Alzar
lo sguardo, e trovarmi subito come in Paradiso, fu un tutt’uno: santi e santi, che spettacolo, e angeli, potenti arcangeli,
cherubini, serafini giocosi, rosei, veloci; una festa radiosa, schiere lontane e vicine, tra le nubi Papi eccelsi, giovani martiri,
severi Dottori, estatiche vergini, austeri eremiti, tutti lì, uomini e angeli innumerevoli, sparsi nell’aere dei
cieli fino a salire ai cerchi più alti: ecco lì i Patriarchi antichi, il Battista, la Maddalena, gli Apostoli, lo
splendore della Vergine, e, al centro, il fulcro abbagliante della vita: l’eterna Triade.
Non ero in estasi, “fuori
di me”, ma sotto la volta della cupola della Chiesa del Gesù a Roma, a rimirare il grande affresco del Baciccia
a nome appunto La Visione del Cielo, uno tra i più belli e ricchi tra tutti quelli disseminati nella Città
dei Papi. Non ero in estasi dunque, ma direi in quella mirabile estasi di massa alla quale accedono adoranti i fedeli da duemila
anni allorché, durante i divini Misteri, un Dio davvero discende e, come dice Romano Amerio, quel Dio davvero si prende:
da mille e mille anni, siano catacombe o cattedrali, la Liturgia trinitaria che si svolge nei Cieli discende tra le sue greggi
sotto le spoglie delle sacre Specie; discende la Liturgia e si sostanzia il Cristo, Liturgo e Vittima; e la Chiesa, con la saggezza
di Sposa sua e di Madre dei chiamati ai sacrosancta Mysteria, procura di rendere queste greggi sempre al massimo ben edotte
della cosa: non solo dovutamente ammaestrandole con la più veritiera dottrina, ma anche conducendo per modo di dire i loro
sensi quasi a toccare la realtà procurata, a metterle, come diceva suor Elisabetta della Trinità, " faccia
a faccia pur nelle tenebre " con la Gloria (e che Gloria) di Dio.
È per tale intima
e religiosa necessità infatti che ben presto le pareti e le volte delle sacre stanze destinate all’Eucaristia, a
partire da quelle nascoste nelle catacombe, poi dei templi pagani convertiti alla Trinità, poi di tutti gli edifici sacri
di ogni dimensione e fattezza sparsi dove si diffondeva la Cristianità, si dilatano facendo largo ai santi, si dissolvono
e trapuntano di stelle, si squarciano dando posto non solo al glorioso passato della Chiesa militante, come coi cortei di vergini
e di martiri a Ravenna, ma pure al futuro già arcanamente presente della Chiesa trionfante, ai festosi Cieli delle cupole
che stiamo vedendo, a significare, con la loro rappresentazione pittorica, la loro effettiva se pur nascosta discesa.
Ciò che era stato
realmente ricevuto nei cuori era ciò da cui i cuori erano circondati; la realtà invisibile sull’altare era
visibile intorno all’altare, e i fedeli perdonavano il dolce inganno suggerito dai buoni artisti, ben sapendo che gli occhi
vedevano Cieli finti – che ispiravano realtà arcanamente già vive –, ma non falsi, ossia
che non sbagliavano realtà, dunque semmai profetici di realtà a venire, mentre le loro bocche ricevevano
Cieli veri e i loro cuori si allargavano a una Realtà già presente in tutta la sua divinità e in tutta
la sua umanità. La Realtà eucaristica, intorno alla quale si radunano i popoli facendo Ekklesia, Adunanza
di chiamati, Chiesa, sollecita da subito il suo insegnamento e al tempo stesso la sua visibilità. Se
potesse, o fosse davvero necessario, la Chiesa farebbe in oro zecchino i caratteri con cui scrive le pagine di dottrina, di modo
che, leggendole, tutti i fedeli possano cogliere di esse la nobiltà, la somma superiorità, anzi la divinità.
In qualche modo, Verità
e Bellezza sono insistite dalla stessa premura: la Verità, di irrompere in pienezza nei cuori, la Bellezza,
di rifulgere nella sua dovizia sui muri. L’ispirazione di dare agli edifici sacri la foggia cruciforme nasce direttamente
dalla sacralità dell’Eucaristia che vi si compie, sicché ai fedeli pare quasi di introdursi direttamente nel
legno della croce e nel Corpo stesso di Cristo (al quale davvero accederanno), quasi potesse verosimilmente avvenire quel mistico inserimento nel Sacramento ecclesiale, anticipata Eternità.
Nel ’400 Filippo
Brunelleschi aggiunge ai muri che con la loro disposizione cruciforme rimandano fisicamente al mistero dell’Incarnazione,
la figurazione architettonica dell’altro e più alto Mistero, la Trinità, e reinventa in Santa Maria del Fiore
a Firenze la cupola quale ‘luogo cosmico’ per incrociare adeguatamente i bracci longitudinale e trasversale
della basilica cristiana proprio lì dove batte il cuore di Cristo, lì dove si compie il Sacrificio, dando
così modo alla Chiesa di trasfondere nei suoi fedeli altri molto necessari ed eccelsi pensieri: lì dove l’Alto
discende sull’altare, alzate gli occhi, o fedeli, e ‘vedrete’ tutto ciò che attraverso l’altare
vi è entrato nel cuore.
Con il ricorso alla cupola
il geniale architetto – poi tutti i grandi e meno grandi architetti rinascimentali e barocchi – dà modo alla
Chiesa di poter suggerire alla cristianità la più compiuta e profonda metafora della Trinità che si possa
avere sotto le vestigia dell’arte, almeno da come ci viene descritta nelle pagine specialmente di sant’Agostino e
di san Tommaso, per illustrare con la massima verosimiglianza l’indicibile e sommo Arcano dove batte il cuore di Cristo.
Il cuore di Cristo batte infatti per il Padre, quel Padre che l’ha generato « prima dell’aurora »
(Ps CIX, 3), quel Padre a cui offre il proprio sacrificio per placarne l’ira e aprirne le cateratte di misericordia
(che sono poi in realtà lui stesso: il Cristo).
Cosa dicono infatti della
Trinità quei grandi Dottori della Chiesa? San Tommaso, in specie, raccogliendo nel De Trinitate della sua Summa
Theologiæ (I, qq. 27-43) la più compiuta formulazione di tutte le verità scritte dai santi teologi sull’argomento,
ci offre la sintesi più esauriente e in qualche modo a noi più comprensibile, per concludere che la ss. Trinità
è simile a una mente, che con le sue operazioni pensa e ama. Anche sant’Agostino accenna alla stessa analogia, in
particolare nel suo De Trin., X, 10, 18, che infatti costituirà il canovaccio agli sviluppi dell’Angelico.
Naturalmente il Mistero trinitario si eleva al di là di ogni figura, fosse pure la più riuscita, almeno per il fatto
che ciò che viene assimilato a una mente è in realtà una Persona, cosa valevole anche per un pensiero, altra Persona, e per la stessa loro spirazione, che è la Terza. Ma l’analogia proposta dai
due Dottori resta utile almeno « per chiarire – riassume bene p. Battista Mondin nel suo Dizionario
Enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino a p. 194 – come in Dio sia possibile a un tempo la sussistenza
di tre individui distinti e l’identità della natura, senza cadere nel politeismo ".
Come si diceva, si potrà
apprezzare ancor più l’opera materna della Chiesa allorché, dopo aver sviluppato adeguatamente la similitudine
in teologia mettendo al lavoro le sue menti più alte e sante, la traslocherà dai libri ai muri nell’influsso
che avrà sui suoi artisti, di modo che la Chiesa parrà quasi una sconfinata Ambrosiana, dove Pinacoteca e Biblioteca sono accostate in un unico insieme, e la Trinità potrà essere adorata e delibata sia sui libri,
sia poi quando gli uomini alzeranno gli sguardi sul gran cupolaio romano, verso le potenti curve della cupola di san Pietro, sia
quando poi un parroco di paese alzerà gli occhi verso l’umile cupoletta della sua chiesucola, quasi fosse una ‘Trinità
di campagna’. Ma vediamo come si può accostare una cupola al Mistero trinitario, e, ancor prima, come questo
è spiegato da san Tommaso.
Una mente che intende –
dice l’Aquinate –, genera, o emana, un pensiero (un logos, un verbum); la mente è il principio
(prima del quale altro non c’è) del pensiero che spira da essa, e questo è il motivo per cui la Persona divina
da cui è generato l’Unigenito si chiama ‘Padre’: perché una mente ha la paternità
del pensiero che ne viene generato.
Oltre alle considerazioni
sulla mente, va rilevato che, per quanto riguarda ciò che nasce da essa, il pensiero, esso non è un pensiero, ma
è nulla, se non rispecchia in sé la mente da cui procede, se non riflette la sua natura: non si avrebbe nemmeno,
il pensiero, se esso non fosse la perfetta immagine della mente da cui spira.
È così che,
accanto al notissimo Logos, o Verbum, emerge con forza Imago, il Nome absconditus, o Specchio,
o Volto, solo grazie al quale, spiega san Tommaso, è perfettamente sorretta la somiglianza tra Figlio e Padre: « Il Figlio procede come Verbo, e il concetto di verbo implica somiglianza di specie con il soggetto da cui procede [e
che è il Padre] " (Summa Theol., I, q. 35, a. 2).
Nel caso della Trinità
il pensiero generato dalla mente del Padre è il pensiero che dice tutto di quella mente da cui nasce e di cui è
lo specchio fedele e completo: è il pensiero dell’essere, in conformità a ciò che Dio dice di sé
quando gli si chiede chi Egli sia, quale sia il suo Nome: « Io sono Colui che sono " (Es III,
14). La mente è la realtà forte dell’essere; e il pensiero generato dalla mente esprime l’essere,
ossia ne è il Verbo, è la Parola infinita, positiva, forte, di « Io sono Colui che sono ".
La cosa si capisce meglio
se torniamo alla nostra cupola, che tra l’altro possiamo riscontrare anche piuttosto somigliante alla testa di un uomo.
La cupola si erge alta nel cielo, incurvandosi verso il centro, verso la lanterna da dove riceve la luce; le sue pietre scaricano
le loro forze lungo i costoloni, e questi le scaricano potentemente verso il basso, in modo tale però che, ricevendo più
giù, sotto il tiburio, le spinte contrarie dei bracci delle navate su cui poggia, esse vengano corrette nella loro traiettoria
e restino all’interno dell’area di appoggio, e ciò va notato, perché tutto questo potente costrutto
viene così a costituire in qualche modo il corrispettivo architettonico di quello che nella ss. Trinità è
dato dalla figura del Padre: la potente stanzialità dell’essere, e ciò non a caso, giacché
da sempre la pietra è stata chiamata dall’uomo a testimoniare la firmitas dell’eternità, p. es.
tutte le volte che Giacobbe alza grandi pietre per stabilire che lì, in quei certi luoghi, per sempre andrà
ricordato il Signore che gli ha parlato.
La volta della cupola è
dunque nella sua possanza il Padre, e come il Padre essa È, e potentemente È, voltando il cielo in una larga immensità
tenuta in piedi da pilastri immani. Ed ecco che, ancora come il Padre, la volta della cupola spira dalla potenza delle pietre
l’affresco dei Cieli, emana cioè il Figlio, genera sull’infinita superficie del suo essere il Pensiero
che rispecchia il Padre e la sua potenza. Come lo genera? Dovrebbe essere, per la dottrina vista, con la più esaustiva illustrazione della sua essenza, cioè di tutto ciò che il Padre rimira in sé: quello che vediamo,
quasi fossimo nella Mente del Padre, è il Logos, è la Visione della Gloria di Dio come la vede in sé
Dio, e ciò per via quasi di una trasudazione di figure e colori dalle pietre della cupola – ecco l’azione dello
Spirito Santo –, perché le pietre della cupola parlano, e dicono in cosa consista la beatitudine del proprio
celestiale firmamentum.
Struttura architettonica
e affresco sono tutt’uno. Sicché la cupola quasi spira ed emana l’affresco e l’affresco esprime e manifesta
la volta della cupola: l’affresco si vede, la cupola non si vede, come quando il Signore dice: « Chi vede
Me vede il Padre " (Gv XIV, 9): chi vede il Logos, Imago e Affresco del Padre, vede il Padre che
l’ha generato, vede la divina Cupola che l’Essere dà a sé e alla sua intellettuale spirazione.
La cosa è tanto
più aulente in quanto ciò che viene illustrato nelle cento e cento ‘Visioni del Cielo’ disseminate
nelle cupole sparse per l’Italia e per il mondo non è tanto ‘ciò che gli uomini vedono di Dio’,
ma ciò che Dio stesso vede in sé: la Trinità guarda, e in sé vede non solo le proprie beate Persone,
e la loro inesprimibile ‘Liturgia’, ma vede questa Liturgia partecipata nella propria infinita bontà
all’uomo, alla sua Chiesa, per il tramite della Liturgia di Cristo che si compie giusto nel luogo di cui il Padre
è il pago e benedicente Zenit.
L’analogia della
cupola mette in campo con forza quella che senza dubbio si presenta come una delle più significative scoperte teologiche
dell’Aquinate, non mai però successivamente scavata nei notevolissimi suoi risvolti scientifici e filosofici; parlo
del secondo Nome del Figlio, Imago, che, sulla base qualificata delle sacre Scritture (p. es. Ioan., XIV,
9; Col., I, 15; Hebr., I, 3), l’Angelico pone con autorità accanto al primo, Logos, tanto
quanto la rappresentazione di un pensiero va posta accanto al pensiero, il volto di un concetto accanto al concetto, l’espressione
di una nozione accanto alla nozione: come potrebbe infatti un pensiero esprimersi, ossia, dall’etimo, “premersi
fuori di sé”, se non attraverso la sua faccia, la sua effigie, la sua immagine? Anzi, si deduce da san Tommaso,
un pensiero neanche esisterebbe se non si formulasse in un suo volto: sarebbe un nerume, uno sgorbio, un rumore.
L’avere il Figlio due Nomi, e non uno, ossia essere il Figlio tanto l’Imago quanto il Verbum del Padre permette, nell’epoca che stiamo passando di relativismo, debolezza e scoordinamento dell’arte dalla religione,
di ristabilire un legame forte, soprannaturale, tra Bellezza e Verità, o, per dirla in termini filosofici, tra chiarezza
dell’enunciato e enunciato.
La similitudine della cupola
non soddisfa ovviamente tutte le esigenze che si potrebbero avanzare, ma resta il più riuscito esempio che si possa dare
della Trinità in architettura, e non a caso segnala con ineguagliata forza icastica la cattolicità di un edificio.
Sarebbe dunque anche un atto oggi notevolmente religioso reinventare la cupola in termini attuali, ricchi come siamo oggi di materiali
elastici quasi fatti apposta per “piegarsi” alle esigenze, diciamo così, “trinitarie”,
sol che ne sia preservato il carattere di sacro ‘teatro dei Cieli’, rispettata la proporzione aurea (misura
quasi sacra, direi, per la sua stretta attinenza al Logos), esaltato il Mistero aureo della Trinità, dalla cui sublime
Liturgia può come visto discendere la più superba arte – e davvero ‘trinoliturgica’ arte
– per rendere alla Verità la più adeguata (divina) Bellezza. .
(Pagina protetta dai diritti editoriali).
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