva loro solo un «religioso ossequio». Identico «religioso ossequio», pertanto, si deve pure a quelle dottrine novelle che, in assenza del carisma dell’infallibilità, costituiscono l’insegnamento della Chiesa dal 1962 a oggi.
Nel 1854 e nel 1950 il fuoco del dogma impresse nelle dottrine dell’Immacolata e dell’Assunta la sphraghìs, il sigillo della divina Rivelazione almeno indiretta o implicita, dichiarandole ab initio e per sese verità certissime perché dotate di solido fondamento rivelato. Il munus dogmatico le sottraeva all’ambito dell’opinabile, ammantandole della splendida veste di doctrinæ fidei. Un tale riconoscimento i Sommi Pontefici trassero dalla loro autentica lettura e interpretazione infallibile della divina Rivelazione; non procedettero quindi a una trasformazione dell’oggetto, come non vi procedono i critici d’arte quando, osservando un’opera sotto ogni punto di vista utile ad avvalorarla o smentirla – certificati di provenienza, passaggi di proprietà e di luogo, prove di pigmentazione, di velatura, pentimenti, radiografie e riflettografie –, riconoscono in essa, come i Papi in una dottrina, la sua più indiscutibile e palmare autenticità.
Questo avvenne per le due dottrine anzidette: riconoscendola, ne fu dichiarata l’origine divina. Se qualcuna, dunque, di quelle più recenti, a cominciare da cosa si intenda per dottrina della Rivelazione, irenismo, presenza del medesimo Dio nelle “tre grandi religioni monoteiste” e altro, è della stessa altissima mano, e non invece di mano spuria e fangosa, lo si riscontrerà pacificamente mediante il più sicuro e splendido dei mezzi: il munus, il vaglio dogmatico sopra visto.
Come si può notare anche da quest’esempio, caratteristica di un “nuovo” dogma è la sua continuità con la dottrina rivelata e già dogmatizzata. Anche dopo il Vaticano II non vi è alcun «nuovo campo dogmatico», come si esprimono i novatori, per includere in esso le novità conciliari e postconciliari, pur essendo il Vaticano II un semplice se pur straordinario e solenne – la solennità d’ogni concilio ecumenico, come rileva mons. Gherardini – «campo pastorale»: nessuno dei suoi documenti ha infatti le caratteristiche della dogmaticità che i novatori vorrebbero riconoscergli, per derivarne l’obbedienza dei fedeli, anche se essi furono i primi, fin dall’inizio, a non impegnare in essa il concilio, per non trovarsi loro stessi legati dal dovere dell’obœdientia fidei.
Nessuno di quei documenti, dicevo, può esibire un’autorevolezza maggiore di quella assegnatagli dai Padri conciliari e derivante da un’assemblea solo pastoralmente orientata, dichiaratamente e ostentatamente contraria al metodo dogmatico e intenta a dare al mondo unicamente alcune indicazioni di «indole pastorale».
Al quesito se siano infallibili anche le dottrine che i novatori vedono come sviluppi dottrinali di precedenti definizioni dogmatiche, e i tradizionisti invece come non conseguenti, la logica aletica dà dunque una risposta negativa. (Vai alla pagina 2 di 2)
* * *
Il presente testo, costituendo l'ameriana chiave ermeneutica per comprendere pienamente la profondità del nesso metafisico tra i due trascendentali bellezza e verità, è allegato al mio saggio La Bellezza che ci salva, di cui è quasi l’anima.
(Pagina protetta dai diritti editoriali).
* * *
|