L’eucaristia, ‘azione di grazie’, è l’atto del Figlio verso il Padre come Verbo glorificante la Mente
di cui è « Specchio » e pienezza di Immagine. Il Figlio, essendo per questo « Gloria
del Padre », in seguito partecipa alla creatura tale suo eterno atto (che in lui è la sua stessa Persona)
nella divino-umana Incarnazione del Cristo, nella sua passione e morte, compiute a rendimento di grazie e di gloria al Padre.
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265. L’eucaristia
nel dogma cattolico. – L’eucaristia è il fastigio della religione e la consumazione del sacro.
Consumare:
perfezionare,
portare a termine, ma anche
impiegare pienamente.
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Verso di essa tutti gli
altri sacramenti sono quasi soltanto sacramentali, cioè cerimonie preparatorie. Il mistero della presenza reale
dell’individuo Cristo storico nel seno della Chiesa non disdice, anzi si addice sommamente alla struttura dell’ente
increato e di quello creato. È infatti la consumazione di tutti i valori della Monotriade riflessi nella struttura creaturale.
Consumazione = impiego pieno dei valori della Trinità
(potenza, sapienza, amore, nell’ordine, che per Amerio è il fatto centralissimo), i quali
valori sono poi dalla Trinità specchiati nell’uomo. |
È la consumazione
della potenza divina, contenendo il prodigio sommo della transustanziazione, della persistenza degli accidenti, della simultanea
presenza del corpo in più luoghi. È anche la consumazione della potenza nella creatura la quale divien capace di
operare la prodigiosa transustanziazione, riceve un pegno della sua glorificazione escatologica, fortifica tutte le proprie energie
morali.
L’eucaristia è
similmente la consumazione della sapienza, perché,
Consumazione qui come nutrimento completo; di cosa e da parte di che? Di verità, e divine,
da parte dell’intelletto
di una creatura.
Attraverso la materia!
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oltre alla comunicazione che Dio fa di sé nella creazione, nell’unione teandrica e nella grazia, egli trovò
modo mirabilissimo di comunicarsi sacramentalmente a guisa di cibo. E come nell’Incarnazione la natura umana stette senza
persona umana, essendo assunta dalla persona divina, così nell’eucaristia gli accidenti stanno senza la loro sostanza,
essendo sostentati prodigiosamente dalla sostanza del corpo teandrico. E anche alla sapienza dell’uomo si addice l’eucaristia,
perché la nostra ragione, riflettendo sopra il mistero, si alza sopra le repugnanze della natura sensibile e attinge nozioni
puramente spirituali.
La riflessione è sopra il Mistero, ma a partire sempre
da dati sensibili: i dati attuali del pane e del vino, e i dati storici dell’Ultima Cena, documentati
dagli Evangelisti. Amerio infatti è aristotelico, non fideista. |
L’eucaristia è
infine la consumazione dell’amore divino perché, bramando comunicarsi alla creatura in tutti i modi possibili,
l’infinito amore, già comunicatosi con la creazione, nell’unione teandrica e nella grazia, si comunica ora
nuovamente, perché l’uomo cibatosi del corpo di Cristo assume in misterioso modo la divinità. E anche all’amore
dell’uomo si addice l’eucaristia, perché all’amore infinito di Dio l’uomo è fatto capace
di rispondere con un amore che corre per spazi infiniti fondendosi e collegandosi con l’amante. 1
[Per tutto questo sviluppo mi sono ispirato a CAMPANELLA, Theologia, lib. XXIV, cap. 12, art. 7, pp. 46 sgg.,
Roma 1966.]
Lo spirito dell’uomo ragiona attraverso la materia ; facendo
ciò in grazia – e ciò amando pienamente secondo l’amore divino – non solo non muore nella
materia, ma viene divinizzato da Dio, suo amante, nell’eternità. |
266. Teologia dell’eucaristia.
– Ogni interpretazione del dogma eucaristico deve salvare la presenza reale del corpo di Cristo nel sacramento, e
cade o regge secondo che un tale realismo risulti o no salvato. Non spetta a un libro come questo entrare nei teologumeni vari,
arditi e difficili su questo soggetto.
Il fondo del mistero è
però che il corpo di Cristo, anzi tutto l’individuo teandrico si trova realmente presente dopo la consacrazione,
tutta la sostanza del pane essendo convertita in esso corpo. E l’offesa fatta al senso che dove è il corpo di Cristo
non percepisce che le qualità sensibili e la quantità del pane, non è propriamente un’offesa, giacché
il sensorio continua ad essere in atto verso il suo oggetto proprio, le qualità o accidenti o specie, benché all’oggetto
del senso non sottostia più la sostanza del pane, bensì la sostanza del corpo. Il corpo non è presente con
la sua quantità propria e fenomenica, bensì con la quantità fenomenica che aveva la sostanza del pane prima
della consacrazione. 2 [Si noti che non essendo l’estensione l’essenza
del corpo, bensì un suo accidente, la mutazione della sostanza non implica quella dell’estensione, come sarebbe nel
sistema cartesiano in cui l’estensione è l’essenza del corpo.] Tale è la dottrina dell’enciclica
Mysterium fidei di Paolo VI che ripropone ad litteram la dottrina del Tridentino.
Menzionerò il tentativo
moderno del Rosmini di concepire la transustanziazione come un succedere del corpo teandrico al corpo del pane in séguito
alle parole consacratorie. Il principio sostanziale dell’individuo teandrico, che è in cielo, avviva e fa diventare
sostanza con un processo analogo a quello della vitale nutrizione, onde il cibo diventa uomo. 3 [Vedi
l’ampio trattato sull’eucaristia in Antropologia naturale, ed. naz., vol. XXVIII, p. 275. Ma la dottrina del
Rosmini fu censurata dal decreto del 1888 sulle 40 proposizioni (A questa censura ha fatto però seguito recentemente -
I luglio 2001 - una Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede, firmata dall’allora card. Ratzinger, che
indica la prospettiva teologica con la quale i testi dell’Abate Rosmini, spesso apprezzati da Amerio per la loro profondità
dottrinale, permangono nell’ortodossia)] Il Rosmini mantiene la verità dogmatica che la sostanza del pane
si cangia intrisecamente nella sostanza del corpo teandrico.
267. Teologia neoterica
dell’eucaristia. – Il fondo del dogma è racchiuso nel senso ovvio del verbo estin dei Sinottici
e di I Cor., 11, 24, a cui si arrendeva Lutero dicendo: « Il testo è troppo forte ». 4
[Nella formula « Hoc est enim corpus meum » la particella enim non vale infatti
ma realmente, come è provato anche dalla sua posizione. Tale fu l’avviso di una commissione di latinisti presieduta
da G. B. PIGHI dell’Università di Bologna.] Vi sono nella Bibbia certo luoghi in cui il predicato essere ha
manifestamente senso metaforico e non ontologico. Per esempio nella spiegazione del sogno del Faraone in Gen., 41, 27 :
« septem spicæ… septem anni SUNT " le spighe non possono certo essere sostanzialmente una
durata di tempo. E similmente in altri luoghi il verbo essere vale, in forza del contesto, del senso e dell’intenzione,
simboleggiare. Qui invece il senso ontologico, che ripugna alla percezione sensitiva e che in Ioan., 6 aliena per
tale ripugnanza gran parte degli uditori, è proprio quello affermato dal Cristo, è il senso inteso dalla comunità
cristiana primitiva, è la fede della Chiesa lungo i secoli. 5 [Le anfibologie
in materia eucaristica spesseggiano in scritti rivestiti di carattere ufficiale. Nel n. 2 dei Documenti di lavoro editi
dal Centro direttivo del XX Congresso eucaristico tenutosi a Milano nel 1983 si asserisce che « il pane e il vino in
sé stessi, né come realtà né come segno, neppure dopo la consacrazione, hanno titolo alcuno per sostenere
e rivelare l’equazione posta da Cristo [questo è il mio corpo] ». Qui è negata l’efficacia
delle parole consacratorie e almeno oscurata la verità della presenza reale. L’anfibologia della dottrina del documento,
che si ispira a Rahner e Schillebeeckx, fu denunciata in « Renovatio », 1982, pp. 198 sgg e ne fecero una debole
difesa gli autori in « Renovatio », 1983, pp. 255 sgg. Tra l’altro essi sostengono che solo il Magistero
può giudicare dell’ortodossia di una posizione dottrinale. È invece certo che ogni fedele ha il diritto di
confrontare l’insegnamento dei privati dottori con quello della Chiesa universale e a questa stregua riconoscere se un autore
esprime la verità di fede o un suo opinamento contrario ad essa.]
Mons. Spadafora addita proprio alla ripugnanza suscitata dal discorso di Cristo in Ioan., 6 l’abbandono
di Gesù da parte dei Giudei
(v. F. SPADAFORA, Cristianesimo e giudaismo, Krinon, Caltanissetta 1987). L’interpretazione ‘antiteandrica’
sarà evidentemente una costante di tutti i secoli e i popoli messi a confronto col Cristo. |
La teologia neoterica,
espressa nel Catechismo olandese divenuto testo nelle scuole cattoliche, ha trasposto il cangiamento del pane eucaristico
dall’ordine ontologico all’ordine ideologico, insegnando che la mutazione operata in forza delle parole
consacratorie riguarda i fini e i significati: quel pane, che significa naturalmente il cibo sostentante la corporale
vita ed è a ciò destinato, trapassa a significare il corpo di Cristo e assume per fine la spirituale nutrizione
del cristiano. Che transignificazione e transfinalizzazione corrispondano meglio al carattere personalistico degli
atti religiosi, come vogliono gli autori di questa sentenza, non si può dire: anche nella transustanziazione è il
Cristo individuo teandrico che si offre, vittima e cibo, in oblazione d’amore. D’altronde offrire la propria sostanza
è atto assai più oblativo e sublime che offrire un altro significato alla medesima sostanza.
Avrebbero dunque ragione i ‘neoterici’ a vedere il valore
di un atto tanto più forte quanto più personale, giacché il punto vivo dell’universo è
la
comunicazione dell’Io di Dio all’Io dell’uomo. Ma, se l’Io di Dio è puro spirito, quello
dell’uomo non può prescindere dalla carne, e il Verbo di Dio si è fatto carne per questo: per non prescinderne,
anzi, per glorificare anche quella carne. |
Tralasciamo che questo
cangiamento non sostanziale non risponde né al testo sacro né alla definizione del Tridentino. Ma è da dire
che nel sistema neoterico la profondità del mistero dilegua. I neoterici insistono sulla inerenza profonda del fine
all’essere della cosa, ma non possono fare che la finalità e il significato siano ulteriori e superadditi [=
aggiuntivi, con terminologia campanelliana.] all’entità del pane. Certo il pane naturale ha il fine nutritivo,
ma non è costituito di un tal fine, perché un’idea (e tale è il fine) non può identificarsi
con la sostanza. Un pane che non avesse per fine la nutrizione non sarebbe pane, ma di avere per fine la nutrizione il pane lo
riceve dalla sua interna costituzione di sostanza atta alla nutrizione. Una pura transfinalizzazione è dunque cangiamento
di relazione e implica sempre la sussistenza di cosa che è in sé prima di essere in relazione.
Va aggiunto che Cristo nell’eucaristia è reale anche materialmente perché Egli vuole riscattare
non solo la parte spirituale dell’universo da lui creato, ma anche la materia, la quale è elemento fondamentale
per poter attivare la ragione soprannaturale: senza i sensi, infatti, non può aversi la fede (gli angeli e i demoni
non la hanno): il ragionamento di fede infatti ha inizio a partire da essi, i sensi. |
268. Il dileguo dell’adorazione.
– La conseguenza impellente e maggiore di prendere il mistero eucaristico come un puro cangiamento di significazione e di
finalità di un pane che rimane nella sua identità sostanziale è il venir meno dell’oggetto latreutico
e il dileguo dell’adorazione. Se il significato di una cosa è puramente metaforico e puramente intenzionale
e se il fine, prescisso dalla causa efficiente, non ha altra base che la mente che concepisce e vuole, non è più
possibile trovare nel pane eucaristico transignificato e transfinalizzato alcun aspetto per cui diventi adorabile: prima e dopo
la consacrazione si ha, in ordine reale, esattamente il medesimo. Nel pane realmente transustanziato nel corpo di Cristo
l’atto adorante trova invece una realtà su cui appoggiarsi, perché si adorano gli enti e non si adorano le
relazioni, anzi più propriamente si adora soltanto un ente personale.
Ancora persona: infatti persona è la realtà
prima e di Increato e di creato, ma la materia che riveste qui persone e cose può causare nell’uomo –
e di fatto causa – un malinteso e spostare alle cose l’attenzione che dovrebbe egli avere unicamente per le
persone.
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Se dunque l’eucaristia
è un nuovo rispetto anziché un nuovo oggetto reale, l’adorazione non ha più una realtà a cui
appigliarsi. Non si adorano metafore, ma enti. Quando nel politeismo pagano diventarono oggetto di culto idealità e astratti
come bontà, bellezza, giustizia, essi divennero subito persone e il culto non andava a quelle astratte significazioni,
ma provava il bisogno di prendersi come termine un essere personale. Le Grazie, le Furie, la Memoria sono tutte ipostatizzate.
Al dileguo della sostanza
che toglie l’oggetto dell’adorazione si accompagna il dileguo della durata, perché la durata è
un’affezione della sostanza e le affezioni durano solo nel durare delle sostanze. Un corpo simbolico che è dato in
cibo simbolico consuma interamente il suo valore con la manducazione. Ridotto il valore del pane eucaristico a simbolo di nutrimento
non resta più cosa alcuna di valore nel sacramento non manducato. Di qui l’opinione ormai divulgata nel popolo cristiano
che, levata la mensa del convivio eucaristico, non resti più nulla di divino nel tabernacolo. Se al contrario il pane non
è puro simbolo, ma sostanza reale, il sacramento permane oltre la finalizzazione e la manducazione.
269. Culto eucaristico
extraliturgico. – La declinazione del culto latreutico dell’eucaristia avviene e nel corso della celebrazione
liturgica, perché si manduca il sacramento senza espressamente adorarlo, e fuori della celebrazione perché il culto
del Santissimo, le visite, le esposizioni solenni, le Quarantore, le devozioni riparatrici sono cadute oggi in disuso e quasi
evitate come deviazioni. Benché Mysterium fidei del 1965, e la Istruzione Eucharisticum mysterium del 1967
raccomandassero vivamente la devozione del Sacramento sia pubblica che privata fuori della Messa, come estensione della pietà
cristiana che ha il centro nella Messa, la disaffezione per tale culto si propagò rapidamente, fomentata dalle deviazioni
teologiche e tollerata, per la consueta accomodazione, dall’episcopato. Giovanni Paolo II nella lettera indirizzata nel
1980 a tutti i vescovi Dominicæ cenæ credette di dover chiedere perdono « per tutto ciò che
in seguito all’applicazione talora parziale, unilaterale, erronea delle prescrizioni del Vaticano II possa aver eccitato
scandalo e disagio circa l’interpretazione della dottrina e la VENERAZIONE DOVUTA A QUESTO GRANDE SACRAMENTO ».
È per raddrizzare la deviazione deplorata anche nel simposio preparatorio di Tolosa che il Papa donò al Congresso
eucaristico internazionale di Lourdes del 1981 non già un calice con patena, ma un ostensorio, cioè una suppellettile
che si adopera nel culto del Santissimo Sacramento soltanto fuori della messa. 6 [Vedi
Congrès eucharistique Lourdes 1981, Paris 1981, p. 100. Si veda anche la deplorazione che il card. G. Siri nella
sua rivista « Renovatio », 1982, n. 1, p. 5, fa della « notevole decadenza del culto eucaristico ».]
Questo abbandono dell’adorazione
nella Messa e fuori è certo l’effetto della desostanzializzazione dell’eucaristia, decaduta da atto sacrificale,
che richiama direttamente il Dio Redentore, ad atto conviviale, che celebra l’agape fraterna. Esso costituisce però
anche un passo retrogrado, perché si tenta di raffigurare tale abbandono come un ritorno alla tradizione più antica.
Ora è appurato che fino al secolo XI l’eucaristia veniva conservata (come oggi d’altronde) con il fine primario
di comunicare i malati e i moribondi, ma questo fine primario non può alterare la natura del mistero che è per essenza
l’Adorabile. E non si può tirare indietro la Chiesa 7 [Dal secolo
XIII in qua l’adorazione dell’eucaristia fuori della messa è ricercata dal popolo, praticata e propagandata
da Santi, dall’Assisiate a Charles de Foucauld, presa come fine da fondazioni religiose, diffusa nelle Compagnie del SS.
Sacramento, rappresentata nell’arte, penetrata nella pietà popolare. Nel secolo XVIII l’opuscolo del LIGUORI
Visite al SS. Sacramento ebbe vivente l’autore ventiquattro edizioni e dopo la sua morte nel secolo XIX altre novantacinque.
Vedi in « Esprit et Vie », 1982, pp. 273 sgg., lo studio di J. ROCHE, Le culte du Saint Sacrement hors messe.]
a un grado meno sviluppato della sua cognizione di fede e della conseguente pratica del popolo di Dio. Come abbiamo asserito,
lo sviluppo storico delle credenze e della pietà produce una più profonda cognizione della Rivelazione, e se si
ripudia il principio dello sviluppo canonizzando non i principii, che sono immutabili, ma uno stadio dello sviluppo e in quello
fermando il moto vivo della Chiesa, si annienta gran parte della teoretica e della pratica dei dogmi cristiani, molto più
spiegati oggi che non fossero nei primordi o nei tempi di mezzo della religione.
Qui andrebbe precisato che lo sviluppo della cognizione di fede
della Chiesa non riguarda la cognizione (massima) degli Apostoli, ma la sua articolata esplicitazione; Amerio – come
si vede dal testo e meglio al § 90, p. 190, nota 13 e al § 319, p. 594 del suo Iota unum – era convinto
che la Chiesa sviluppasse l’una e l’altra; resta che l’argomento che sviluppa vale anche appoggiandosi
solo alla ‘cognizione esplicitata’, che non può mai invilupparsi. Per la correzione dell’errore
si veda il mio Romano Amerio. Della verità e dell’amore,
§ 10, pp. 177 sgg..
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270. La degradazione
del sacro. – Se il pane eucaristico non è che il pane a cui si aggiunge una nuova finalità, il Santissimo,
cioè il Sacro sussistente, dilegua del tutto.
La disposizione morale
con cui il popolo cristiano guardava al Sacramento variò nei secoli, ma sempre dentro un’invariabile di riverenza,
di tremore, di profonda tenerezza religiosa del tutto aliena dalla tendenza neoterica che ravvisa nell’eucaristia un pasto
d’agape, in cui si celebra l’unione d’amore della comunità. 8 [F.
BIFFI, rettore dell’Università lateranense, in « Giornale del popolo » del 27 marzo 1980 scrive che «
la Messa è frazione del pane, cioè spartizione di amicizia, di affetto, di aiuto ». Niente della transustanziazione
e del sacrificio.] Si avanza sino a sostenere la presenza di Cristo nel sacramento essere la presenza spirituale del Cristo
nella comunità stretta dalla carità fraterna. 9 [L’orientamento
antilatreutico è manifesto nella grande inchiesta di ICI, n. 564, p. 26 (15 luglio 1981) dove si deplorano « les
excès de la Contreréforme » e prevale l’interpretazione non realistica del sacramento.]
Le volgari, dissacranti e fintamente primordiali liturgie di Neocatecumenali
e Carismatici, tralasciata ogni più doverosa solennità nel culto dovuto alla Maestà divina, sono spinte
tutte in questa direzione di allegrezza conviviale, di agape, di naturalismo liturgico, e la promiscuità dei due
sacerdozi è spinta alle conseguenze più estreme. L’iniziale ritrosia di molti vescovi è presto
caduta davanti alla chiara benevolenza accordata loro da Giovanni Paolo II, che ne apprezzava il dinamismo, in controtendenza
con la parallela rarefazione delle vocazioni nella ‘Chiesa dei vescovi’.
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Il tentativo di rappresentare
la Cena del Signore come una celebrazione di amicizia e di allegrezza dà luogo oggi a sacrileghi convegni conviviali in
cui promiscuità di materie, arbitrio di gesti, illegittimità di consacratori, profanità di luoghi e di modi
costituiscono uno scandalo e una tristizia nella Chiesa. In realtà l’ultima cena fu un atto supremo di amore divino,
ma fu evento tragico. Si svolgeva infatti nel presentimento del deicidio, nell’ombra del tradimento, nello spavento dei
discepoli incerti della loro propria fedeltà al Maestro, 10 [Nessuno dei
discepoli è certo di non tradire e domanda al Maestro « Son forse io? ». Questa tragica incertezza del
proprio volere morale è colta stupendamente nella Cena leonardesca in S. Maria delle Grazie a Milano.] nello sgomento
prelusivo al sudore di sangue del Getsemani. L’arte cristiana ha d’altronde figurato sempre l’Ultima Cena come
un evento tragico e non come un convivio giocondo. 11 [Nel discorso del 9 giugno
1983 Giovanni Paolo II afferma che, essendo l’eucaristia memoria della morte, ma anche della risurrezione di Cristo, essa
ci fa partecipare alla vita trionfante del Risorto e quindi importa un clima di gioia. Ma è chiaro che la memoria si volge
primariamente e immediatamente alla Cena e alla Passione di cui l’eucaristia è un momento.]
A queste indegnità va aggiunta l’usanza ossessiva
della concelebrazione, che riduce visibilmente il senso d’adorazione dei sacerdoti concelebranti e vertiginosamente
il numero delle ss. Messe proprio quando ce ne sarebbe maggiore necessità. L’usanza ben si adatta alle disposizioni
del card. Carlo Maria Martini, il quale, ben lontano dalla pratica e dagli insegnamenti del Beato Alfonso Ildebrando Schuster
suo predecessore, sostiene che vanno celebrate poche Messe, ma buone, tralasciando che ogni Messa (fosse anche la più
sciatta) richiama su di sé le grazie del Signore per il sacrificio eucaristico celebrato.
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La desostanziazione dell’eucaristia
ha per forza scemato la riverenza al sacramento e la riforma liturgica vi si informa e la produce, forse per mimetica di ecumenismo.
12 [L’irriverenza giunse a tanto che i vescovi austriaci si videro costretti
a farne un uso speciale. Mons. Graber, vescovo di Regensburg, Die fünf Wunden der Kirche, Regensburg 1977, p. 10]
Abrogato quasi del tutto il digiuno previo alla sunzione; scemate le lumiere; divenuti rari inchini, baci e genuflessioni; 13
[Non solo non è più comandata la riverenza, ma è addirittura proibita. Il vescovo di Antigonish
nel Canada ha infatti proibito formalmente di ricevere la Comunione stando genuflessi, « The Globe and Mail », giornale
di New Glasgow, 19 agosto 1982.] destituito il Santissimo dal luogo più degno del tempio; calato il tabernacolo
dall’eccelsa all’ima e dalla centrale alla laterale posizione; disusate le private e le pubbliche devozioni latreutiche
paraliturgiche; cancellata dai calendari la solennità del Corpus Domini e divenuta la processione teoforica di diurna
in notturna come di lucifuga natio; tollerato l’uso di qualunque materia, sin di bodino dolce; 14
[Il giornale dell’arcivescovo di Seattle negli Stati Uniti « North-west Catholic Progress »
in marzo 1971 dava la ricetta per confezionare l’eucaristia: « milk, Crisco, eggs, baking powder and honey
», cioè latte, crisco (che è una sorta di margarina), uova, lievito e miele.] minuscolizzate le iniziali
delle parole sacre; disusati il preparamento e il ringraziamento per la Santa Comunione; 15 [La
madre di don Bosco, quando Giovannino doveva andare alla Comunione, lo segregava per tre giorni dai trastulli, e quell’alto
spirito che fu Antonio Fogazzaro si preparava sin dai primi di novembre alla Comunione dell’Immacolata (Epistolario,
p. 328) e sosteneva che l’insufficienza del frutto di una Comunione dipende dal non prepararsi da lontano.] decaduto
il precetto pasquale; sostituite le sedie ai banchi con genuflessorio; obsolescente l’obbligo di confessarsi delle colpe
gravi prima di accedere al corpus Christi; trattate le sacre specie da tutte le mani e data la Comunione da persone non
consacrate; famigliarità inaudite con le ostie consacrate che i preti inviano in busta per posta ai fedeli che desiderano
comunicarsi; 16 [Vedi nel giornale « L’Est républicain
», 8 febbraio 1977, la dichiarazione del vescovo di Verdun, che non trova niente di reprensibile in tale pratica.]
abolita nel Messale l’istruzione de defectibus in celebratione missarum occurrentibus. 17
[Questi difetti erano contemplati con somma cura nel Messale antico. Ma è chiaro che quando il Sacramento
perde la sua essenza di sacro i difetti che occorrono nella celebrazione divengono irrilevanti.] Insomma vi sono della
degradazione eucaristica mille e mille segni qui crèvent les yeux. 18 [Oltre
a queste degradazioni vedi in « Esprit et Vie », 1971, p. 11, un sommario delle indegnità che occorrono
comunemente nella celebrazione della messa, nonché la serie di abusi spesso sacrileghi denunciati dal card. RENARD in «
Documentation Catholique », 1972, col. 933.]
Ognuno dei fatti esposto in questo elenco
desolante meriterebbe
da parte del supremo Magistero una censura solenne. Non solo:
meriterebbe subito l’accensione di un ufficio vaticano che si
spandesse in tutto il mondo a verificare la sua estirpazione totale e il ripristino solenne della santità liturgica,
per via di quella nozione di eucaristia
ricordata anche da Amerio all’inizio del capitolo e
ripresa giusto al
paragrafo qui di sèguito [e che i vescovi (!) hanno così disinvoltamente
rifiutato e rigettato].
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E se l’eucaristia
è, come è, il fastigio del sacro e la riduzione di tutto il regno delle anime alla Monade essenziale, è da
dire che la crisi della Chiesa è crisi dell’eucaristia, crisi della fede nell’eucaristia, includendo
questa crisi tutto lo sreligionamento e il dissacramento che le molteplici variazioni partoriscono poi visibilmente.
Questo punto andrebbe sottolineato: le due crisi si identificano, e qui Amerio parrebbe dare alla seconda la
causalità della prima. Infatti la crisi dell’eucaristia è prima di tutto incredulità nel miracolo
– identica a quella vista sopra dei Giudei alle parole di Cristo – cioè alla reale possibilità
che l’Essere purissimo si incarni e acceda sostanzialmente in specie da lui stesso (a mio parere proprio per questo)
create. |
271. Il venerandum e
il tremendum dell’eucaristia nella storia della Chiesa. – Tralasciando di trattare degli usi giudiziali e taumaturgici,
19 [Celebre è il giuramento di Gregorio VII al cospetto di Enrico IV a Canossa.
Nella’abbazia di Münster nei Grigioni dipinti di età carolingia raffigurano san Pietro nell’atto di gettare
ai cani il sacramento per placarli.] spesso abusivi, che si facevano delle specie eucaristiche, è assodato che il
sacramento, più adorato che preso come cibo, destava nei fedeli profondi sentimenti di tremore, di fede e di amore. Il
diacono cantava infatti il monito: Accedite cum fide, tremore et dilectione. Questi sentimenti durarono sino al Vaticano
II nella pratica comune che nel ricevere il sacramento voleva si rinnovassero gli atti di fede, adorazione, umiltà, contrizione,
ringraziamento, speranza e carità, come risulta da ogni libretto di devozione.
E il tremendum del
sacramento, oggi quasi del tutto dileguato, giacché si va alla mensa eucaristica così disinvoltamente come si prende
all’acquasantiera l’acqua benedetta, risulta storicamente dalla commozione del popolo cristiano al diffondersi dell’eresia
di Berengario nel secolo XI. Si vide allora quale potenza avesse sull’animo degli uomini la fede nella presenza reale e
come lo scuotere tale fede facesse nelle moltitudini smuoversi sin la coscienza morale. Quando dunque Berengario negò la
transustanziazione togliendo il tremendum del sacramento, un enorme contraccolpo se ne ebbe nel popolo. Ne dà notizia
in termini impressionanti il suo contemporaneo Guitmondo di Aversa: « Homines scelestos ad Berengarium cuncurrere solitos
fuisse, qui lætabantur se magno metu liberatos, cum intelligerent EUCHARISTIAM NON ESSE REM TAM DIVINAM, ut propter eius
perceptionem a sceleribus et flagitiis se continere deberent ». 20 [«
Gli scellerati eran soliti accorrere da Berengario e si congratulavano con lui per essere stati liberati da un gran timore,
giacché capivano che l’eucaristia non era quella cosa così divina da dover astenersi per riceverla dai delitti
e dalle infamie » (P. L. 149, 1447).] L’eucaristia, essendo realmente il corpo di Cristo,
era un impedimento al peccato, perché il peccato era un impedimento alla percezione del sacramento. L’aspetto del
tremendum, legato alla transustanziazione, non pregiudicava ma prevaleva all’adorazione amorosa.
Questa peraltro, poiché
v’è nella pietà ortodossa l’intero arpeggio dei sentimenti, prevalse in altri momenti producendo la
fondazione di monasteri, massime femminili, il cui fine primario è l’adorazione perpetua dell’eucaristia.
Ma il carattere di tenerezza lo ebbe anche la devozione popolare. Lo attesta, per esempio, un libretto di pratiche di pietà
del Quattrocento pubblicato da mons. Carlo Marcora in Memorie storiche della diocesi di Milano, 1960, pp. 185 sgg. Al momento
dell’elevazione dell’ostia all’anima ingenua e fervorosa del credente par di vedere non l’ostia consacrata,
bensì il corpo medesimo di Cristo: allora mancano all’anima le parole sufficienti per riconoscere il beneficio ineffabile
« che il Signore si è lasciato vedere da ti ».
E tale penso voleva essere ed era anche l’anima pura e fervorosa
– che si faceva ingenua per meglio adorare – dello scrivente Amerio, umile e tremolante davanti al Dio, ma non
incosciente. |
Allora essa versa il suo traboccante senso venerabondo in un’effusione commovente di umiltà adorante.
Il dileguo della pietà
eucaristica è confessato da Paolo VI nell’enciclica Mysterium fidei e nell’Istruzione Memoriale Domini
del 20 maggio 1969. Esso viene fatto esplicitamente risalire al calo di fede perché « dove la verità e
l’efficacia del ministero eucaristico e la presenza di Cristo in esso sono state più approfondite, si è anche
meglio sentito il rispetto del sacramento ».
.
272. Sacerdozio e sinassi
eucaristica. – La centralità dell’eucaristia nel mistero cattolico fa che la sua degradazione si ripercuota
nella degradazione di tutti i sentimenti che ne sono preparazione e partecipazione. La degradazione è più che mai
palese nel sacramento dell’ordine sacro, perché questo mette nell’uomo la capacità ontologica di operare
la transustanziazione. E qui, come in ogni altro punto della religione, anzi come in ogni altro punto dell’organismo del
reale, le cose e i fenomeni sono concatenati tra loro con vincoli, rompere i quali è « ne le fata andar
di cozzo » (Inf., IX, 97).
Abbiamo già lumeggiato
nei §§ 80-2 la critica con cui i neoterici investono il sacerdozio cattolico tentando di ragguagliare il sacerdozio
comune dei fedeli, onde per il carattere battesimale sono consacrati al culto divino, e il sacerdozio sacramentale onde alcuni
individui vengono, con l’impressione di un ricalcato carattere, avvalorati ontologicamente e abilitati a transostanziare
il pane eucaristico.
L’elemento ontologico
del sacerdozio risponde esattamente all’elemento ontologico dell’eucaristia ed è palese che se nel sacramento
non si opera una ontologica trasmutazione di sostanza, ma solo una trasposizione di significati non esorbitante dall’ordine
intenzionale, non sarà necessaria alcuna peculiarità ontologica per operare una non ontologica trasmutazione.
Doppia mutazione: primo, in allargamento dal singolare al comunitario; secondo, da un ordine
specifico e atto a quel miracolo, all’ordine comune, atto a tutti i miracoli, tranne a quello. |
Se la presenza eucaristica è la presenza spirituale del Cristo nella comunità adunata per far memoria della Cena,
atti specificamente sacerdotali sono superflui e la sinassi del popolo fedele realizza la presenza eucaristica del Cristo. Non
è il sacerdote in quanto ordinato che attua la transustanziazione. Il sacerdote in quanto pari a tutti gli altri
membri della Chiesa nell’esercizio del sacerdozio comune presiede alla simbolica trasmutazione attuata dalla comunità.
Che Amerio si soffermi sul discusso articolo 7 dell’Institutio
è dovuto allo stupore tramortente che quella del tutto inadeguata definizione provenisse proprio dal magistero più
alto, e con tale leggerezza, pur avendo esso mostrato in altre occasioni l’intelligenza dovuta all’ineffabile
del Mistero. |
La riduzione dell’eucaristia
a sinassi anamnestica è il fatto dell’articolo 7 della Institutio generalis Missalis Romani promulgata da
Paolo VI il 3 aprile 1969. Essa definisce la Messa in questi termini: « La Cena del Signore o Messa È LA SANTA
ASSEMBLEA o riunione del popolo di Dio che si raduna sotto la presidenza del sacerdote per CELEBRARE IL MEMORIALE del Signore
». Si appoggia la definizione su Matth., 18, 20: « Dove si trovano due o tre radunati nel mio nome, io mi
trovo in mezzo a loro ». La definizione della Institutio, che indubbiamente ha contenuto dogmatico, secondo dichiarazioni
del card. Charles Journet, Paolo VI avrebbe confessato di averla sottoscritta senza leggerla. 21
[Così padre Joseph Boxler in « Mysterium fidei », febbraio 1982, p. 3.] Come si sa
ed è necessario, la massima parte dei documenti papali sono redatti dai collaboratori suoi 22
[Sul rapporto tra i Papi e i loro collaboratori nella redazione dei documenti, vedi le notizie su Leone XIII
di N. VIAN, Il leone nello scrittoio, Reggio Emilia 1980, pp. 169 sg. Quel Papa si faceva fare persino i carmi latini,
che poi limava.] e riveduti e talvolta anche fiduciariamente approvati dal Papa. La cosa non è incredibile, benché
le circostanze e la natura del documento la facciano essere un hapax nella storia della Chiesa. La cognizione personale dell’atto
che si sottoscrive è un dovere crescente o decrescente a seconda della natura del documento, che qui era un annesso di
Costituzione Apostolica.
La molteplice censurabilità
e l’incerta ortodossia 23 [L’incerta ortodossia della prima redazione
dell’articolo 7 è l’effetto di una contaminazione tra le esigenze della dottrina tradizionale e l’influsso
degli osservatori acattolici che assistettero ai lavori della Commissione conciliare non solo come osservatori (così portava
il loro titolo), ma come consultori e partecipi alla redazione dei testi. Mons. BAUM, allora presidente della commissione dell’episcopato
americano per l’ecumenismo, in « Detroit News » del 27 giugno 1967 dichiarò: « Ils ne sont pas
là (gli osservatori acattolici) simplement comme observateurs, mais aussi bien comme experts consultants et ils participent
pleinement aux discussions sur le renouveau liturgique catholique. S’ils s’étaient contentés d’écouter,
la chose n’aurait pas eu beaucoup de sens, mais ils contribuaient ».] di quella definizione, appariscenti
all’analisi intrinseca, sono poi confermate a posteriori dalla ritrattazione fattane qualche mese dopo la promulgazione
e della sua sostituzione con una formula dogmaticamente corretta. Il fatto di una tale quasi immediata ritrattazione non ha precedenti
nei pronunciamenti dogmatici della Chiesa e se vi sono non pochi disdicimenti ed abiure di errori pratici e politici, come quelli
di Pasquale II e di Pio VII, non vi sono esempi di una ritrattazione così nuova, sia perché concernente materia
dogmatica, sia perché venuta così presto a eliminare la prima sentenza. 24 [La
correzione dell’articolo 7 fu portata nel numero di maggio 1970 di « Notitiæ », organo della Sacra
Congregazione per il culto divino. La precede un proemio da cui si apprende che « i membri e gli esperti del Consiglio,
avendo esaminato l’articolo 7 prima e dopo la sua promulgazione, non vi trovarono alcun errore dottrinale NÉ ALCUNA
RAGIONE DI MODIFICARLO. Tuttavia per evitare difficoltà e rendere più chiare certe espressioni, si era deciso che
il documento sarebbe ritoccato qua e là ». L’articolo 7 fu non ritoccato ma rifuso interamente facendovi
apparire i tratti essenziali della dottrina della Chiesa, sebbene si continui a tacere della transustanziazione, che Paolo VI
doveva poi restaurare pienamente nell’enciclica Mysterium fidei. Ecco il testo rifuso: « Nella Messa
o Cena del Signore il popolo di Dio è adunato sotto la presidenza del sacerdote che porta la persona di Cristo per celebrare
il memoriale del Signore, cioè il sacrificio eucaristico. Perciò di questa riunione locale della Santa Chiesa vale
in modo eminente la promessa di Cristo: “Dove sono due o tre radunati nel mio nome, lì io sono in mezzo a loro”.
Infatti nella celebrazione della Messa, in cui si perpetua il sacrificio della croce, Cristo è realmente presente nell’assemblea
stessa adunata in suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola e sostanzialmente e continuamente sotto le specie eucaristiche
». Ognuno vede se son ritocchi soltanto.]
Come dice la nota, la palese innovazione della prima stesura dell’articolo 7 nasce dalla commistione
della dottrina cattolica con la protestante, confermata in seguito da testimonianze dirette, come quella data dal card.
F. Antonelli, pur strenuo difensore della esecrabile riforma, in Il card. Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica,
Studia Anselmiana, Roma 1998,
di N. GIANPIETRO. |
273. Analisi dell’articolo
7. – L’analisi della definizione rivela tosto la variazione dottrinale. Sino al Vaticano II tutte le teologie
e tutti i catechismi definivano la Messa come il vero e proprio sacrificio con cui, per il ministero del sacerdote, il
Cristo offre il suo corpo e il suo sangue al Padre in remissione dei nostri peccati. 25 [GASPARRI,
Catechismus cit., p. 205.] Nella Institutio invece la Messa cessa di essere atto sacrificale compiuto dal
prete in persona Christi e viene identificata in un’assemblea: « Cena Domini vel Missa est synaxis ».
Ometto di rilevare la novità del termine, frequentato dai protestanti, ma affatto ignoto al popolo cattolico. Rileverò
l’incongruo logico emergente dal predicato. La Messa, che è un seguito di operazioni sacre, non può identificarsi
in un’assemblea, adunata o da adunare, la quale è un’entità morale. Né si riduce a far memoria
del Signore, perché la memoria è un fatto dell’ordine intenzionale. È vero che il Cristo comandò:
« hoc facite in meam commemorationem » (Luc., 22, 19 e I Cor., 11, 24), ma il ricordare è
conseguente al fare.
Come si vede anche da qui, la metafisica si mostra sempre decisiva
nel risolvere le questioni, e se se ne prendesse atto come moralmente dovuto – l’uomo è tenuto moralmente
a seguire il vero – non avremmo nella Chiesa e nel culto il presente scempio. |
Non si comanda di ricordare quel che Cristo ha fatto, bensì di fare quel medesimo che il Cristo ha fatto (hoc facite)
e di farlo per ricordare. L’imperativo ha per termine il fare e non già il ricordare. È d’altronde significativo
che nel Messale antico tutte le parole commemorative e operative del canone stiano sotto la rubrica infra actionem. La
Messa è un’azione reale e la memoria è un fatto ideale a cui è finalizzata l’azione reale. Eppure
il valore puramente anamnestico della Messa è proclamato dall’episcopato di intere nazioni e per esempio il Missel
des dimanches edito dall’episcopato di Francia nel 1969 e riedito nel 1973 pronuncia espressamente che nella Messa «
il n’est question que de faire mémoire de l’unique sacrifice déjà accompli ».
È ad litteram la formula nudam commemorationem condannata dal Tridentino, sess. XXII, can. 3.
La concezione neoterica
di cui risente l’articolo 7 della Institutio importa in fondo una soggettivazione del sacramento, giacché
tacendo della transustanziazione ne tace la base extrasoggettiva.
Aggiungerei qui che il nuovo culto è toccato anche da un
elemento idealistico, dando forza all’idea soggettiva della comunità e togliendo verità a una presenza
reale fondata sulle testimonianze storiche di fatti storici (sacri). |
Tutto si scioglie nel sentimento che l’assemblea ha della propria fede. La rinnovazione del sacrificio, che nella dottrina
tradizionale si realizza in senso vero e proprio, qui diviene rinnovazione metaforica e puramente mnemonica di esso. Tale soggettivismo
eucaristico ha però carattere sociale: non è il singolo ma la comunità in corpore che attualizza la presenza
del Cristo. Superfluo osservare che Matth., 18, 20 richiamato nell’articolo 7 si riferisce alla presenza morale del
Cristo nella Chiesa, e non alla presenza reale nel sacramento.
274. La degradazione
del sacerdozio nell’eucaristia. Card. Poletti. – La vanificazione del realismo sacramentale produce due effetti
principali. Primo: se non vi ha nell’eucaristia mutazione ontologica soprannaturale, neppure occorrerà una
potenza ontologica soprannaturale per operare la presenza eucaristica: di qui la degradazione dell’officio del prete che
da sacerdote (= datore del sacro) si abbassa a primus inter pares nella celebrazione assembleare. E in secondo luogo
la presenza del Cristo essendo la presenza di lui nel seno della comunità che puramente memorizzando la avvera, il fatto
istantaneo della consacrazione ad opera del sacerdote indietreggia di importanza rispetto al fatto della sinassi e del conseguimento
dei fedeli in unum, con o senza base ontologica del sacramento.
Non illustreremo le celebrazioni
anomale, arbitrarie e sacrileghe in cui i laici presumono di consacrare l’eucaristia; abbondano, massime in Olanda, e vi
sono testimonianze anche fotografiche. Non le illustreremo, perché nessun vescovo (pare) le approvò mai, pur non
riprovandole solennemente, e anche perché la loro enormità (nel senso etimologico nonché usuale) è
irrefragabile. Ma non possiamo tacere che in molte diocesi, massime dell’area germanica, il popolo si associa durante la
celebrazione agli atti consacratorii del prete, profferendo con lui le formule e ragguagliando, come dissi, il sacerdozio laicale
al sacerdozio ministeriale. E non tanto la relativa frequenza del fatto, quanto la connivenza o il silenzio dei vescovi arguiscono
l’erosione avvenuta nella Chiesa circa la fede nell’eucaristia. Ecco un fatto.
Martedì 24 aprile
1980 in Roma nella Chiesa del Gesù, tra le romane la più centrale e frequentata e quella in cui si svolgono le solennità
in omaggio delle autorità civili dell’Urbe verso la Chiesa, assistetti io a una Messa durante la quale tutto il popolo
conconsacrò col sacerdote, profferendo ad alta voce le parole della duplice transustanziazione. Per impulso del
card. Francesco Seper, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cui narrai l’accaduto, scrissi tosto al
card. Ugo Poletti, Vicario di Roma, denunciando il fatto come « abolitio sacerdotii, deiectio sacramenti, irrisio rubricarum,
humanarum divinarumque rerum confusio ac permixtio » e tanto più altamente stupefacendo « quia in urbe
Roma, quod fuit orbis catholici caput, sacrorumque exemplum et speculum orthodoxiæ et orthopraxeos, tam monstrosa denormatio
apparuit ». 26 [« Abolizione del sacerdozio, degradazione del
sacramento, irrisione delle rubriche liturgiche, confusione di sacro e profano… che una tale mostruosa deformazione abbia
luogo in Roma, che fu la capitale del mondo cattolico, esempio dei sacri riti, specchio del retto credere e del retto operare
».] Ma ebbi risposta a tale doglianza solo in luglio dopo che, non intendendo restare inculcato nel mio diritto di
membro della Chiesa ad avere i riti secondo le norme della Chiesa e ad ottenere soddisfazione di una giusta rimostranza, la ebbi
sollecitata con nuova missiva. Il cardinale mi notificava allora di avere omesso di rispondermi ritenendo la mia « una
semplice segnalazione di un episodio occasionale e non già la denuncia di un fatto di cui fosse tenuto a rendere conto
». Egli comunque confermava la realtà dell’« assurdo abuso », ne assicurava l’eccezionalità
e rivendicava la regolarità della liturgia celebrata a Roma « che è forse migliore che altrove ».
È facile rilevare
che il vescovo è nella sua diocesi responsabile dell’ortoprassi liturgica e deve renderne conto a chi lo chieda;
che l’eccezionalità dell’abuso in Roma non celava la frequenza sua nell’orbe cattolico, e infine che
la gravità dell’eccesso avrebbe dovuto provocare un’inquietudine pastorale, un sollecito riscontro alla rimostranza
e pronte misure di rimedio al disordine. 27 [La corrispondenza sta tra le mie carte
(Nota di Amerio).]
275. Preponderanza della
sinassi al sacramento. – Abbiamo visto come il richiamo a Matth., 18 nell’articolo 7 mettesse in ispicco
la presenza spirituale di Cristo nella sinassi e non la distinguesse bene dalla presenza reale nel sacramento. Il termine classico
di transustanziazione non vi compare neppure. La prima conseguenza del rilievo dato alla sinassi disgiuntamente dalla transustanziazione
è la partecipazione del popolo alla consacrazione, insinuata anche dall’anfibologia del nuovo canone dove tutta l’assemblea
è detta ammessa « al servizio sacerdotale ». 28 [Mons.
RIOBÉ, vescovo di Orléan, vuole che la comunità si elegga il ministro consacrante traendolo dal proprio grembo,
cioè puramente nominandolo (ICI, n. 451, p. 21, I marzo 1974).] Ma se Cristo è presente nell’assemblea
dei commensali e l’agape è il primario elemento della celebrazione, la sinassi preponderà all’individuo
atto del sacerdote transustanziante: perciò si dovrà concludere che nell’impossibilità di avere nel
proprio sito prete consacrante non lo si dovrà ricercare in altri siti con trasferimenti disagevoli, consueti nei secoli
passati a generazioni più religiose e riflessive, ma converrà identificare il culto domenicale col puro raduno del
popolo di Dio.
Che tutti o pressoché tutti i vescovi siano conformati alle
nuove dottrine lo si deve anche alla caduta della virtù di fortezza, oltre alla vertigine di timore che molti prende
di non squassar la Chiesa disobbedendo ai fratelli e magari al Papa, come osò mons. Lefebvre.
E più: a chi conviene l’ostracismo? Proprio il caso di quel vescovo prova che i tempi di sant’Atanasio,
in cui le genti combattevano per la verità a fianco dei propri vescovi, oggi non sono più. Inoltre, allora
come oggi la plebe umile sa che verità e Papa sono il medesimo: se all’epoca avesse dovuto scegliere
tra il Papa e Atanasio, non avrebbe scelto Atanasio. Bisogna considerare poi che il santo vescovo non si trovò mai
solo, né mai si mise recta contro il Papa, seppur il Papa contro lui. |
Questa è infatti
la dottrina che i vescovi di Francia hanno promulgato in documenti espressi, approvando e incoraggiando la pratica invalsa di
radunare il popolo in assemblea domenicale senza il prete. I vescovi incoraggiano i fedeli a non spostarsi dalla loro parrocchia,
dove non c’è prete che celebri, a parrocchia dove il prete celebra, e li esortano a rimanere nella comunità
locale per due ragioni: primo, perché (dicono) il più importante è la comunità ecclesiale cioè
la socialità, come avrebbe riscoperto il Concilio. 29 [Questa dottrina i
vescovi di Francia l’hanno esplicitata nel Missel des dimanches 1983: « L’eucharistie est sans doute
la meilleure manière d’animer un rassemblement de chrétiens, mais elle n’est pas la seule ».
Qui la differenza tra sacramento e sinassi, che è di essenza, viene sostituita da una differenza di grado.] Secondo
perché « on ne se met pas en règle avec Dieu en se soumettant à une obligation ». Così
il vescovo di Evreu in « Documentation catholique », 6 aprile 1975, col. 348 e così cento e cento bollettini
parrocchiali e pubblicazioni officiose e officiali. Il vescovo sembra ignorare che la religione non è essenzialmente che
obbligazione dell’uomo a Dio e che nell’osservanza di tale obbligazione si stringe (anche secondo il Vangelo, che
è una legge nuova, ma una legge) la totalità della religione cristiana. Né si tratta di piegarsi a una dura
necessità, ove la parrocchia sia sprovvista di curato. Si tratta di una vera e propria superiorità accordata
alla sinassi eucaristica, alla comunità dei fedeli sul presbitero consacrante, al sacerdozio comune sul sacerdozio ordinario.
E tale superiorità è riguardata come una riscoperta della vera natura della Chiesa, di cui saremmo debitori al Vaticano
II. Lo dichiara apertis verbis il vicario generale del vescovo di Ain in un’intervista di aprile 1976 al periodico
« Contact », n. 42 : la pratica è raccomandata « par l’ensemble des évêques
de France » e dando alla pratica una base dottrinale: « le Concile » dice « nous a aidés
à redécouvrir CE QUI EST PREMIER, c’est le peuple de baptisés… Dans cette nouvelle per-spective
l’importance c’est que le peuple de Dieu se rassemble ».
È il consueto, ossessivo refrain: “Solo il Concilio
aiuterebbe a riscoprire primitivi valori che la Chiesa nel corso dei secoli (forse col Tridentino?) aveva smarrito”.
Tutti questi ‘valori’, che fortunosamente ora sarebbero stati recuperati, non sono che “a maggior vantaggio
del popolo di Dio”, popolo evidentemente negli
ultimi secoli bistrattato dalla Chiesa: ma la Chiesa di oggi non è la Chiesa di ieri, i Papi di oggi non sono i Papi
di ieri. |
E mentre questo viene riguardato come una speranza della Chiesa, si preannuncia l’oltrepassamento dell’eucaristia
ad opera della sinassi: « La prise en charge par les chrétiens de leurs assemblées, MENE A ALLER PLUS LOIN
QUE LA MESSE du dimanche ». Così la Messa, che è l’apice del sacro, il mistero attorno a cui gira
la Chiesa, l’operazione sacra per compiere la quale sono ordinati i presbiteri, entra in una prospettiva di evoluzione e
di oltrepassamento. Si scopre la mira ultima e ultimissima della metabola catastrofale di cui trattammo al § 37: il deprezzamento
della Messa con la conseguente abolizione o decadenza del precetto festivo. 30 [La
cosa era già echeggiata al Concilio nelle congregazioni CIX e CX per la bocca di mons. LA RAVOIRE, vescovo indiano, e del
patriarca MAXIMOS IV, secondo i quali « è difficile trovar ragionevole il precetto festivo sotto pena di peccato,
nessuno ci crede e gli increduli cene sbeffeggiano » (OR, 26-7 ottobre 1974; « Le Monde », n. 20
ottobre 1964). Vedi al contrario la mirabile apologia che della ragionevolezza, della religiosità e della legittimità
del precetto fa il MANZONI, Morale cattolica, Parte Prima, cap. VI, nel vol. II, p. 111 ed. cit.]
La degradazione dell’eucaristia
che è il fenomeno più imponente della Chiesa contemporanea è in ultima analisi un effetto della desostanzializzazione
e conseguente soggettivazione del mistero. Se l’eucaristia è una celebrazione di memoria, di amore tra i fedeli e
di speranza in un mondo migliore, essa discende dal suo grado eccelso e si allinea ai riti noti all’etnografia religiosa
del pasto sacro di identificazione col dio. Nei riti di Dioniso i partecipanti divengono capri e in quelli di Era le sacerdotesse
sono orse, per memoria, si intende, per assimilazione intenzionale.
L’immagine è forte, ma vera. D’altronde, se l’eucaristia non dà più
il reale dell’unione di Dio con l’uomo, che è Cristo sotto le Sacre Specie, al suo posto vale qualsiasi
sogno della comunità religiosa, serrata, imprigionata, legata, come gli spiritualisti di tutti i tempi, nella propria
carnalità. |
Non c’è il proprium del mistero cristiano in cui è realmente presente e realmente si prende Dio. 31
[Paolo VI colpì la deviazione nel discorso ai vescovi della Francia di Sud-Ovest, ricordando che «
la célébration de l’Eucharistie se situe bien au-delà d’une rencontre fraternelle et
d’un partage de vie » (OR, 18-19) aprile 1977).]
* Docente di Filosofia dell’estetica e direttore del Dipartimento di Estetica
della Associazione Internazionale “Sensus Communis” (Roma), collabora alla cattedra di Filosofia della Conoscenza
(sezione Conoscenza estetica) della Università Lateranense.. |