L’AMICIZIA.
Una delle più forti
passioni (affecta) che possono infirmare l’efficacia finale di un ragionamento è, inaspettatamente, proprio
l’amicizia, a motivo spesso della buona considerazione in cui ovviamente questo sentimento è tenuto presso tutti
gli uomini e tutti i popoli. Ma si è visto come anche Adamo avrebbe dovuto mettere le parole di Dio al di qua e al di sopra
di ogni altra considerazione, e cos’è anche la più bella amicizia se non (ancora) un legame del quale uno
dei frutti è un certo arricchimento del proprio Io?
Adamo mise forse al di
sopra dell’amicizia che lo legava a Dio l’amicizia d’amore che lo legava ad Eva? Spesso l’uomo non vuol
dispiacere il compagno, l’amico; ma la prudenza in questi casi aiuta egregiamente a salvaguardare la verità da compiere
senza offendere i più delicati moti dell’animo.
Inoltre, è certamente
vero che Dio vuole il bene della propria creatura, e lo vuole non genericamente, ma sommamente e specificamente, ma altrettanto
vero è che Egli vuole che la propria creatura giunga a conoscere che il proprio bene dipende sostanzialmente, e anche essenzialmente,
e magari anche unicamente, dal legame con il Dio che l’ha creata, al quale ogni altro legame deve dunque essere soggetto
fino ad arrivare anche, se necessario, al suo rigetto, come avvenne con Abramo, capace di mettere l’amicizia con Dio al
di sopra persino del moto affettivo che lo legava al suo unico figlio, quel figlio avuto extrema ratione.
I passi evangelici poi,
1 [« Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno
di me; e chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me » (Matth., X, 37); «
E chiunque avrà abbandonato la casa, o i fratelli, o le sorelle, o il padre e la madre, o la moglie e i figli, o i campi
per amor del mio nome, ne riceverà il centuplo e possederà la vita eterna » (Matth., XIX, 29).]
che ricevono la loro migliore spiegazione dalla classica opposizione tra gli affetti terreni (anche i più sacri) e quello
divino, possono ricevere qui un’ulteriore spiegazione dalla considerazione sulla Persona che li proferisce: la Persona è
il Verbo, cioè la Ragione, la Ratio.
Ora, se applichiamo all’Evangelium
le connessioni che abbiamo visto intercorrenti tra ratio e passiones, ci accorgiamo sùbito che esso può
essere parafrasato così: « Chiunque ama le passioni e i sensi che come padri e madri danno luogo ai termini del
raziocinio, più di quel raziocinio, non è degno di me, divina Ratio e sommo Raziocinio »; e ancora:
« Chiunque ama le immagini anche affettuose e buone attraverso le quali costruisce il retto raziocinio, più
che la divina Immagine, non è degno di me, Immagine e Rappresentazione ideale di ogni amore e di ogni affetto ».
Questa indegnità,
di cui parla il sommo Buono con parole che sono dure, forti e taglienti come poche altre, qui parafrasate nella prospettiva sillogistica,
fa emergere ancora un crinale decisivo, uno spartiacque cruciale tra natura e soprannatura: a quest’ultima l’uomo
deve saper sacrificare tutto, anche la sua natura più intima, anche i suoi più santi affetti. Ma il prezzo
esoso vale il trasporto al di là della natura: non solo perché Dio è in effetti bene infinitamente superiore
a ogni bene superiore (come dice sant'Anselmo nel suo Proslogion); ma anche perché in Dio si ritrova (se retto)
il bene (temporaneamente) lasciato.
Dunque persino l’amicizia
è sentimento da cui il cuore dell’uomo deve sapersi guardare con schiettezza e umiltà, quindi con previa pulizia
anche dei sentimenti più puri, come mostrato in molti luoghi dall’Evangelium.
San Tommaso, poi, lumeggia
quell’altro aspetto, per il quale a volte (e anche spesso), dietro quello lodevole dell’amicizia l’uomo in realtà
nasconde a sé, agli altri (e a Dio, se potesse) un sentimento perverso e riprovevole di avarizia.
A proposito infatti di
quel passo che dice: « Ma i Giudei gridavano dicendo: “Se lo liberi non sei amico di Cesare!” »
(Ioan., XIX, 12), l’Angelico annota: « Capita che gli uomini pensino degli altri secondo i propri sentimenti.
E poiché di quei giudei sta scritto (XII, 43), che “amavano la gloria degli uomini più della gloria di Dio”,
ritenevano che anche Pilato preferisse l’amicizia di Cesare all’amore della giustizia; sebbene sia doveroso fare il
rovescio ». 1 [TOMMASO D’AQUINO, Commento al Vangelo di san
Giovanni, Città Nuova, Roma 1992, n. 2399, III vol., p. 338.]
PUREZZA.
Penso così che si possa qui concludere che effettivamente gli uomini che hanno lo spirito della propria mente sgombro dalle
passioni del proprio Io (persino con lo sgombro dell’amicizia, se necessario), possano compiere serenamente il ragionamento
principale – quell’accostamento di termini che conduce alla dipendenza da Dio che dicevo – proprio per aver
tenuto il proprio cuore, cioè il centro del proprio intelletto, sgombro e puro dagli affecta.
Anche dell’amicizia,
dicevo, poiché anche l’amicizia più bella può far balenare (in un attimo, qual è il tempo delle
operazioni mentali) una visione conveniente all’Io, e una viceversa sconveniente, a fronte di un sillogismo
veritativo (aletico), capace di mettere un uomo di fronte a un’alternativa per la quale la conclusione del giudizio cui
porterebbe fatalmente la retta conduzione del calcolo sia posposta al legame affettivo, cosa che succede purtroppo generalmente:
quanti sono gli uomini capaci di tenere Dio – il riconoscimento di dipendenza da lui – avanti a qualsiasi bene terreno?
E cosa non è scegliere il bene Dio agli affecta umani se non portare il proprio cuore dove dovrebbero universalmente
essere i cuori di tutti gli uomini, in Dio e nel cuore di Dio, invece che in qualsiasi altro scrigno? Per questo il Signore dice:
« Dov’è il tuo tesoro, là è anche il tuo cuore » (Matth., VI, 21). E tutti
vedono quanto questa sentenza si spieghi bene con ciò che si diceva a proposito di intenzione. Per quanto riguarda
infatti quei rari uomini che persino all’amicizia preferiscono ancora la verità, essi sono riconosciuti universalmente
vere rocce, uomini integri, “galantuomini”, ma li si lascia nel loro alto empireo, tutti gli altri essendo poco desiderosi
di emularli convenientemente.
Ora, stabilito che “uomini
dal cuore puro” sono quegli uomini che con le operazioni dell’intelletto adeguano il proprio spirito – ben condotto
dalla buona volontà – alla realtà che li guarda, perché mai essi infine « vedranno Dio
»?
Direi prima di tutto perché,
vedendo (e seguendo) la realtà ogni giorno e ogni ora quale essa è, e non volendosi sottrarre ad essa con nessun
sotterfugio, con nessuna visione egoriferita, con nessuna delle fantasie elencate nel Decalogo: fantasie di altri dèi che
non siano il Signore, o di feste non gradite al Signore, o fantasie nate dall’ira, o dalle altre passioni di avidità,
di lussuria, di disprezzo per la verità, e via dicendo; ecco: questi uomini per niente fantasiosi e per niente dispersi
in sogni vacui e irreali del proprio Io, vedranno anche la realtà ultima cui quella quotidiana conduce.
Non la vedranno essi invece,
quella ultima, se non vedranno quella quotidiana. E si sarà ben capito che la realtà quotidiana viene o non
viene nascosta al cuore dell’uomo solo dalla carne che circonda il cuore dell’uomo dal suo Io.
La causa dell’avere
o non avere la vista pura dipende per ciascuno di noi solo dal cuore: se esso è libero, sottile, leggero nel proprio
spirituale moto intellettuale di adesione o distacco nei confronti della realtà, confrontandosi con realtà sempre
più spirituali discendenti dal sommo Spirito, egli compirà la sua opera di raggiungimento dello Spirito e di conformazione
perfetta a lui. È un lavoro tutto di cuore, cioè è un lavoro, diceva Romano Amerio, tutto e profondamente
intellettuale.
In altre parole, se l’uomo
mantiene il proprio spirito sovrano sulle potenze inferiori, e se non permette ai granelli di sabbia del mondo e della
carne di intralciare le macchine delicatissime che elaborano gli accostamenti finissimi e già di per sé concernenti
mille difficoltà (reperimento dei mille dati, attenzione grande in ogni momento, discernimento dell’aspetto nozionale
sotto quello retorico, per dirne solo alcune), la sua mente resterà sempre pura quanto pura è la mente che
compie soltanto atti spirituali, di intelligenza (quali sono appunto unicamente gli atti d’amore oblativo), atti intrinsecamente
buoni, assentimenti. Essi sono continui, umili e assoluti atti di assenso alla realtà, e in questo sono atti analoghi a
quelli compiuti dal Figlio – Maestro all’uomo precisamente in questo – nei confronti del Padre: atti
di obbedienza perfetta, quali sono quelli di assenso alla realtà.
AMORE
DI RAGIONE.
Qui finalmente si può dire una cosa che ritengo fondamentale: vorrei parlare infatti del calore
di questi sillogismi di cui stiamo parlando da tempo: della loro peculiarità intrinsecamente positiva, in sintonia con
l’essere, con la vita, con la forte vitalità (l’ameriana tensione) che deriva dalla loro congenita
permanenza nella realtà: e per essere essi spirituali, dunque ben più reali del mondo a noi visibile, e
per operare essi sul piano più esposto della realtà (dell’evidenza, per esempio).
La luce e la tensione
intellettive vanno infatti riconosciute non come se fossero cose fredde, ma semmai di fuoco. L’uomo tende fortemente
alla verità, non con tiepidezza. L’uomo tende fortemente al bene (e all’uno, e al bello),
non sbadatamente e casualmente. La luce dell’intelletto è sempre geniale, non solo quando opera in un genio.
Voglio dire che la rettitudine di un sillogismo (di dipendenza, ma anche qualsiasi altro, per il fatto semplice che va
e conclude alla verità) è fatto forte, è fatto che tiene in vita, è fatto che fa storia
e che unisce sponsalmente la ratio naturale alla ratio soprannaturale in uno sposalizio – il vero sposalizio
– per via della chiamata arcana, indicibile e realissima della grazia nel cuore dell’uomo che sta compiendo
la propria ragione. Che la cosa sia indicibile – come tutti gli sponsali – non toglie che sia vera, e santa, e purissima,
e precisamente sia quella cosa nella quale la creatura trova nel suo Dio la ragione di esistenza.
Come se l’uomo per
natura si debba sposare; non restar solo nel solipsismo dei proprii vacui ragionamenti, ma – attraverso lo sposalizio
compiuto in quel particolare sillogismo che è l’atto di fede – sposarsi: sposare la propria ragione, il proprio
Io, la propria anima alla Ragione Dio, all’Io di Dio, allo Spirito di Dio. Questo è il suo fine, questo il suo dovere,
questo il suo anelito, questo è l’iscritto nella sua natura. Non compiere l’atto di fede è perciò
immorale, sommamente immorale, essendo cosa doverosa di adesione alla realtà, ma egualmente immorale è anche non
compiere qualsiasi sillogismo (previo o postumo a quello) senza rispettare la sua naturale rettitudine e la sua ingenita
inerranza.
Questa rugiadosa ma anche
ardente affettività del sillogismo, così in qualche modo anche se difettosamente spiegata, non contrasta assolutamente
con tutto ciò che si è detto finora, anzi lo spiega. Alla luce difatti di questa trascendente e tutta spiritualissima
arsione dell’Essere amante che chiama nei suoi gorghi la creatura cui vuole partecipare Sé (nel suo essere stesso,
nella sua esprimibilità, nella sua amabilità), gli affecta di cui è costituita la mente dell’uomo
– dunque i suoi terreni ardori – prendono meglio i contorni che meritano tutti: essi sono in primo luogo dei segni,
dei primi indizi che permettono all’uomo – attraverso l’imprescindibile figura dell’analogia –
di comprendere qualcosa delle realtà divine di cui stiamo parlando. Infatti il primo còmpito degli enti materiali
quali che siano è di essere figura e linguaggio degli enti spirituali, che altrimenti resterebbero inconoscibili.
L’uomo può
conoscere solo a partire dai sensi. E i sensi non solo trasmettono al cuore sillogistico della sua mente le realtà materiali
esterne, ma costituiscono essi stessi delle figure (imagines) da cui il suo cuore ricava, con le operazioni che abbiamo
visto di astrazione e di computo, gli universali.
Forse non tutte le operazioni
di giudizio a una a una, ma esse nel loro essere di genere sono suscitate dall’affetto, dalla tenerezza di Dio per
se stesso, per l’essere suo trinitario, per tutte le sue abissali verità, per la sua creazione, poi per la conseguente
Incarnazione, per lo sposalizio suo con la sua più amata creatura, e per tutte le cose che a grappoli da ciascuna di queste
si moltiplica. Non si può tacere di questo fondamentale aspetto sorridente, lieto, beato e beatificante che riveste il
Verbo e la sua peculiare operazione, la ratio, il raziocinio: esso è cosa d’amore.
È la cosa unicamente
per la quale si ha l’amore. L’amore non si ha se non per via del raziocinio, il raziocinio dell’Essere che dice
se stesso nella copula più ineffabile, che è il verbo più eccellente e omnicomprensivo, il Verbo essendo
generato per essere il Figlio l’intendere dell’essere che è il Padre, il “sì all’essere”,
3 [L’intendere in Dio del Verbo è di assenso immanente all’essere
del Padre in quanto è di amore: il Figlio ama con la processione dello Spirito Santo d’amore (Filioque
procedit) l’essere del Padre che Egli intende (cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., I, q. 27: Le processioni
divine).] e questo assenso è assenso di tutto e a tutto, dunque amore per se stesso, da se stesso e di tutto
se stesso; che l’amore sia perciò di ragione è cosa imprescindibile per non incorrere in devianze
antidogmatiche, in pacifismi inconsistenti, in irenismi vacui: tutte cose crudeli, sensuali, mondane, sterco irrazionale e impuro
per eccellenza.
INTELLETTO
VIVENTE.
Gli atti dell’intelletto, a partire dal principe dei sillogismi sul quale tutti gli altri sono modellati,
precedenti e seguenti ad esso che siano, vale a dire l’atto di dipendenza, di obbedienza e di religione, sono dunque atti
umili, buoni, positivi. Ma direi anche che essi sono talmente omogenei da spaventare non poco qualsiasi uomo con un minimo di
intelletto per questa loro almeno apparente omogeneità: dove c’è omogeneità (e di dogma, poi!) sembra
ci sia – oltre la noia – l’omologazione, la dittatura intellettuale, la mancanza di pensiero creativo, la mancanza
di idee su tutti i fronti: logico, scientifico, artistico, politico, familiare.
Con ciò siamo arrivati
a uno dei più sentiti argomenti contrari alla dottrina del Verbo d’amore: il Paradiso non sarebbe per l’uomo,
perché non ha idee, avendone solo una.
È ora facile rilevare
quanto, al contrario, il dogma sia ricco e continuamente emersivo di scoperte: l’eterno, fermo, assoluto e immarcescibile
dogma, tanto avversato dai carnali vogliosi di vita carnale, è in realtà vivo. E non solo è vivo, ma anche
è vivificante, cioè creativo, spiritoso, ridente.
Anzi, proprio considerando
ora le connessioni tra affecta e ratio, vedremo quanta vita vi sia proprio allorché si dà al Verbum
d’Amore lo spazio che merita e lo si toglie al verbo egoistico, edonistico, egoriferito, agnostico, ateo, in cui dominano
le passioni, più numerose degli dei dell’Olimpo sull’Acropoli.
I sensi, dopo aver portato
i termini della questione all’intelletto, abbiamo visto che ne debbono restare fuori e lasciare che si svolga il computo
in perfetta spiritualità. Il computo, in tali condizioni di purezza, è inerrante: porta a un giudizio retto. Luce
e tensione costringono l’uomo al vero. Lo costringono moralmente con il vincolo dell’adesione alla verità:
ciò non significa che l’uomo non sia libero di staccarsene, anzi: proprio in questo atto intellettivo risiede la
sua libertà, come ho più volte accennato: il moto intellettivo è libero, perché egli può compierlo
correttamente o non correttamente, ma luce e tensione di per sé lo porterebbero a compierlo correttamente,
e solo la cattiva volontà, entrando come abbiamo visto nel sillogismo e sbarazzandosi dell’obbligo morale di adesione,
è capace di deviarlo in un percorso fallace.
LIBERTÀ.
E qui si obietta una palese contraddizione: come può un obbligo morale - di seguire un dato percorso - coesistere con la
libertà di poterne deviare? E si risponde: il percorso sillogistico che conduce infallibilmente al retto giudizio obbliga
moralmente l’uomo a tenere quel percorso, ma la libertà è appunto questa: che quel percorso non è,
come per l’estimativa dei bruti, un itinerario previo, meccanico, necessario, come quando un sentiero si snoda tra due muretti;
al contrario, esso è un itinerario già segnato, di cui si vede bene sùbito la dirittura, spesso mostrando
bene anche la conclusione, a volte invece mostrando qualche difficoltà, ma sempre senza alcuna coercizione, senza alcuna
coazione, senza alcuna imposizione, se non quella appunto di essere. E come ho detto, è proprio l’essere
che l’uomo deve seguire: in questo sta il suo dovere morale. Però può non seguirlo, e in ciò consiste
la libertà: nell’assenza di muretti a destra e a sinistra di un percorso che è già segnato, e segnato
appena si pongono per bene i termini della maggiore e della minore.
Discostarsene è
dunque immorale. Dopo di che il giudizio tutto teoretico viene messo in pratica, e questo avviene con il giudizio pratico, suscettibile
anch’esso di tutte le difficoltà ma anche di tutte le perfezioni del giudizio teoretico, e la volontà si prende
il carico di distribuire ai sensi e agli affecta la cosa da farsi: aggrottare un sopracciglio, sorridere di gioia, dare
una pennellata definitiva a un quadro, concludere un ragionamento e poggiare la penna, passare il pallone al compagno di squadra
perché lo sferri in porta, e tutte le altre cose che a miliardi l’uomo compie ogni giorno.
Dunque i sensi sono latori
di un messaggio sia all’andata che al ritorno dal cuore, e ne rispettano la libertà di giudizio solo se restano al
di fuori di esso: la libertà infatti del giudizio è sostanzialmente libertà dai sensi, di modo che il giudizio
possa compiersi per il bene della rettitudine spirituale senza essere distorto dall’attrazione verso una qualsiasi convenienza.
Beninteso: quando un uomo deve invece compiere un giudizio ‘di convenienza’, cioè di prudenza (e questa è
la gran maggioranza dei casi), l’intenzione sarà giustamente caricata di tale soppesamento, giacché è
proprio di ciò che si deve valutare. In questo consiste il famoso ‘discernimento degli spiriti’ insegnato negli
Esercizii da sant’Ignazio di Loyola. Ma resta il principio generale: la libertà è ‘dai sensi’.
Il giudizio poi torna ai
sensi, alla psicologia, alle emozioni, e trasmette loro le cose da farsi, come il Signore quando, vedendo che Lazzaro era morto,
pianse. E su ciò san Tommaso osserva: « Va notata la discrezione, poiché egli si turba secondo il giudizio
della ragione, cosicché sta scritto: “Fremette nel suo spirito”; quasi per trattenere il giudizio della ragione.
Infatti nel turbamento dello spirito si accenna alla mente, ossia alla ragione, come in quell’espressione paolina: “Rinnovatevi
nello spirito della vostra mente” (Ephes., IV, 23). Capita invece che queste passioni della parte sensitiva non si
producano nello spirito, e non si lascino guidare dalla ragione, che al contrario sconvolgono. Ora, questo non avvenne in Cristo,
il quale “fremette nel suo spirito”.
« Ma cosa significa
il fremito di Cristo? Sembra che significhi l’ira; poiché si legge nei Proverbi (XIX, 12): “Come il fremito
del leone, così l’ira del re”. Oppure significa indignazione, secondo quel testo dei Salmi (CXI, 10): “L’empio…
digrigna i denti e si strugge”.
« RISPOSTA
[di san Tommaso] . In questo caso il fremito del Cristo significa ira e una certa indignazione del cuore. Poiché l’ira
e l’indignazione sono causate da qualche dolore, o tristezza. Ora, nel caso nostro erano subentrate queste due cose a turbare
il cuore di Cristo: la prima era la morte inflitta all’uomo per il peccato; la seconda, per cui era indignato, era la crudeltà
della morte e del demonio. Perciò come quando uno vuole respingere un nemico, sente dolore per i mali ricevuti da lui,
e si sdegna nell’atto di colpirlo, così Cristo VOLLE avere allora i sentimenti di dolore
e di sdegno. [v. anche ciò che è detto sopra sull’ira, Pagina
2, § ADAMO, IV cpv, da: « Così pure per l’ira... »].
« Finalmente va
notato il dominio di sé; perché Cristo fu lui a turbare di proposito se stesso. Infatti queste passioni talvolta
insorgono per motivi non giusti, come quando uno gode del male e si rattrista del bene […]. Ora, questo va escluso da Cristo;
anzi, avveniva il contrario in lui: “Quando la vide piangere… si turbò”.
« Talora queste
passioni insorgono per un motivo buono, indipendentemente dalla guida della ragione; per questo si accenna che egli “fremette
nel suo spirito”. Talora poi, sebbene vengano guidate, esse prevengono il giudizio della ragione, come avviene nei primi
moti improvvisi. Ebbene, in Cristo ciò non avveniva; poiché in lui qualsiasi moto dell’appetito sensitivo
era conforme alla regola e all’impero della ragione. Ecco perché l’Evangelista afferma che egli “turbò
se stesso”, come per dire: assunse quella tristezza per il giudizio della ragione.
« In contrario
però sta quanto si legge in Isaia (XLII, 4): “Non sarà triste e non sarà turbolento”.
« RISPOSTA.
Ciò va inteso della tristezza incontrollata e smodata. Anzi, Cristo volle turbarsi e rattristarsi per tre motivi. Primo,
per dare la prova della realtà e verità della sua natura umana. Secondo, per insegnarci, rattristandosi e contenendosi,
come noi dobbiamo comportarci moderatamente nella tristezza. Infatti gli stoici insegnavano che nessun sapiente deve rattristarsi.
Ma risulta una cosa davvero inumana, che uno non si addolori per la morte di certe persone. Altri invece nella sofferenza per
il male degli amici vanno a degli eccessi.
« Il Signore però
volle rattristarsi per indicare che talora devi addolorarti, e ciò contro gli stoici; ma nel dolore non passò i
giusti limiti, e questo contro i secondi. […] Il terzo motivo è per suggerire a noi che per i morti dobbiamo addolorarci
e piangere […] ». 5 [TOMMASO D’AQUINO, Commento al Vangelo… cit.,
n. 1534-35, II vol., pp. 266 segg.]
L’analisi di san
Tommaso su questo episodio esemplare della vita di Cristo ci permette di vedere evidenziate in bella mostra le modalità
con cui il Giusto Giudice compie il giudizio: egli infatti, di fronte agli avvenimenti avversi che lo pongono dinanzi alla morte
ineluttabile di un grande amico, compie almeno tre sillogismi, come suggerito dal Dottore. Il primo: « Gli uomini piangono
l’amico che muore; Io sono il Figlio dell’uomo; piangerò dunque l’amico », dimostrando così
la sua umanità, contro tutti coloro che (come Sabellio e poi Maometto) nei secoli sosterranno essere egli un fantasma,
un’immagine; il secondo, contro gli stoici (e gli orientali e i buddhisti di oggi): « Non è vero
che i sapienti non devono addolorarsi; io sono la stessa Sapienza; mi addolorerò dunque convenientemente »; il
terzo, contro tutti i neghittosi: « Gli uomini debbono piangere le conseguenze del loro peccato; io sono il Maestro e
il Figlio dell’uomo; piangerò dunque la morte, conseguenza del peccato ». E altri simili.
La grande obiezione sarebbe
qui su un marcato intellettualismo del comportamento, su una freddezza emotiva del Cristo, il quale, al contrario, dovrebbe mostrare
eccellentemente proprio le più profonde e immediate prerogative di umanità possedute. E si risponde che l’esposizione
fatta dimostra proprio questo, salvo che l’analisi del comportamento di un uomo non dà mostra della velocità
di reazione avuta in quel comportamento, ma la scandisce e seziona in tutti i suoi aspetti. Cristo compie almeno tutti i ragionamenti
suggeriti dall’Angelico e qui in qualche modo sillogizzati, e ne compie anche altri, come ritenuto da san Girolamo, da sant’Ambrogio,
eccetera, essendo padrone di sé tanto da governare con il raziocinio plurimi ragionamenti con somma acutezza e immediatezza.
Ciò lo porta a quel comportamento emotivamente forte – proprio in quanto controllato dalla ragione – che toccò
gli animi di tutti i circostanti, per la sua genuinità, franchezza e veridicità « i giudei dissero:
Guarda quanto l’amava! » (Ioan., XI, 36).
Certo: tutti conosciamo
quegli uomini corpulenti, grandi e grossi, dal forte carattere e dall’immediata simpatia. Messo a confronto con costoro,
sembra che il Cristo sia – alla maniera di san Tommaso d’Aquino – un freddo intellettuale, piuttosto che un
Figlio dell’uomo di ceppo semitico, sanguigno, orientale. Ma la lezione di umanità che il Maestro compie in ogni
suo atto, specialmente con gli atti ricordati nell’Evangelium, fa emergere la misura emotiva del retto contegno,
dove gli affetti, anche nei momenti più tribolati, mai superano la continua consapevolezza della provvidente bontà
della vita concessa dal Padre agli uomini.
Il Maestro, con il suo
esempio, con il suo linguaggio, la sua espressività, con il suo comportamento, e oserei dire con la sua ‘arte retorica’,
irradia dal centro dell’arco che abbraccia tutta la vastità universale di variazioni di personalità, di temperamenti,
di culture, cui Egli ha dato vita, il modello più esemplare di risposta della creatura intelligente alle temperie della
vita: forte per i melanconici, affettuoso per i freddi, calmo per i passionali, dolce per gli irruenti, e così via.
Siamo di fronte infatti
a quel comportamento positivamente razionale e propositivo che dovrebbe esserci modello esemplare: anche il più razionale
degli uomini, quale era certamente GESÙ, piange, proprio essendo sapiente e razionale, e non stolto e alla deriva delle
passioni; inoltre, avendo la ragione quella caratteristica vitale e sorgiva, sorridente e propositiva di cui parlo fin dall’inizio,
non solo l’Uomo piange l’amico, ma gli si avvicina e, con l’atto potente che sappiamo, lo risorge. Questo della
risurrezione è infatti il frutto diretto della potenza della ragione dell’uomo puro di cuore sulla carne, sul peccato,
sulla morte: carne, peccato e morte non toccano il puro di cuore, non hanno ragione di lui, ma egli ha ragione su di essi.
Sicché, per concludere,
qui troviamo la risposta al quesito posto all’inizio (a Pagina
1,da: « E i santi Dottori... »), di come si possa ragionare sopprimendo in qualche modo il proprio
‘Io pensante’: e si vede che non si sopprime il proprio Io pensante, cioè il proprio cuore, ma piuttosto
lo si esalta mettendolo sovrano sulle proprie emozioni, facendo da lui condurre la propria psicologia, facendo da lui guidare
la propria personalità, facendo da lui correggere il proprio temperamento, in un’opera continua di educazione delle
potenze inferiori a seguire il superiore raziocinio, e quest’ultimo a seguire il raziocinio soprannaturale dato dalla fede,
in una sistemazione della mente, e delle potenze che vi lavorano, aderente alla legge divina. Sistemazione e ordine promosse dal
cuore, dallo spirito, che portano alla definitiva e liberatrice risurrezione della carne.
Questa è la conclusione
cui si perviene aprendo il gran libro che parla dell’intelletto, del cuore suo che è l’anima dell’uomo.
In questo libro si vede bene – anche se ancora non con quella luce gloriosa e splendida dei Beati – come in effetti
tutto sia stato ben approntato da Dio, dalla santissima Trinità, perché l’uomo a lei salga, senza perdersi
d’animo lei adori, a lei si sposi, in lei riposi. [Torna
alla pagina 1 di 3]
E. M. R.
26 maggio 2004, San Filippo Neri - 11 luglio 2004, san Benedetto
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(Pagina protetta dai diritti editoriali). * * *
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