Tra arte e religione c’è
oggi un problema grande come il mare: questa è opinione pressoché universale, condivisa sia da chi si limita a denunciarlo
che da chi cerca le strade per risolverlo al meglio. Per dirla tutta, questo non è solo un problema di oggi, ma di quasi
tre secoli. In tal senso si è espresso, p. es., anche Timothy Verdon, che ha emblematicamente titolato un suo recente articolo
su questi stessi fogli Quando si è spezzato il filo dell’arte sacra. Oggi però il problema è
ha raggiunto il suo massimo.
La gente, se vuole andare
a vedere le cose belle delle città, va nei centri storici, va dove sa di trovare ancora la bellezza. Anzi, va nelle chiese:
in una qualsiasi delle cento e mille chiese dei centri storici d’Italia. Credenti e non credenti, se vogliono esser certi
di trovarsi davanti a qualcosa che profumi di bellezza, di umanità, di armonia e allo stesso tempo faccia come respirare
la vita, vanno a tirar su sguardi e nasi in quei « Giardini dell’Arte e del Sacro » che sono le chiese
di cui la nostra Penisola è fiorente. La gente va nelle nostre chiese antiche: paleocristiane, medievali, rinascimentali
o barocche che siano. Le chiese più recenti, a parte rare eccezioni, le trascura volentieri.
Perché mai ci si
trova sempre così bene quando entriamo in una chiesa carica di sacro e di bellezze antiche – di cui ci deliziamo
non perché « antiche », ma perché « bellezze »–, e invece,
allorché si entra in chiese che tentano di caricarsi di sacro e di bellezze nuove, moderne, sovente ci sentiamo avvolti
di freddo, di vuoto, persino respinti? Respinti non perché « nuove », « moderne
», ma perché non « bellezze », ma cose tristi, angoscianti, frigide, poco emozionanti, sciatte,
a meno che la beltà non abbia cambiato veste. Magari le bellezze antiche non fossero solo antiche! Magari fossero anche
« moderne »: di artisti d’oggi dal cuore gonfio di religione come erano gonfi i cuori di Giotto,
di Michelangelo, persino di quel gran peccatore di Caravaggio!
Quando entriamo in una
chiesa, antica o moderna che sia, il cuore ci chiede « se ci si trovi a casa o no »: e succede che noi
gregge, noi gente semplice, noi popolo, quando contempliamo le architetture, gli affreschi, i mosaici, le vetrate, i quadri sacri,
quando guardiamo le volte, o le meravigliose cupole, quando sfogliamo uno dei tanti libri di orazioni, ci sentiamo a casa, e ci
si allarga il cuore, perché ci sentiamo nel nostro habitat naturale, siamo come dietro il nostro Buon Pastore, nella serenità
dei suoi pascoli benedetti e solari. « Stare a casa » quando fuori c’è tempesta è
la promessa del Signore, e la gente semplice, la sua gente, si fida di lui, perché fuori del suo cuore, fuori casa sua,
può succedere di tutto, ma chi sta dentro, quasi come san Pietro che fino a che ebbe fede nel Signore potè camminare
sulle acque del lago in tempesta, è protetto, è rassicurato, è in pace, ed è quanto basta, come dice
il Salmo: « Una cosa solo ho chiesto al Signore, questa solo io cerco: abitare nella casa del Signore tutti
i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore e ammirare il suo santuario » (26, 4).
Non possono forse, questi
nostri bei « Giardini », rinverdirsi ancora, oggi, e suscitare ancora, oggi, lo
stesso struggimento di ieri, lo stesso emozionante sentimento di pace e di appagamento interiore, con nuovi fiori di arte, nuovi
boccioli di bellezza, nuovi germogli e profumi di sacro, che sappiano come quelli antichi di calda umanità, di santa verità,
di rispondenza piena e riposante alla semplicità dei cuori? Certo che possono.
Fino a ieri sembrava quasi
che a ogni Messa, nella Casa di Dio che è la Chiesa, dalle sagrestie uscissero idealmente cortei di chierici e sacerdoti
per celebrare i sacri Misteri e uscissero dai « Giardini dell’arte » cortei di pittori,
musicisti, scultori, architetti, poi di coristi, miniaturisti, vetrai, scalpellini, esperti di ogni Musa, a mostrare con l’arte
il Nascosto celebrato; sicché a ogni Messa l’Arcano di giorno in giorno sempre più rapiva e la Sua beltà
di giorno in giorno sempre più ci avvolgeva. A ogni Messa più nobile la religione, a ogni Messa più bella
l’arte: il loro raggio penetrava il tempo, trasfondendoci la meraviglia.
Pare dunque che le cose
si possano mettere così: che fino a un due o tre secoli fa l’arte per millenni si sia compenetrata di religione –
cioè della verità della religione – e viceversa la religione si sia compenetrata dell’arte – cioè
della bellezza della religione –, assecondando l’alta sentenza per la quale verità e bellezza si intrecciano
in un’unica danza – pulchrum in vero et verum in pulchro conventuntur –, mentre poi, decadendo gli uomini
nello spirito del secolo malgrado gli sforzi incessanti della Chiesa, l’arte diventa sempre più finta, e la tensione
di far entrare l’arte nella religione permane solo qua e là: è perso il moto inverso (e che dovrebbe aversi
pure prima) di far entrare la religione nell’arte. Ma l’arte è ancora arte, se prima come spugna
non si imbeve di religione? Forse che l’arte nasce da se stessa?
Quei « Giardini"
di cui si diceva sono nati perché irrigati dalle acque della Bellezza. Acque sacre: fin dai tempi di Platone e di Aristotele
la Bellezza, la Pulchritudo, è riconosciuta (con la Verità e la Bontà) un attributo di Dio. La Rivelazione
ha dato certezza all’opinione dei Greci e ciò sarà ora di grande aiuto pratico. Difatti le pecorelle del gregge
san bene dai loro Pastori che quando si trovano di fronte a qualche quesito che non sanno risolvere, un quesito di quelli davvero
importanti, la cosa migliore da fare è andare a vedere come stanno le cose all’interno di uno dei due profondi Misteri
della nostra fede, il Mistero dell’Incarnazione e il Mistero della Trinità, perché essi sono lì anche
per questo: per aiutarci a capire. Aiutarci con le mille considerazioni che i grandi padri, i dottori, i santi (e con loro gli
artisti) hanno compiute nei secoli contemplandole alla luce dei sacri Testi. Infatti le più decisive considerazioni che
san Tommaso d’Aquino fa sul Pulchrum, sulla Bellezza, si trovano proprio nel suo De Trinitate.
Le Fonti delle dolci e
limpide acque della Bellezza sono nel sacro, nella religione: sono in Dio Trinità. Ma bisognerà capire meglio come
ciò avvenga, e cosa poi ne consegua per noi.
San Tommaso insegna che
le relazioni tra le Persone trinitarie sono dovute alla nascita ab æterno dal Padre della seconda Persona, nascita
o generazione che in qualche modo è come quella di un concetto (o idea) da una mente: la mente del Padre, principio senza
principio, genera in sé un concetto che la pensa, che ne è lo splendore e che la rispecchia perfettamente. A tale
concetto generato dal Padre l’Angelico riconosce allora, cioè solo per tali motivi, quattro Nomi (S.
Th., I, 34, 2, ad 3), i quali esprimono a noi, menti limitate, i suoi quattro requisiti personali di Unigenito di Dio: egli
ha nome Figlio, Splendore, Imago (o Volto, o Specchio) e infine Verbum (o Pensiero,
o Logos).
La cosa si capisce meglio
se, riprendendo qui un esempio già conosciuto ma incline poi a vasti sviluppi, si pensa a una di quelle belle cupole del
Barocco italiano (simile in qualche modo alla nuca di un uomo), nelle cui volte si stendono gli affreschi delle Glorie celesti:
struttura architettonica e affreschi sono tutt’uno. E noi vediamo che dalla volta della cupola emerge l’affresco,
come fosse generato dalla cupola: nasce in tutto il suo splendore la visione emozionante, fulgida e viva di ciò che quasi
viene « pensato » dalla « mente » rappresentata dalla cupola: « La Trinità
rimira in sé le proprie beate Persone e la loro inesprimibile ‘Liturgia’; in tale Liturgia rimira anche
la propria infinita bontà partecipata all’uomo, alla sua Chiesa, per il tramite della Liturgia di Cristo che
si compie sull’altare: dalla volta dei Cieli il Padre benedice e accetta il santo Sacrificio ». Le pietre, infiammate
di vita, accendono un affresco. L’affresco, come la seconda Persona della ss. Trinità, è in primo luogo un
« figlio » generato dall’immensità della volta; coi suoi colori e le sue luci celesti è
poi il suo liturgico « splendore »; con le figure di santi, di angeli e delle stesse tre divine Persone è
inoltre il suo « volto »; infine, con la verosimiglianza e l’identificazione di tutte queste cose così
precisamente rappresentate, è il suo « logos », il suo « pensiero ». L’esempio
ci aiuta a capire le cause per cui l’Aquinate ritiene di dover indicare per la santa e misteriosa Realtà della seconda
Persona quattro Nomi, e proprio quei quattro.
Tanto è efficace
questa figura che se invece si prova a prendere a esempio la cupola del santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano, dove solo
con gran fatica si intravedono i segni delle sinopie preparate da Bramante per illustrare le glorie celesti, a cui però,
per improvvisa mancanza di fondi, non seguirono le stesure dell’affresco, si vede subito che le cose sono ferme a metà:
la « mente » della cupola bramantesca non partorisce « come un figlio » l’affresco,
non emana dunque lo « splendore » che dovrebbe infiammarla di colori, non esprime il sublime « pensiero
» che invece ci si aspetterebbe che esprimesse. È una bellissima cupola, è anzi espressivamente unica, ma,
così incompiuta – Bramante ci perdonerà –, resta « vuota di sé ».
L’esempio chiarisce
però ciò che ci serve: quando ci troviamo in certe cupole del Rinascimento o del Barocco italiano vediamo in qualche
modo la Trinità, e constatiamo poi quanto siano decisivi, per « vederla », quei quattro Nomi così
ben individuati da san Tommaso. Non possiamo in specie fare a meno di notare che se provassimo a toglierne uno, anche uno solo
dei quattro, subito cadrebbero anche gli altri tre, come succede a Santa Maria delle Grazie, dove la mancanza di colore, vale
a dire dello « splendore », frena e dissolve la nascita del « figlio », che è a dire
il suo « volto », dunque il suo « pensiero ». Per cui non si può dire che la cupola
del Bramante riesca a essere figura della Trinità come lo sono altre, p. es. quella della chiesa del Gesù a Roma.
Ed egualmente non lo sarebbe se invece che i colori, che esprimono bene il nome « Splendore », mancassero le
figure ancora presenti nelle sinopie, a cui è accostabile il nome « Volto », o la loro identificazione,
p. es. di angeli, di vergini, di martiri, di Apostoli, di Marie, di Cristi, per le quali sono richieste verosimiglianze e tratti
una volta persino legiferati canonicamente da esimii cardinali come il Paleotti col suo Discorso intorno le Immagini Sacre
e Profane, verosimiglianze e tratti appropriabili al nome « Logos », o « Verbum », che
indica che ogni figura o colore è rigorosamente asservito allo scopo di identificare qualcosa di reale e dunque di riscontrabile.
Chiediamoci allora: è
possibile illustrare in modo simile – per cui risulti mancante anche uno solo degli attributi accostabili ai quattro
Nomi dell’Unigenito – una qualsiasi delle belle cupole in cui rimiriamo sopra di noi la Visione dei Cieli, cioè
la Trinità? Proviamo a immaginare così la più celebre cupola del mondo: San Pietro. Immaginiamo di illustrarvi
la Visione cancellandone l’Imago e sostituiamo i magniloquenti mosaici del Cavalier d’Arpino con segni,
tratti, colori e materiali puramente simbolici, che cioè illustrino angeli e santi della Visione non realisticamente, ma
astraendo dalle figure, concettualizzando i Cieli in espressioni allusive, come usa oggi, p. es. con neon a intermittenza,
coni di luce colorata, segni grafici più o meno schizzati, schematici, e, come si dice, metaforici, che forse richiedono
uno sforzo di decodificazione e di « ricostruzione" da parte del fedele (confidando che ne sia all’altezza),
come se invece della parola « Giardini » si scrivesse « Δ#∞†Ø≈?¥
».
Così come per la
volta incompiuta di santa Maria delle Grazie, una cupola di San Pietro siffatta, dove in luogo di angeli e santi si vedrebbero
solo segni astratti, colorazioni volutamente arbitrarie, invenzioni evocative ma non realistiche, non avrebbe alcuna speranza
di proporsi a metafora della Trinità (come invece è ora), per via della perdita di quell’aspetto del Figlio
messo in luce da Imago, che garantisce di vedere l’essere, non il nulla; la realtà, non l’irrealtà;
la verità delle cose (materiali o spirituali che siano), non una qualsivoglia concettosa arbitrarietà. Irromperebbe
in San Pietro quella che Timothy Verdon individua come « l’ebbrezza della distruzione » sognata da Wagner,
Nietsche, Renan e dai tanti altri « sacerdoti » dei vari miti anticristiani germinati dall’Illuminismo.
Una siffatta e relativistica
cupola di san Pietro non avrebbe alcuna speranza dunque di farci sentire come in Cielo, « a casa », non avrebbe
cioè alcuna speranza di accenderci in quell’estasi a cui naturalmente aneliamo e che gli artisti usciti dai «
Giardini dell’arte » da sempre offerti dalla Chiesa ci aiutavano a compiere per elevarci dalle
Liturgie terrene ai fuochi delle celesti, e non per caso: « La totale assenza di immagini non è conciliabile con
la fede nell’incarnazione di Dio. […] Le immagini del Bello, in cui si rende visibile il mistero del Dio invisibile,
sono parte integrante del culto cristiano. […] L’iconoclasmo non è un’operazione cristiana »;
queste non sono indicazioni cavate dal cardinale Paleotti nel 1582, ma dal cardinale Ratzinger e dalla sua cruciale Introduzione
allo spirito della liturgia nel 2001.
Per quanto ci si sforzi
di immaginare illustrate nella cupola, quali che siano i materiali usati, figurazioni e composizioni vivaci e affascinanti, come
indubbiamente sono alcune di quelle offerte dagli artisti più celebri degli ultimi secoli e anni, dai più figurativi
ai più astratti, non potremmo non vedere distrutto un carattere decisivo tra quelli offerti dalle Visioni dei Cieli
barocche: la forza del coinvolgimento, la sensazione emozionante non solo di « vedere » il divino,
ma di farne parte, di entrarvi. Perché lì vedere è già conoscere, e conoscere è già
essere nella cosa conosciuta. D’altronde proprio questa è la conoscibilità: dar modo al proprio essere
di bussare alla casa di un altro, al proprio Io di far visita a un altro Io. In preparazione a ciò che sarà
il Paradiso: far visita alla Casa del Padre, nel suo altissimo Io. Sicché la conoscibilità (=
‘che conoscere si possa’) è assolutamente necessaria: è prepararsi a « entrare da Dio
». Un Dio persona, poi, e trinitario, e non un dio meramente ‘ente’.
Il primo attributo di Dio
è l’essere. L’uomo può – e anzi per certi versi deve – sognare, immaginare,
ipotizzare, ossia spingersi oltre le colonne del conosciuto, oltre l’orizzonte del visto. Ma, se vuole restare nell’ambito
del sacro, se vuole restare nell’ambito cioè prima di tutto dell’essere, se vuole in qualche modo pur
limitato e metaforico rendere visibile ciò che per ora ma solo per ora gli è invisibile, non può farlo arbitrariamente:
non fuori dell’essere della realtà, non oltre le colonne della descrizione del reale, non al
di là della conoscibilità, che si realizza solo attraverso i sensi.
Si potrebbe obiettare che
vi sono invenzioni sublimi dell’arte del sacro in cui vengono utilizzati a piene mani strumenti di astrazione; gli ori ravennati
per esempio, dai quali escono stagliate le figure di santi, di vergini e di martiri, sono indubbiamente un’invenzione arbitraria,
di pura fantasia; così pure l’ideogramma del Triangolo divino con l’Occhio che tutto vede e conosce, paradigma
della Trinità. Ma in un caso e nell’altro il ricorso al simbolo – oro o segno ideografico che sia – è
circoscritto a una fine e amorosa astuzia per « rendere » il divino: una volta astratti nell’oro i fondali,
a significare il sublime in cui si trovano i santi, costoro sono però rappresentati realisticamente; così l’ideogramma:
una volta fissato in tale indiscutibile simbolo divino il vertice dei Cieli al sommo della Visione che si vuole
rappresentare, per partecipazione pure la volta dei Cieli che ne discende sembrerà tutta divina. Quindi è evidente
che allorché l’arte del sacro utilizza qualche elemento astrattivo lo fa con accortezza e limitatamente, sempre cioè
con l’intenzione di utilizzare per il resto segni quanto mai realistici, nella consapevolezza che oro e ideogramma, a causa
del loro irrealismo, del loro astrattismo, di per sé non ci trascinerebbero – come devono – nella Realtà.
Volto e Pensiero
(Imago e Verbum) sono i Nomi del Figlio di Dio per i quali e nei quali risiedono le forme ideali preesistenti alle
cose, ma se con segni o colori l’uomo distrugge le forme delle cose, con essi egli distrugge il loro volto e, in esso, Dio.
Non solo: con la loro perdita,
data dal passaggio di astrazione dalla realtà all’arbitrario, dall’oggettivo al soggettivo, si perde
anche qualcosa che alla realtà è assolutamente essenziale e che proprio i due Nomi Imago e Verbum
impiantano: la relazione, anzi la prima relazione, la relazione fonte di ogni e di tutte le altre relazioni,
che è cosa importantissima, decisiva. Siamo giunti infatti finalmente alle ‘Origini della Bellezza’.
La Bellezza ha le sue origini qui: nella specialissima relazione tra i due Nomi divini Imago e Verbum, Volto
e Pensiero, Specchio e Nous. E arrivati che siamo alle sue fonti, possiamo ora discendere questo fiume di
Bellezza; scorrendo esso placido tra le sicure rive dei due Nomi – dunque costituendone la relazione –, è
un fiume d’amore.
Se si pensa che un volto
esprime sempre un pensiero, uno stato d’animo, un’emozione, si intuisce immediatamente in cosa consista la prima
delle relazioni: essa è l’insopprimibile legame tra il « dentro » di una cosa, che noi chiamiamo
sostanza (p. es. l’anima di una persona), e il « fuori » del suo volto; se dunque su quella
cupola di San Pietro che abbiamo provato a colorare dovessimo vedere illustrati simboli più o meno avulsi da ogni verosimiglianza
con le figure riscontrabili dai sensi per farci riconoscere la realtà, slegati cioè dalla natura, simboli che vorrebbero
esprimere direttamente la sostanza delle cose senza passare per il volto con cui esse si presentano a noi, lì, in siffatta
cupola, perderemmo proprio ciò che più si temeva di perdere, anzi l’ultima cosa da perdere: la relazione
tra le cose, e che fa le cose. Se un segno vuole esprimere il « dentro » di una cosa, il suo
nous, il suo logos, la sua sostanza invisibile, senza passare per la sua imago, per il suo « fuori
», per il suo volto visibile, per la sua oggettiva rappresentazione, quel segno respinge la relazione, e così distrugge
il rapporto con la realtà, perché è come pretendere di tirar su una cupola senza disegnarne i muri; ma senza
i muri una cupola non è più una cupola. È come pretendere di dire « uomo »
un uomo senza faccia; ma un uomo senza faccia è un vaso di coccio. E è questa la deriva degli ultimi secoli, è
questo il rischio di oggi: cosificare l’uomo, cancellargli la faccia – i sensi – per levargli la testa, la ragione,
cioè l’amore, sicché tutto diviene arbitrario, tutto diventa relativo, sregolato, cosificato nel vano
fluttuare di corpi senza volto, cioè senza intelligenza, senza libertà, senza amore: senza Dio.
Difatti l’estetica
– cultura dell’arte – tanto influenza l’etica che allorché persegue il realismo anche l’etica
promuoverà realismo, così entrambe penetrando le leggi di natura; ma se l’estetica persegue l’astrattismo
e il conseguente relativismo, l’etica (anche tra i cristiani) si lascerà trasportare nel relativismo e nel soggettivismo.
(Per cui sarebbe utile un maggior legame tra le due discipline, sgorganti come sono entrambe dall’unica Fonte: i quattro
Nomi).
Nell’Unigenito di
Dio l’Imago, la Faccia in cui Egli rispecchia perfettamente la Mente del Padre, è unita al Logos, al
Pensiero con cui Egli esprime l’amatissima Mente, come i muri di una cupola sono uniti alla sostanza cupola. Ma attenzione:
il fulgore del Pensiero del Padre si sprigiona per venire da se stesso in se stesso conosciuto con fiamme conoscitive di fuoco;
ed ecco: queste fiamme di conoscenza sono viste, e allora esse sono Immagine, Volto, Specchio del Padre,
e da qui vengono poi lette, e allora sono suo Pensiero, Logos, Verbo; sono infatti fiamme intelligibili,
preclare nel loro Pensiero; in nulla, neanche in una scintilla sono arbitrarie; e così pure sono intelligibili e chiarissime
nel Volto da cui si legge il Pensiero: anch’esso non è in nulla, neanche in una scintilla, avulso dall’essere
Specchio della realtà dell’Essere: tutto è conoscibile perché tutto è riconoscibile,
e viceversa: tutto è riconoscibile perché tutto è conoscibile, giacché tutto è
Essere e nulla è avulso dall’Essere.
Questo è tutto ciò
che si può afferrare del Mistero « Bellezza »: è moltissimo, ma è come se
fossimo dinanzi al sole in un’eclissi di sole: il disco nero della luna della nostra natura lo nasconde totalmente e noi
vediamo solo sprigionarsi, tutto intorno al nero disco, le altissime fiamme: vediamo lo splendore, vediamo le fiamme, ma il sole,
lui proprio, lo vedremo solo dopo esser passati, con la morte in Cristo, oltre la luna.
Dall’Imago
del Figlio rifulge la Bellezza: è la bellezza della Mente da cui proviene e che rispecchia; dal Logos del Figlio
risplende la Verità: è la verità della Mente che l’ha pensata e generata. Bellezza e Verità
sono i due aspetti « cooperanti » nell’Essere tutto in atto della Prima Realtà, indisgiungibili:
intimi uno all’altro come la faccia di un pensiero a quel pensiero.
Ecco il motivo per cui
Bellezza e Verità si accompagnano sempre, e si può dire bello o brutto un ragionamento, non solo un quadro; e viceversa
si può dire che anche da un quadro trapela verità o falsità, non solo bellezza o bruttezza. Questo è
poi il motivo per cui la bellezza è riscontrabile dai tre parametri individuati da san Tommaso: unità, armonia
e splendore. Questo per finire è il motivo per cui la bellezza dà sempre gioia, mentre le cose non belle
intristiscono, lasciano freddi, angosciano e magari ripugnano. La bellezza – una cosa bella – non angoscia mai e non
ripugna mai.
Proviamo ad afferrare allora
l’ultima cosa da afferrare: allorché una cosa fatta dall’uomo, che sia una cupola, un discorso, un moto d’amicizia,
un quadro o altro, fa ben fluire in sé la corrispondenza tra volto e sostanza, essa, per tale perfetta armonia tra «
fuori » e « dentro », si rivela bella dalla parte del volto
e vera dalla parte del logos; bella « fuori », nel suo volto, vera
« dentro », nel suo contenuto. Il motivo per cui ci piace una cosa comincia da qui: dal fatto
che in quella cosa – di qualsiasi genere sia – fluisce bene la corrispondenza tra « fuori
» e « dentro », e ciò somiglia alla corrispondenza tra il « fuori
» e il « dentro » che si ha nella natura creata da Dio – dunque anche in noi –,
natura che a sua volta somiglia in qualche modo a Dio.
Ed ecco: la presenza di
questa fluida « relazione madre » all’interno della cosa, cioè di unità,
armonia e splendore – ripeto: che sia una cupola, un discorso, un gesto d’amicizia, un quadro, etc. –, sprigiona
da quella cosa una « relazione figlia », diciamo, tra quella cosa e chi la guarda o conosce o
legge o sente, sì da stabilire con costui un positivo rapporto di familiarità, di « simpatia
»: costui, intuendo nella cosa a cui è dinanzi la stessa armonia tra « fuori » e
« dentro » che sente in sé, nella propria natura, si trova in perfetta sintonia con la
cosa, come se la cosa – discorso, gesto, quadro o cupola che sia – fosse una cosa di natura, come se appartenesse
alla stessa propria realtà, al proprio habitat, quello preparato per lui da Dio. Sicché quell’uomo si trova
« a casa propria », si diletta e gioisce della cosa come fosse parte di sé: sarebbe, la
cosa, una cosa fatta da lui stesso, dunque « artificiale », ma, avendola fatta similmente a come
Dio ha fatto la natura, sembra anch’essa natura; ecco perché, nel rapporto con essa, egli si trova « a
casa propria ».
La relazione tra l’uomo
e una sua opera bella è poi armonica due volte: la prima, quando nel fare l’opera l’uomo « copia
» armonicamente in essa la propria natura, p. es. nelle Visioni dei Cieli; la seconda, quando l’uomo «
copia » a sua volta la propria opera scegliendola a suggerimento per la propria vita, come quando sa
vedere nelle Visioni dei Cieli la Realtà da agguantare.
« Bella
» dunque è una cosa quando è in proporzione e somiglia in qualche modo a chi la fa: un quadro – e ogni
altro gesto dell’uomo – è bello perché e quando somiglia all’uomo, il quale uomo è bello
perché e quando somiglia a Dio: la somiglianza della cosa con l’uomo e la somiglianza dell’uomo con Dio sono
la loro bellezza (e verità e bontà): bellezza, verità e bontà si trovano nelle cose quando e solo
quando in esse fluisce questa realistica, armonica e divina somiglianza; da ciò nasce la spinta a
dar gioia, a dilettare, a portare il sorriso e la pace sulla terra, che è proprio ciò che si avrà nei Cieli.
E la gente questo lo sa, lo sente dentro di sé. Ecco perché la cerca: perché lì, in quella tale intelligibile
somiglianza, trova Dio.
Da questa vera e propria
comunione tra l’uomo e le cose che fa, nasce la condivisione della conoscenza, la koiné, il linguaggio comune
tra chi fa e chi contempla, nasce l’arte.
Con ciò abbiamo
compiuto il percorso del fiume della Bellezza fino alle nostre spiagge. Dalla liturgica Imago di Dio siamo discesi ai «
Giardini delle belle arti e delle belle lettere » coltivati dall’uomo sostanzialmente per poter
partecipare alla Liturgia di Dio. Sicché ora, avendo visto che le origini della Bellezza scaturiscono proprio dal Figlio
di Dio, cioè dalla religione, possiamo essere consapevoli che si può ricominciare a fare Bellezza solo tornando
a imbibire l’arte di religione (e non solo la religione di arte): adeguandola alle sue esigenze, ai suoi insegnamenti, ai
suoi miracoli, in una parola a Cristo, che è quella « Casa del Padre » da qui, per noi,
ancora per certi versi invisibile, ma in cui la religione, cioè il Cristo, già si trova ed è, e che solo
da essa, e solo se si figura Cristo utilizzando tutti e quattro i suoi santi Nomi, si può da quaggiù,
in nuovi fiori d’arte, rimirare.
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(Pagina protetta dai diritti editoriali).
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