Prima
che i cristiani redigessero i loro scritti sacri (quelli appunto, del Nuovo Testamento) ebbero
sotto gli occhi i libri sacri del popolo ebreo. Le élites culturali elleniste, probabilmente,
li conoscevano nella ottima traduzione greca alessandrina (detta dei Settanta), la stessa
cui fanno riferimento i libri del Nuovo Testamento. I cristiani colti non potevano certo sottovalutare
che Gesù aveva più volte citato quei libri ebrei, considerandoli massimamente
autorevoli e divinamente ispirati, e che, proprio a causa dell’interpretazione contrastante
di quei testi, Gesù fu giudicato reo di morte. Del resto gli apostoli di Gesù
sottolinearono, a partire da Pietro, proprio quel contrasto, sicché tutto il Nuovo
Testamento ne è pervaso. Tuttavia i cristiani tennero religiosamente cari i libri che
contenevano la profezia divina della vera identità di Gesù. Neppure la zavorra
dell’epica ebrea o il basso livello dell’etica antica, certamente ostici per i
cristiani romani e per i cristiani provenienti dal platonismo e dallo stoicismo, neppure il
ritualismo sanguinolento raccomandato da quei libri, convinsero la nuova Chiesa di Gesù
ad emarginare i libri dell’Antico Testamento, sicché il tentativo di Marcione,
1 nonostante i varchi da lui aperti, andò a vuoto. Restò però il contrasto
esegetico. L’interpretazione esegetica segnò la differenza religiosa.
L’interpretazione
di Gesù rendeva inevitabile la concezione trinitaria della divinità e l’offerta
che lui faceva dei tesori divini (ossia di se stesso) rendeva di colpo superati legge, tempio
e culto prodotti precedentemente. La rigida interpretazione del Sinedrio si arroccava su un
concetto ingessato della divinità cui poneva il limite di non essere altro da ciò
che di lei era stato concepito dal Sinedrio stesso, erede culturale d’un passato non
tutto luminoso. Agli apostoli cristiani che, in confronti verbali diretti e negli scritti,
rivendicavano la continuità dell’esegesi di gesù con l’esegesi dei
Padri, gli eredi di Caifa hanno sempre risposto, fino al presente, accusando d’idolatria
gli eredi di Gesù. Ma l’influsso dell’esegesi ebraica, combattuta fino
allo spasimo nel primo secolo cristiano, si è dimostrato costante e crescente.
METAMORFOSI DELLA GIUDAIZZAZIONE.
Al tempo di Paolo tale
influsso era esercitato direttamente da ebrei cristiani i quali, non contenti di praticare ancora gli antichi riti insieme ai
nuovi instaurati da Gesù, pretendevano imporre quelli anche ai cristiani non provenienti dall’ebraismo.
Successivamente la cultura
ebraica ottenne di far privilegiare l’edizione propria dei testi ebraici, contro l’edizione dei Settanta.
Secondo molti, poi, nelle
interpretazioni riduttive del mistero teandrico di Gesù, condannate conciliarmente come eresie, era ravvisabile
l’influsso ebraico.
Il contrasto paolino “carne/spirito”
e “legge/libertà” riemerse, al tempo di Pelagio, nei termini di “natura” e “grazia”,
drammatizzati da Agostino.
Quando le popolazioni arabe
già cristianizzate confinanti con l’impero cristiano passarono sotto la bandiera dell’Islam, molti riconobbero
nel fenomeno una riuscita giudaizzazione. E più tardi, quando illustri pensatori di matrice andalusa ed ebraica, ripresero,
in vicendevole osmosi, l’Aristotele e il Platone tradotto dai siriani islamizzati, il loro influsso nella cristianità,
unito a quello specifico della cabala ebraica, apparve a non pochi un travestimento giudaizzante.
Sia sul piano strettamente
esegetico sia su quello speculativo Tommaso d’Aquino ristabilì precisi confini e corretti dialoghi, ma l’allarme
della cristianità nei confronti della fermentante giudaizzazione divenne, nei secoli seguenti, perfino acuto, anche perché
la lettura “talmudica” appariva prevalente sulla lettura ‘biblica” in ambiente ebraico.
Con Spinoza vediamo un’esegesi
ebraica (scomunicata dagli stessi rabbini) che si apre un varco temibilissimo in ambiente cristiano soprattutto d’area protestante
(temibilissimo, diciamo, anche perché coniugato con una gnosi anticristiana in crescente progresso). L’esegesi protestante,
che fin dai tempi di Reulin aveva offerto notevoli aperture alla esegesi ebraica, dimostrò, soprattutto nell’Ottocento,
la completa autodistruzione cristologica, come è stato indubitabilmente dimostrato da Brunero Gherardini. Ovviamente la
fede trinitaria dei cristiani protestanti è ancora sinceramente professata, ma a dispetto di celebrati cantori esegeti
–come Fichte, Schelling, Hegel, Feuerbach…
Nessuna meraviglia che
anche l’esegesi d’area cattolica ne sia stata lambita. Le difese approntate dalla Chiesa di Roma non sono state però
adeguate.
LA GIUDAIZZAZIONE DELL’ESEGESI CATTOLICA.
Il
dogma tridentino sull’ispirazione divina e l’immanità dall’errore
dei libri del canone biblico parve già offeso dagli esegeti modernisti del primo Novecento
e Pio XII intervenne ripetutamente con documenti magisteriali per indirizzar positivamente
l’esegesi cattolica in concomitanza con un crescente influsso dell’esegesi protestante,
la quale era spesso sotto ipoteca spuria.
Quando
io studiavo teologia (ancora Pio XII regnante) era già chiaro che De Lubac apriva l’esegesi
cattolica ad interpretazioni fluttuanti e che Lyonnet poneva problemi che urtavano interpretazioni
esegetiche dogmaticamente definite. Ma con Giovanni XXIII divenne cardinale un esegeta gesuita
che favoriva l’apertura all’esegesi ebraica: Bea. Sotto Paolo VI l’ex Sant’Uffizio
si dette un nuovo regolamento e si associò due commissioni consultive e negli anni
assistemmo all’inclusione in tali organismi, uno teologico ed uno esegetico, di vari
teologi ed esegeti assai disponibili all’accoglienza d’interpretazioni di derivazione
ebraica.
Ci
furono reazioni qualificatissime tra gli esponenti dell’esegesi cattolica, ma i media
recepirono il nuovo indirizzo filoebraico con amplificazioni che non badavano a sottigliezze.
Si forzarono anzi le direttive conciliari sull’esegesi in genere e sull’apprezzamento
delle religioni non cristiane (e dell’ebraismo in particolare) e alcuni esegeti vaticaneschi
addetti specificamente al dialogo con gli ebrei rasentarono addirittura l’empietà
e la bestemmia nella loro smania di esibire amicizia per gli ebrei..
Le
questioni che affioravano erano capitali. Gesù e gli apostoli da lui garantiti si erano
sbagliati? Scribi e farisei che condannarono Gesù erano nell’assoluta, radicale
e incolpevole ignoranza della rivelazione divina concernente Gesù? Le categoriche affermazioni
di Gesù sulla Nuova Alleanza e sul nuovo popolo universale dei credenti continuatori
della fede di Abramo, erano state equivocate dalla Chiesa bimillenaria di Gesù?
Durante
il pontificato di Giovanni Paolo II tali questioni sono restate vive e anzi sono state drammatizzate
con la notizia delle amicizie giovanili del Papa, dei suoi gesti clamorosi come l’atto
di culto nella sinagoga romana e presso il muro residuo del tempio gerosolomitano, e anche
di certe sue personali esegesi.
Dal
tempo di Giovanni XXIII esegeti ebraici hanno avuto diffusione favorevole tra i cattolici,
dietro l’esempio di Maritain, si mostrarono disponibili alla benevola accoglienza di
pensatori ebrei, ma con Giovanni Paolo II si è giunti ad una direttiva davvero culminante:
la commissione biblica, organismo consultivo della Congregazione per la dottrina della
fede, ha emanato, sotto l’avallo del Card. Ratzinger una istruzione esegetica, in cui
si giunge a raccomandare l’utilizzazione della psicoanalisi nella lettura della Bibbia.
Varie
voci critiche si sono levate contro tutto questo movimento e io vi ho aggiunto la mia, per
quanto modesta essa sia. E non la nascondo nemmeno qui, ora.
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