Quelle
di seguito, più che osservazioni, vorrebbero essere vere e proprie obiezioni. Sono state scritte da un sacerdote
che purtroppo ha preferito rimanere anonimo. Il loro interesse sta nel fatto che esse rispecchiano un’odierna generalizzata
lettura dei diversi trattati De Trinitate, più o meno inconsapevolmente distorta da sopravvenute preoccupazioni
pastorali estranee agli intenti degli autori, e parlo di Ambrogio, di Agostino, di Tommaso. Le riporto qui sotto così come
sono pervenute, e a ciascuna di esse faccio seguito con le mie risposte. Ho
desunto che i numeri di riferimento interni alle osservazioni vogliano indicare la Summa Theologiæ di san Tommaso;
le pagine indicate sono invece, ovviamente quelle del mio libro Il
Mistero della sinagoga bendata, Effedieffe, Milano 2002.
I osservazione:
p. 106. §2
Dio non è in nessun genere. I, 3, 5.
Nel caso delle persone divine, il concetto di persona non è quello di una specie nel genere, ma un concetto analogo. I, 29,
3.
Rispondo:
Dice sant’Agostino: «
L’eccellenza sopraeminente della divinità trascende la capacità del linguaggio tradizionale. […] Qui [nel
Mistero trinitario], dove non c’è nessuna differenza di essenza, occorre che queste tre realtà [delle Persone]
abbiano un nome specifico, nome che tuttavia non si trova. Perché persona è un nome generico, tanto che lo si può
applicare anche all’uomo, sebbene sia così grande la distanza tra l’uomo e Dio » (De Trin., 7,
4, 7).
È in questo senso che
l’ho usato anch’io: persona, dice Agostino, è « un nome generico », e dove c’è un
genere ci sono delle specie. Va da sé che, nel nostro caso, una delle specie è incomparabile, ma sempre specie è.
Questo articolo di Agostino non è corretto né da Tommaso né da un qualsivoglia magistero, dunque ci si deve adeguare
alla sua autorità, sempre che non basti l’autorità della logica.
Riguardo alla ineffabilità
dei Misteri e alla « distanza tra l’uomo e Dio », ne parlo per tutto il libro e, in prossimità della
tesi, a p. 99, II e ultimo cpv., o a p. 102, rime dantesche. Inoltre, avendo io parlato, nella p. precedente al cpv. discusso, delle
relazioni in Dio, così distanti da come si intendono per l’uomo, eppure relazioni, ritengo che il lettore avveduto
sappia percorrere tutte le pagine che analogano Dio all’uomo con il medesimo criterio conosciuto in quella pagina.
Dico anche più volte
che, applicate a Dio, tutte le categorie e i concetti umani subiscono un incremento di significato. E questa avvertenza basta. D’altronde,
spesso anche nella Summa tommasiana si trovano concetti per i quali il suo autore rimanda a spiegazioni già fornite,
con il classico “ut enim supra ostensum est”, ma spesso succede che, se non si ripercorressero tali spiegazioni,
i concetti dell’articolo in esame potrebbero risultare al lettore almeno ambigui. Ma è il lettore che deve appropriarsi
di quanto già detto dall’autore, non l’autore a doversi ripetere a beneficio del lettore.
II osservazione:
p. 108.
Dal “De Deo uno”, Dio appare come una persona. Solo con la rivelazione e la fede, sappiamo delle tre relazioni sussistenti
personali cui si comunica l’essenza divina. Quindi l’essenza non è persona perché non è incomunicabile,
a differenza delle persone. I, 30, 4.
Il “Dio uno” della filosofia può creare!
Rispondo:
Non è chiaro, nell’obiezione,
dove si trovi il de cuius della censura. Forse l’anonimo si riferisce al II cpv., in cui dico: « Al Dio predicato
nel nome “Io sono colui che è” l’essere impersonale – quello che poi sarà di Spinoza e di altri
immanentisti – non è assolutamente confacente ». Confermo: la sacra Scrittura, riguardo al “Dio uno”
in quanto unico Dio nel firmamento, usa pronomi che in logica si possono usare solo se riferiti a persone: « io »,
« colui », « il quale », precisamente per indicare un Dio personale e Tommaso insegna che attribuire
a Dio il nome di persona si può. Anzi, è proprio questa proprietà che distingue il Dio vero da dèi
concettuali, perché Dio, essendo persona, « è una realtà », e per comprendere bene questo è
bene unire i due articoli: Se a Dio si possa attribuire il nome di persona (I, q. 29, a. 3), e Se il nome persona possa
essere comune alle tre persone (I, q. 30, a. 4), dal cui ultimo ho tolto la citazione.
A riguardo poi che il “Dio
uno” della filosofia possa creare, bisogna distinguere: innanzi tutto, sant’Ambrogio dice che quando si parla di un
“Dio uno” non si esclude a priori la Trinità: « [Dire] “Dio soltanto” non esclude affatto
la sostanza divina della Trinità, e per questo ne viene lodata la natura. Dunque la bontà si trova nella natura
di Dio e nella natura di Dio c’è anche il Figlio di Dio, e per questo motivo non si esalta quello che appartiene
all’essere individuale, bensì quello che appartiene all’unità » (De Trin., II, 1, 18).
Questo punto saliente spiega bene che, quando i santi teologi scrutano il Mistero della creazione, essi a ragione riconoscono
che l’effetto non è dato da una causa riposta nell’essere individuale (come lo chiama Ambrogio) delle Persone,
ma nella natura di Dio (= « quello che appartiene all’unità »), natura comune alle tre Persone,
come spiego più esaurientemente nella risposta alla terza obiezione. (Vai
alla pagina 2 di 4)
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