Mi
è stata fatta recentemente questa domanda: “I puri di cuore vedranno Dio?”, e io a mia volta mi son chiesto:
“Come mai proprio a me una domanda su un pensiero che ha già avuto dal Signore GESÙ una risposta più
che autorevole, più che definitiva, anzi un’asserzione tra le più belle e tra le più commentate di
tutto il santo Evangelium?
LA
CIMA.
« Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio » (Matth., V, 8): affermazione
netta fatta in cima a una montagna da Dio stesso, e non solo in cima a quella in cui egli si trovava nel primo anno della sua
predicazione – una collina, per la verità – ma piuttosto in cima a quell’altra e più vera montagna
costituita dalle sue parole, da quel sublime insegnamento che invitava gli ascoltatori a salire dalle bassezze limacciose delle
proprie anime travagliate, svogliate, affaticate, perplesse, avvilite, sconfortate, a quote dove l’aria è pura, il
panorama largo e salubre, la vista confortante di un paesaggio rigoglioso e rigeneratore. Il Discorso della Montagna è
quella serena, forte, sicura e alta istruzione seguendo la quale l’uomo si ritrova e sale alto, fino ai cieli di
Dio. Con l’aiuto di Dio. Facendo posto a Dio. Lasciando che il più lo faccia Dio. Può avverarsi così
la Scritura: « Chi salirà il monte del Signore? […] Chi ha mani innocenti e cuore puro » (Psal.,
XXIII, 3a; 4a).
Ma tutte queste cose il
mio interlocutore le sa certamente. Allora mi sono detto che forse la vera domanda che mi si voleva fare, data l’attenzione
mostrata per la Filosofia della conoscenza e per Estetica, e posto il fatto che qui si parla chiaramente di visione, dunque
di immagini, dunque di qualcosa che ha a che fare con il bello, la pulchritudo, e dunque ha a che fare con scienze e ricerche
per me particolarmente importanti, era piuttosto questa: “Chi sono filosoficamente parlando i puri di cuore?
Cosa si intende in filosofia per uomini dal cuore puro?”
E, anche qui, non c’è
alcun motivo perché la cosa venga chiesta proprio a me, posto che le biblioteche che commentano e abbondantemente spiegano
anche questi quesiti con grande saggezza e pertinenza invadono il mondo. In nota a una delle più belle bibbie cattoliche
1 [ANTONIO MARTINI, La Sacra Bibbia secondo la Volgata, Napoli 1868, vol.
I, Matth., V, 8.] si legge: « [Il cuore puro] è vuoto dell’amore delle creature e di tutti
i desideri della carne. E si dice bene che questi vedranno Dio; perché hanno sano e purgato quell’occhio del cuore
col quale si rimirano le cose spirituali ». E san Gregorio di Nissa, uno dei più alti commentatori Greci,
aggiunge: « In molte località marittime si può vedere, dalla parte rivolta al mare, un monte quasi spaccato
a metà e corroso da cima a fondo. Esso ha nella parte più alta un picco che incombe sulla profondità del
mare. Orbene, l’impressione di chi volge giù lo sguardo sull’abisso impenetrabile da quell’altezza da
vertigini è quella stessa mia quando spingo in basso gli occhi dall’altezza del misterioso detto del Signore: “Beati
i puri di cuore, perché vedranno Dio”. ». 2 [GREGORIO DI
NISSA, Omelia 6, sulle beatidudini; PG 44, 1263.]
Tutti i nostri successivi
ragionamenti non si scosteranno da queste semplici, chiare e brevi spiegazioni, anzi: le confermeranno. Aggiungo che proveranno
casomai a far emergere una conseguenza che vorrei da sùbito sottolineare: qui si parlerà forse anche in una prospettiva
filosofica, e certo la riflessione risulterà anche più mediata di una limpida e veloce affermazione,
quale è quella su cui si riflette. Ciò non toglie che chi non desidera imparare a far sorridere la propria anima,
il proprio serio e anche severo intelletto, il proprio cuore, è del tutto inutile che prosegua: il fine ultimo di queste
modeste riflessioni è infatti quello di dimostrare a razionalità spiegata che intelletto e sorriso, ragione e beatitudine,
assenso e amore sono due insiemi inseparabili, uno all’altro legati come nei Cieli il Verbum lo è alla Caritas.
Esattamente e non in altro modo che in tale modo. Questo sublime legame sfocia nella magnanimità e nel sorriso della vita,
nell’espressione dell’Essere cui nulla può resistere poiché nulla è di lui
più intelligente 3 [Di lui – si noti – e non
di esso, giacché l’Essere è una sostanza personale, la divina Monotriade.] e nulla più
benevolente.
Dunque l’unico contributo
mio può molto modestamente derivare, forse, dall’unione che ho stabilito – per essere degno discepolo e capace
propagatore della sua metafisica – tra le mie ricerche filosofiche in estetica e in gnoseologia e i princìpi filosofici
di Romano Amerio, il pensatore cattolico di Lugano che, per chiarire la realtà delle cose in metafisica, insegnò
a lungo la priorità dell’intelletto sull’amore. Dell’Intelletto celeste – prima di tutto –
sull’Amore celeste.
Ora, riducendosi l’uomo
tutto alla sua anima, e tutta l’anima dell’uomo riducendosi in ultimo al suo intelletto, andremo a vedere cosa è
e cosa succede nell’intelletto in riguardo al suo rapporto con l’amore e con il sorriso benevolente.
Infatti, se l’intelletto,
in ogni attimo e in ogni frangente della sua attività, non è amante (« spirante amore »,
precisa san Tommaso a riguardo del Logos), perde la propria dignità, il proprio posto, la propria stessa intellettività,
tanto quanto viceversa l’amore perde, come nota san Bernardo da Chiaravalle, 4 [BERNARDO
DA CHIARAVALLE, Apologia ad Guillelmum Abbatem, § 17.] la propria sostanza amorosa quando non sboccia dall’intelletto
ma dagli affecta, cioè quasi da se stesso, in un’impossibile aseità (o capacità di autocausarsi),
in se stesso incrudelendosi. Dunque: per l’intelletto partorire solo se stesso e non amore, e per l’amore nascere
per partenogenesi e non da un’intelligenza, sono entrambi atti di aridità – per quanto l’uno inverso
e opposto all’altro –, ovvero atti improprii ad ognuna delle due nature: improprio all’intelletto – come
vedremo – non assentire all’essere, e dunque non bearsi; improprio all’amore pensarsi.
Con queste premesse possiamo
inoltrarci ora più facilmente a capire chi siano i puri di cuore, se essi vedranno Dio e anzi se Dio lo vedranno
unicamente i puri di cuore.
Questo breve studio darà
modo così di cogliere meglio quel plesso straordinario – e mai sufficientemente indagato – costituito dal doppio
legame tra intelletto e volontà, plesso che emergerà vigorosamente nel suo indivisibile intreccio.
IL CUORE.
Cosa si intende, intanto, per cuore? L’uomo non pensa, non ama e non vuole con il cuore, che è solo una pompa
senza anima, ma con la mente, luogo dove risiedono tutte le capacità apprensive: unificanti e dirimenti, giudicanti e volitive.
Ci è di soccorso sant’Agostino, per il quale l’espressione cuore, quando riferita al pensiero e al ragionamento,
è una metafora con la quale si intende la parte più interna dell’intelletto, il suo più intimo nucleo,
quella zona che più propriamente ragiona, cioè somma e sottrae le cognizioni ricevute dai sensi, dalle
emozioni, dalla memoria, dagli affetti – cose che per l’appunto gli stanno tutte intorno come la polpa del frutto
al nocciolo e la carne al cuore –, e che si raggiunge superando anche con sovrumane difficoltà affetti, emozioni
(in particolare timori, preoccupazioni e paure), sentimenti, vizi, abitudini, apriorismi, ignoranze, infermità naturali
e persino elementi culturali, ambientali, storici, geografici e altre cose simili, sintetizzate in una vasta ma unica parola:
la carne, 5 [Carne, nel senso più profondamente paolino,
come emerge p. es. da I Cor., II, 14: « L’uomo animale non capisce le cose dello spirito di Dio ».]
cioè gli affecta.
E i santi Dottori identificano
cuore, il centro motore dell’anima, con la stessa personalità, con l’Io personale e soggettivo
dell’uomo, creando non pochi problemi alla filosofia: come ragionare sopprimendo il proprio Io pensante? Ma
vedremo che la cosa non è impossibile, anzi: vedremo che è auspicabile.
Vi sono nella mente dell’uomo
una parte spirituale e una carnale. La parte spirituale, cuore (o nucleo) della mente, è, per usare la parola
più consueta e propria, l’intelletto, la ragione. Con essa l’uomo (e solo l’uomo) compie propriamente
le operazioni che vedremo portano al giudizio; ciò che non è cuore è il corredo – riscontrabile
questo anche nei bruti – dal quale la ragione raccoglie gli elementi per operare. Il corredo sensoriale, istintuale, affettivo,
psicologico (quindi anche culturale, come dicevo), offre ad essa i termini del calcolo.
Le offre gli elementi
per compiere il giudizio, ma anche glieli intorbida. Vediamo come, perché il fatto della purità è
proprio qui: qui si comincia a capire che la depurazione del cuore di cui si parla è simile alla separazione dello
spirito nucleico della mente da quella circostante carne della mente che pure offre alla parte spirituale gli elementi
per compiere il giudizio e senza la quale essa nemmeno può iniziare l’operazione giudicante. Qui si intravede infatti
una prima realtà: non è un caso che la periferia intellettuale venga chiamata evangelicamente carne, giacché
tutti gli strumenti che la compongono (i sensi, interni ed esterni), le operazioni che si compiono (biologici, istintuali,
percettivi, emotivi, inclinativi) e il risultato che si raggiunge di moto non libero, ma condizionato, resta nella sfera
del naturale, in comunanza in tutto e per tutto con i bruti. Al contrario: strumenti, operazioni e conclusioni proprii del cuore
raziocinante della mente sono misti: in parte naturali, ma in parte anche soprannaturali: in ogni caso
spirituali, cioè strettamente intellettuali, a meno di quell’intorbidamento e mistione che vedremo più
avanti. Il risultato è un moto intelligente – dunque libero – verso Dio.
Romano Amerio insegnava
che vi è una teoria in cui l’uomo fin dai tempi di Socrate ha cercato di spiegarsi l’errore, o meglio: come
avveniva che, posta la sua capacità di fare un ragionamento, dunque di fare bene quell’atto intellettivo per il quale
specificatamente egli è uomo, potesse anche mancarlo, dunque sviare dalla perfezione di quell’atto, e di conseguenza
farsi, in un certo senso, meno uomo.
La dottrina della ateoreticità
dell’errore, per la quale l’errore risulta estraneo e tutto fuori al ragionamento, e per la quale dunque il ragionamento,
di per sé, può essere unicamente retto e inerrante, insegna infatti che il ragionamento, di per sé,
è e dovrebbe essere un percorso tutto intellettuale (spirituale), non compromesso, non macchiato in alcun modo da elementi
estranei: gli affetti (affecta), la carne, l’Io soggettivo.
IL
RAGIONAMENTO.
Cos’è il ragionamento? Il ragionamento, o raziocinio, è un’operazione discorsiva,
per lo più condotta attraverso il sillogismo (trasduzione del greco syllogismòs, syn: con,
insieme; e lògos: pensiero, nozione, discorso; dunque pensieri messi insieme), con cui la mente avvicina
elementi tra loro in qualche modo coerenti (cioè della stessa specie): li somma o li sottrae, arrivando a un risultato,
che è il giudizio. « Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; dunque Socrate è mortale
». Gli elementi ‘tutti gli uomini’ e ‘Socrate’ appartengono allo stesso insieme ‘umanità’.
Qui parlo fondamentalmente
del sillogismo aristotelico, cui tutti gli altri ragionamenti possono essere ricondotti, anche se la loro varietà
mostra la varietà delle operazioni, come in matematica. In sostanza però si tratta sempre di accostamenti,
di eguaglianze, di confronti tra termini, ed è di questo che parliamo. Ecco perché il ragionamento
è compiuto dalla ratio, la cui radice è rato: stabilito, disposto, pensato.
Obiezione: vi sono processi
proprii alla ragione che non sillogizzano affatto: p. es. l’intuizione e l’atto di fede.
L’intuizione,
come dice il termine, non darebbe scampo: sarebbe infatti conoscenza diretta e immediata, dunque senza riflessione.
‘Cogliere l’essere dal divenire’, p. es., per alcuni sarebbe un’intuizione. Personalmente
preferisco la posizione tomista, che concede l’intuitio unicamente ai sensi, capaci di vedere una casa, di
sentire un trillo, di toccare un marmo. Riconoscere poi che nelle cose percepite vi è la sostanza casa,
trillo, marmo, è già un’operazione sillogistica, infatti « tutte le altre conoscenze,
incluse quelle dei princìpi primi, sono di indole astrattiva, devono cioè passare attravrso il filtro dei fantasmi
», 6 [BATTISTA MONDIN, Dizionario enciclopedico del pensiero di
san Tommaso d’Aquino, ESD, Bologna 1991.] e con questi compiere, come vedremo, il processo sillogistico. Quando
si dice intuita l’idea dell’essere dal divenire, si astrae, appunto, da una figurazione particolare
un processo generale, così come è intuita la sostanza casa dietro la sua faccia attraverso il raffronto tra
la visione attuale e l’esperienza. Non intuizioni, dunque, ma riflessioni.
L’intuizione, a mio
avviso, rispetto al comune ragionamento sillogistico nasconde un procedimento estensivo ed eccentrico, ma cade serenamente nella
sua ombra, giacché si ha intuizione appunto per accostamento paradossale di termini, per analogia, per metafora,
o attraverso crasie concettuali e inversioni semantiche. Lo spaesamento (artistico, retorico, poetico) attraverso il quale
si dice che i genii scoprano nuovi concetti, o propongano opere d’arte – musive, musicali o scritturali che siano
– è operazione fortemente razionale, sillogistica, compiuta però tra campi anche ‘incoerenti’,
confrontabili unicamente attraverso la figura sommamente intelligente dell’analogia: da qui, da questa intrinseca
dispersione dell’univocità, discende il sopravvento semantico dell’arcano poetico, dell’ambiguità
artistica, del fascino di imagines accostate, certo, per catene semantiche, ma pur sempre accostate.
Per cui ritengo: primo,
che la scienza estetica altro non sia che per un aspetto della gnoseologia; secondo, che, quando si dice che per la metafora
non si trovano definizioni soddisfacenti, si fa un’osservazione giusta, infatti essa non è definibile come figura
retorica del linguaggio, poiché essa è la FORMA stessa del linguaggio.
L’analogia poi, metafora
particolare (per alcuni una somiglianza di rapporti), va valutata in questa prospettiva. In merito alle difficoltà
poste, le analizzeremo alla fine.
Se vediamo poi l’atto
di fede, si osserverà facilmente in esso un atto della ragione naturale che si affida alla ragione soprannaturale, detto
anche ‘ragionamento per testimonianza’ (quella, appunto, di Dio): esso è ancora un sillogismo, e dei più
forti: “Questa cosa la dice Dio. Dio dice unicamente la verità. Dunque questa cosa è vera”. Vedremo
poi come si giunge a Dio.
La dottrina teologica,
fondata su verità tenute per fede, poggia la sua forza ancora su un sillogismo: « Nell’argomentazione teologica
– spiega Antonio Livi – la premessa maggiore è un’asserzione di fede (cioè una verità
rivelata), mentre la premessa minore è una evidenza di ragione. La seconda premessa è quindi il momento in cui la
ragione fa uso delle proprie conoscenze per riuscire a comprendere meglio la verità rivelata ». 7
[ANTONIO LIVI, Tommaso d’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano, Mondadori, Milano 1997, p.
84. ] Come nell’esempio: « Cristo è realmente presente sotto le Sacre Specie del pane e del vino
» (premessa maggiore: argomento di fede); « il pane e il vino sono necessari alla vita » (premessa minore:
argomento scientifico); dunque « Cristo è necessario alla vita » (giudizio: la verità di fede
riceve plausibilità teologica).
Grazie al sillogismo, per
il quale l’uomo « penetra nel mondo ineffabile delle verità divine “discurrendo, non intuendo”
», 8 [Ibidem, e così anche per le altre due citazioni di sèguito,
ricavate dalle pp. 83-84.] l’uomo arriva a ciò che Livi chiama « il gradino più vicino
alla contemplazione nella vita presente », che è appunto non l’intuizione intellettuale, o contemplazione
vera e propria (che si avrà solo alla diretta presenza di Dio, e, in parte, nell’estasi), ma proprio « la
scienza teologica ».
La spiegazione di Livi
si fonda sulla cardinale affermazione tomista per la quale i misteri celesti – a noi non evidenti – sono però
evidenti a Dio e ai beati. 9 [Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol.,
I, q. 1, a. 2.]
In generale, la costruzione
interna del ragionamento permette, poste alcune premesse, di concludere a un giudizio.
La grande, grandissima
maggioranza dei milioni di giudizi e di decisioni compiuti ogni giorno da un essere umano consiste appunto in sillogismi o in
atti sintetici riconducibili al sillogismo, dove una delle due premesse, e più spesso entrambe, sono sottintese, implicite,
10 [Si può dire anche: scontate, nel senso dell’etimo: ‘tolte
dal conto’, tolte cioè dal sillogismo.] allo stesso modo di quando si è mandata a memoria una tabellina
aritmetica e si passa direttamente al risultato: l’uomo è avvezzo al confronto che porta al giudizio emergente dalla
memoria (o esperienza): « Vado a lavorare », sta per: [« Per sfamarmi devo mangiare » (premessa
minore), « tutti gli uomini che mangiano vanno a lavorare » (premessa maggiore), dunque] « vado a
lavorare » (giudizio). Oppure: « Tiro il pallone in porta », che è conclusione da: [«
In questa situazione Platini (come tutti i campioni) tirerebbe in porta » (maggiore); « Io voglio essere
un campione » (minore); per cui] « tiro il pallone in porta » (giudizio).
Tutti questi (apparentemente)
immediati giudizii sillogistici sono confronti continui tra la situazione contingente e particolare, che promuove la premessa
minore, e un modello ideale di riferimento (una regola, una modalità comune, un’abitudine, una legge, la stessa esperienza
pregressa del soggetto), che ne costituisce la maggiore. Il confronto produce il giudizio, cioè un discorso, un gesto,
un quadro, un racconto, attraverso altrettanti infinitesimi ma altrettanto reali processi che proferiscono parole e ogni altro
specifico semantema.
Si ponga mente, p. es.,
alla ricerca che a volte si fa di un termine che non viene immediatamente alla mente: « Voglio esprimere questo concetto
»; « per esprimerlo vi sono questi e questi termini »; « userò uno di questi termini
».
Anche la scelta di un tono
di voce, di un gesto, di un’espressione facciale: tutto è posto sotto la costruzione sillogistica (oppure entinemica,
cioè di confronti più approssimativi, ma sempre basati sull’accostamento dei fattori, per cui le premesse
sono metaforiche e non univoche; oppure la costruzione ipotetica, posta su premesse non accertate), e questa
costruzione sillogistica è basata sull’esperienza, memorizzata, e infine quasi ‘automatizzata’, salvo
che, per esempio nella scelta di un sorriso come risposta a una provocazione, l’uomo in se stesso compie davvero tutto il
tragitto del raziocinio: « Il sorriso è universalmente riconosciuto come espressione di benignità »,
« Io voglio manifestare benignità », « Dunque sorrido ».
Non ci si deve sorprendere
della prontezza decisionale dell’intelletto: essendo esso spirituale sia nelle ‘macchine’ che lo muovono che
nel costrutto elaborato, l’intelletto è immediato; la lentezza che spesso conosciamo è nella raccolta dei
dati, nella ricerca mnemonica, nella elaborazione sensoriale. Cioè nell’attenzione e nella verifica poste ai termini.
Non mai nel fatto sillogistico in sé, nell’operazione spirituale da farsi, che è cosa più veloce della
luce.
LA
STANZA DEL CUORE.
Ora – faceva notare Amerio – alcune volte le premesse sono pure, come nel caso dell’esempio
di Socrate, altre volte invece esse vengono infirmate da elementi estranei alla ratio e provenienti dagli affecta,
dalla ‘carne’.
La cosa è così:
è vero che i dati per costruire un ragionamento possono provenire unicamente dall’esterno della stanza dove viene
compiuta l’operazione, giacché in quella stanza – asettica, spiritualissima e luminosa – non vi è
altro che l’inconoscibile ‘macchina’ – se così vogliamo chiamare l’intelletto agente
della Scolastica – con cui l’uomo compie il ragionamento e l’altrettanto misteriosa luce che lo illumina e forse
anche lo fa. Ma è anche vero che nell’immissione dei dati nella stanza del raziocinio devono passare unicamente
i dati puri, e non già anche gli strumenti che li forniscono, come succede il più delle volte. I concetti,
non i preconcetti.
Infatti questa tale stanza,
nel suo arcano alto e preziosissimo, è di natura spirituale, e dunque, per quanto essa sia associata al corpo, 11
[Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., I, q. 76, a. 1: Se il principio intellettivo si unisca
al corpo come [sua] forma.] non è corpo, e non solo non lo è, ma, se entra in funzione con i suoi confronti,
e se questi confronti vengono mantenuti puri come devono essere, questa incorporea stanza, questo cuore, si può
alzare dalla spiritualità per così dire naturale fino a quella soprannaturale propria di Dio, dove infatti
risiede il suo punto d’arrivo, il fine ultimo per il quale le è stato dato di operare. E non solo può arrivare
essa ad alzarsi al sommo spirituale Dio, ma può persino – sempre per via di quel mantenimento di purità di
cui parliamo – caricarsi essa della pesantezza del corpo e, con quelle sue tali operazioni, addirittura alleggerirlo e renderlo
infine così ‘sottile’ da farlo passare attraverso la cruna della morte e risorgere nell’altra vita: in
quella dove anche i corpi sono misteriosissimamente spiritualizzati, in quella di Dio. Cosa che ha fatto appunto il purissimo
GESÙ, il Cristo, proprio per via di quelle operazioni intellettuali – ordinative di tutte le altre cui abbiamo visto
essere preposta la mente – che Adamo e la sua progenie avrebbero dovuto compiere, ma che non compirono.
Non deve affatto stupire
che la forma del corpo, cioè proprio il principio intellettivo di cui ci stiamo occupando, 12
[Detto anche anima se per anima non si intende genericamente il principio motore dei bruti ma
ciò che specifica e differenzia l’uomo da essi e che assolutamente non proviene da essi.] possa trasformare
un corpo da ingombrante a sottile, giacché questa è precisamente l’operazione detta, in altri termini, santificazione:
diversificazione della materia del corpo da ogni altra materia, compiuta dall’anima forma di quel corpo, su quel
corpo, in virtù della sovranità della ragione (naturale e poi soprannaturale) su tutte le altre potenze
proprie a quel corpo.
Ma torniamo alla stanza
di cui parlavo, la spirituale forma che anima un uomo, nella quale stanza può indebitamente entrare o non entrare
uno straniero, invalidandone la forma.
Nel caso del sillogismo
di Socrate, per esempio, possono entrarvi l’ignoranza (l’ipotesi, p. es., ‘tutti gli uomini sono mortali’
non è debitamente accertata); una qualsiasi passione (p. es. la fretta di concludere il ragionamento, oppure il
desiderio di vedere in Socrate qualcosa di più di un uomo: un semidio); un apriorismo culturale (p. es. appartenere
a una scuola filosofica avversa alla socratica, per cui si tenta in ogni modo di trascinare il ragionamento in un circolo vizioso).
E via dicendo.
Questi granuli, che per
varie cause recano impurità al limpido percorso compiuto dallo spirito usando il computo della ragione per giungere
a un giudizio, oltre che dalle circostanze provengono per la massima parte dagli affecta, mostrando che tra essi
e la pura ragione vi è uno spazio non sempre distinto, come dovrebbe essere distinto, ma pieno di brecce, di porte, di
varchi; di modo che il bilanciamento costituito dal raziocinio, invece di essere tarato da unità di misura tutte spirituali
e intellettive, viene tarato su pesi falsati, appesantiti da appoggi dati da elementi esterni e carnali.
Le mura spirituali, diafane,
delicate, leggere, della stanza raziocinante, anima dell’uomo ragionevole: da Adamo a Protagora, da Gorgia a Antioco
Epifane, da Giuda a Caifa, da Cartesio a Spinoza, da Nietsche a qualsiasi altro anche sconosciuto peccatore, sono state squarciate
da varchi, brecce, o anche infinitesime fenditure quasi invisibili (quasi, ma in realtà sempre visibilissime alla
coscienza), e per questi varchi più o meno evidenti è entrata sabbia, polvere, materia, e in alcuni queste prime
e minime infiltrazioni si sono con la noncuranza o con la pervicacia, con la disattenzione o con la cattiva volontà, con
la paura o con lo smodato amore al proprio Io, trasmutate in montagne di terra incolta e di vegetazione selvaggia, in giogaie
di passioni, di senso, tali da deviare il percorso naturale inerrante – e tutto spirituale – del sillogismo e del
retto giudizio e distorcerlo nei sentieri contorti dei paralogismi, dei sofismi, delle astrusità di cui è ripieno
quel mondo filosofico che ha rifiutato Dio (e l’uomo). 13 [È facile
stabilire qui un legame con la parabola ‘del seminatore’ di Matth., XIII, giacché l’ambiente in
cui può cadere la Parola di Dio è, come spiega il Maestro, proprio e non altro che il cuore (raziocinante) dell’uomo,
cuore che, se puro come si richiede alla metaforica stanza dove si svolge il confronto tra le cose, giudicherà rettamente
e si porterà con limpidezza e senza fallo al giudizio volitivo; in caso contrario si porterà al giudizio maculato
(come si vedrà), cioè al sofisma, all’errore e al peccato.]
Qui cominciamo a intravedere
cosa significhi la perifrasi cuore puro: cuore è lo stesso spirito dell’uomo, cuore è
l’intelletto in cui si opera il raziocinio: l’accostamento tra due elementi per concluderne un terzo; e poi ancora
per passare all’atto con un secondo giudizio (il giudizio pratico, il giudizio operativo), ancora secondo il medesimo
schema comparativo.
Il còmputo è
un percorso realizzato sulla base di dati ricevuti dagli altri strumenti necessarii allo spirito, ma a lui stranieri (interni
alla mente, come la memoria o l’estimativa; o esterni ad essa, come i sensi). Questi strumenti, che corredano la natura
dell’uomo, sono offerti da quella sua parte che lo accomuna al regno animale – e per i quali erroneamente si crede
che egli stesso derivi da quel regno –: istinti, affetti, passioni, bisogni, desideri, inclinazioni, necessità circostanziali
di ogni natura, come abbiamo visto all’inizio.
La ragione della loro esistenza
è data dalla natura in parte corporea del sìnolo costitutivo dell’uomo. Sìnolo: corpo
formato da un’anima razionale. È però necessario che tutti questi elementi, nei confronti della ragione,
mantengano la funzione che debbono avere: di sussidio e di assoluta subalternità, quale ricca, utile e necessaria strumentazione
capace di raccogliere e offrire allo spirito dei dati con i quali poi lo spirito stesso vive, pensa, conclude, e poi vuole e comanda,
senza interferire nei suoi processi né prima, né durante, né dopo.[Vai
alla pagina 2 di 3]
* * *
(Pagina protetta dai diritti editoriali).
* * *
|