Parlo
volentieri di questo libro, per il quale ho anche scritto l’Introduzione (pp. I-IX), perché in Italia è
stato stranamente ignorato da filosofi e teologi solitamente molto attenti alle discussioni in materia di dialogo tra le religioni.
Sembra che l’argomento, per come è stato trattato, abbia imbarazzato non pochi, forse meno sensibili al riconoscimento
della verità delle cose che all’opportunità di dirla in termini di “political correctness”.
Da parte mia, io ho visto il lavoro di Radaelli come l’ormai improcrastinabile apertura di una discussione tra cristiani
credenti per riportare il dogma al centro del mondo, mentre altri hanno voluto vederlo come “un processo istruttorio all’ecumenismo”
di stampo relativistico, quale ultima e diffusissima eresia contro Cristo e la Trinità.
Ma questi ultimi equivocano
su molti punti: confondono l’ecumenismo (che nella terminologia teologica corretta indica il dialogo tra cattolici e cristiani
di altra confessione) con il dialogo tra cristiani e credenti in altre religioni, àmbito dottrinale nel quale ha particolare
importanza il dialogo tra cristiani e credenti nell'ebraismo e nell’Islam. Poi confondono anche i gesti e gli incontri di
tipo diplomatico e politico – occasioni nelle quali, necessariamente, le proprie convinzioni non vengono esplicitamente
enunciate – con le discussioni sincere su quale sia la verità rivelata da Dio e di conseguenza quale sia la verità
su Dio e quale sia la vera religione: tutti argomenti sui quali l’accordo a ogni costo sarebbe un controsenso. Infine, confondono
la fedeltà al dogma e alla dottrina infallibilmente insegnata dal magistero ecclesiastico con la rinuncia alla legittima
critica riguardo alle opinioni che certi gesti esteriori – che sembrano imprudenti o equivoci – possono provocare:
in quest’ultimo caso, io riconosco che Radaelli ha polemizzato con foga forse eccessiva, ma è il genere letterario
prescelto (quello classico della controversia) che porta a taluni eccessi verbali, che poi sono ben poco di fronte alla gravità
dei problemi in gioco.
Da un punto di vista contenutistico,
il libro di Radaelli è saldamente ancorato alla Tradizione, ma non mi pare che lo sia tanto per un pregiudizio tradizionalistico,
quanto per la necessità di criticare le tendenze modernistiche imperanti. Da un punto di vista stilistico, il libro è
capace delle più analitiche considerazioni filosofiche intorno alla logica e alla gnoseologia, ma non manca di poetici
colpi d’ala, già dall’incipit della Prefazione: « Sospingere l’uomo verso l’infinito.
Questo è il compito di ogni parola. Questo è il compito del linguaggio ».
L’abbrivo al complesso
discorso teologico successivo è posto nei fondamenti della logica, ossia nella logica aletica, poiché Radaelli è
ben cosciente che theos-logia e logos sono nel cosmo due generi che devono la loro esistenza a un unico principio
sovracosmico, il Verbo divino: « Egli è il nous, l’intelletto, ma anche il noumeno, l’oggetto
pensabile dall’intelletto, e infine egli è la stessa nous-logia, la gnoseologia: il percorso per pensare il
nous » (p. XX). Posto il principio conoscitivo nella medesima fonte da cui discendono le verità da conoscere
e le parole (scritturali e teologiche) che le fanno conosciute, il libro è tutto in discesa, conseguenza fluida e stringente
del Verbo creatore « cui mira come ultimo fine tutta la tensione vitale, intellettuale e affettiva degli uomini sue creature
» (cfr. pp. 61 ss. e p. 269, nota 1).
Radaelli ci ricorda così
che le premesse logiche del messaggio che viene da Gerusalemme si trovano a Stagira, patria di Aristotele (Stagira è appunto
la prima parola del libro); che la parola profetica della Scrittura ebraica acquista valore probatorio nel momento in cui il popolo
dei credenti fa uso del sillogismo greco. Radaelli mette bene in evidenza il legame profondo tra la ragione che cerca e la fede
che ascolta, tra i « semina Verbi » e il Verbo, cioè tra le due possibilità di uso della ragione
cui può ricorrere l’uomo: quella di cui è dotato per natura e quella concessagli per grazia dalla Redenzione.
Il motivo per cui il libro
ricorda come Aristotele e Mosè siano intrinsecamente connessi emerge fin dalle prime pagine: si tratta di confutare il
relativismo, l’evoluzionismo dottrinale, l’irenismo, l'indifferentismo, in una parola le correnti antidogmatiche che
in questi ultimi decenni hanno sommerso la cultura cattolica. La provvida operazione compiuta ai suoi tempi da Tommaso d’Aquino
(operazione, non si dimentichi, per la quale il santo dottore della Chiesa rischiò di passare per razionalista e amico
dei pagani), viene ripercorsa anche dall'opera che sto commentando, specialmente in quei luoghi in cui è ricordato che
la logica corretta è strettamente teoretica e l’errore logico è invece ateoretico. In altre parole, il pensiero
razionale è estraneo all’errore perché l’errore germina fuori di esso: nella passio, non nella
ratio (cfr. p. 269).
Come filosofo, particolarmente
impegnato negli studi di logica aletica, non potevo non dedicare attenzione a un discorso come questo, che alla fine mi ha convinto
per ciò che qui è individuato come criterio fondamentale: se l’errore è estraneo alla natura dell'intelletto
e della ragione, se ogni errore è in fondo una colpa morale, un peccato contro la luce, noi cristiani, quando vogliamo
fare dei ragionamenti corretti intorno alla parola di Dio e coltivare la scienza della Rivelazione, dobbiamo curare di mantenerci
liberi da qualsiasi passione, cioè da qualsiasi interesse che non sia quello della divina verità che salva. Peraltro,
anche questo concetto è derivato da quello che prima si diceva, per cui pensiero e pensato sono entrambi « proprietà
del Verbum » (p. XX).
Tutto il libro è
percorso fondamentalmente dalla persuasione (di genuina matrice gnoseologica, prima che teologica) che nessun discorso «
naturale » trovi fondamento se non alla luce di un'origine « soprannaturale » della verità,
come ben videro i filosofi cristiani, da Agostino a Tommaso e a Rosmini; questo vale particolarmente per la costruzione di un
sapere sulla Trascendenza, che ricava la sua purezza dal Logos, e ancora di più vale per ogni tentativo di spiegare
il valore e la portata del messaggio della Rivelazione. Fa bene allora Radaelli a mostrare e dimostrare che non si può
fare teologia senza coerenza logica tra argomenti di ragione e argomenti di fede, né si può fare senza una esplicita
impostazione filosofica adeguata all'intellectus fidei (quando manca l’impostazione filosofica adeguata, nella teologia
prevale sempre un'impostazione filosofica inadeguata, spesso inconsapevole).
Dopo
l’enciclica Fides et Ratio tutto questo dovrebbe essere scontato, ma in realtà il libro consente di rilevare
tristemente quanto questo concetto oggi sia sfocato persino tra coloro che dovrebbero sentirsi più responsabili della retta
dottrina nella Chiesa e che più docilmente dovrebbero seguire gli orientamenti del Magistero.
Di fronte a questa situazione,
l’autore, invece di stracciarsi le vesti – prassi abituale di tutti i dissidenti alla Lutero – utilizza uno
degli strumenti più tipici della carità cristiana, quella ‘correzione fraterna’ che Gesù stesso
ha raccomandato di praticare, alla quale fa seguire – con il medesimo spirito di umiltà e di carità –
una vera e propria supplica al Papa e ai vescovi della Chiesa cattolica. È vero che le sue parole appaiono a volte più
veementi di quanto sia consentito a un fedele che si rivolge ai suoi legittimi Pastori, ma esse in fondo non sono che l'eco delle
parole con le quali molti Padri e Dottori (Zeno da Verona, Cirillo da Gerusalemme, Barnaba, Ireneo, Beda, Agostino) insegnano
una dottrina cristologica ed ecclesiologica che oggi anche insigni teologi disdegnano (cfr. specialmente le pp. 270 ss.).
Qui sta il cuore della
questione o, forse, il suo punto debole: quasi che ci si possa severamente chiedere se questo è un nuovo libro scritto
da Radaelli o semplicemente l’antico libro (diciamo meglio, la biblioteca ampia come la Patrologia greca e latina del Migne)
in cui si trova raccolta la dottrina della Tradizione. Se, come mi pare, Radaelli non ha inventato nulla, allora sarà bene
considerare con estrema attenzione se non vi sia davvero « continuità », come egli asserisce, tra le
mille citazioni che egli fa delle Scritture, dei concili, dei Padri e dei Dottori della Chiesa. Indubbiamente, ove tale continuità
fosse accertata, si dovrebbero tirare le conclusioni riguardo alla fede da professare da parte di noi cristiani di oggi, con i
problemi di oggi. Alla logica aletica (il momento del riconoscimento della verità) dovrà fare riscontro una prassi
(pastorale, ma anche di politica religiosa) altrettanto coerente con la verità.
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