« Noi siamo manifestatori agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede ».
Così Gianfranco Ravasi cita l’esaltante ideale dei pittori senesi del Trecento; e conclude: « L’arte
si trasformava in catechesi, rivelando l’intreccio profondo che la univa alla fede » (Il Sole-24Ore, 3 febbraio
’08, p. 45). « È possibile – proponeva poi Timothy Verdon dalle colonne di questo giornale parlando
di Michelangelo – che l’artista sia stato grande innovatore non solo nelle forme da lui inventate ma anche nei
contenuti: che cioè fosse l’originale ed influente ideatore di linee di interpretazione teologica destinate a durare
nella vita della Chiesa »; e, riferendosi a certe sue opere, rifletteva: « Sono capolavori che, oltre al fascino
formale, comunicano il loro messaggio con efficacia tale che il fruitore si trova coinvolto in un’esperienza religiosa autentica
ed originale ».
Considerazioni analoghe pochi giorni prima le faceva Antonio Paolucci riguardo alla pittura del seicentesco
Cagnacci: « Caravaggio aveva insegnato che tutto l’universo visibile svelato dalla luce può essere rappresentato,
[…]. Il Seicento è anche il secolo che […] rende visibili gli abissi dell’animo umano. […] Gli
artisti del Seicento giocarono un azzardo ancora più grande [di quello dei grandi mistici della riforma cattolica] perché
si sforzarono di rendere visibile l’ineffabile e l’irrappresentabile affinché chi guarda sia coinvolto nel
meraviglioso psicologico dell’estasi ».
Ecco: tutte e tre queste
eminenti autorità chiosano intorno a un pensiero che punge ogni intelletto che si vuole interrogare un minimo: cosa lega
la religione all’arte, la filosofia alla poesia, il pensiero al linguaggio? Poiché è evidente che qualcosa
li lega, è evidente che la verità si accompagna alla bellezza e la bellezza esprime con la sua fragranza profonde
verità: noi vediamo le verità attraverso le loro immagini, la loro bellezza. Grande domanda dunque. Essa interroga
l’uomo sulla sua conoscenza: se egli possa in qualche modo « intelligere », penetrare in ciò che
vede davanti a sé. È dunque domanda che merita risposta, una risposta forte, poiché stabilizzare per sempre
il motivo per cui si può entrare con la mente nelle cose, permette, superando il relativismo, di dare senso alla vita,
alla persona che si sviluppa seguendo l’anelito del cuore verso Dio, il Bene sommo in cui trovar diletto e riposo eterno.
Questa risposta magna,
questo esito forte lo dà la Chiesa, che possiede in Cristo (Traditio et Scriptura) gli scrigni ripieni di ogni ricchezza
che il Bene di Dio possa dare all’uomo. In questo caso lo scrigno è quello di san Tommaso d’Aquino, dove si
trova l’oro con cui può venir « riscattata" la nostra domanda e stabilito per sempre il principio
della conoscenza, la causa del vincolo tra pensiero e linguaggio, Verità e Bellezza, religione e arte. Prendiamo allora
quest’oro tra le dita, e ammiriamolo da vicino: è un anello.
San Tommaso infatti fa
nel suo De Trinitate, riguardo alla nascita ab æterno del Figlio, una notazione straordinaria: il Verbo procede
dal Padre per un’azione intellettuale che è « secondo una SOMIGLIANZA, perché
il concetto dell’intelletto è a somiglianza [o immagine] con la cosa intesa » (Summa Theologiæ,
I, q. 27, a. 2; in base a Giovanni 14, 9; Colossesi 1, 15; Ebrei 1, 3). Sicché la domanda Se Immagine
sia Nome proprio del Figlio (q. 35, a. 2) ha dal Dottore risposta affermativa. Il Pensiero, in Dio, somiglia perfettamente
alla Mente da cui è generato: la esprime proprio per via di una somiglianza eccellente, completa, di natura, e il termine
« immagine », nell’insegnamento della Chiesa diviene, insieme a « pensiero », uno
dei Nomi del Figlio.
Pensiero e Immagine, Verbum e Imago, Logos e Volto: sono i due Nomi del Figlio, le due splendide qualità alle quali si volgono Verità
e Bellezza: Verità a Verbum, Bellezza a Imago, in tal modo legate in un vincolo che più solido non
si può, e che fissa in legge eterna ciò che era stato espresso intuitivamente nelle analogie viste all’inizio
dai tre autorevoli studiosi: ecco che l’invisibile verità si fa palese bellezza, il messaggio divino si esprime con
lingua e figure umane, l’ineffabile della religione (p. es. l’Eucaristia) si dispiega nell’arte.
Questo è allora
proprio l’anello d’oro che brilla al dito del Figlio di Dio; esso garantisce i tre pensatori (e con loro chissà
quanti altri) che l’intuizione di accostare Veritas a Pulchritudo è giusta; l’anello Imago-Verbum suggella il legame più decisivo e fondante che si possa avere in risposta alla domanda che si faceva: può l’uomo
conoscere le cose? Sì, può, poiché dietro ogni immagine c’è un pensiero, dietro ogni volto un
sentimento, dietro ogni cosa che si vede qualcosa che non si vede ma che si esprime perfettamente in ciò che si vede; dietro
la poesia più arcana sempre una luce.
Il Figlio prende dal suo
dito l’anello e lo infila al dito della Chiesa, sua sposa, sicché appena Essa parla, illustra, appena insegna dipinge:
insegna sui libri e dipinge sui muri; biblioteche e pinacoteche formano nella Chiesa un inseparabile insieme, in virtù
della celeste « solidarietà » dei due Nomi palpitanti nel Figlio e può aversi ciò che
notava sorridendo sant’Agostino: la penna con cui egli scriveva di Cristo diventava tra le sue mani un pennello che ne dipingeva
il Volto; e più tardi Caravaggio avrebbe potuto dire che il suo pennello diveniva tra le sue mani la penna con cui, dipingendone
le gesta, ne scriveva la Dottrina.
Caravaggio. Proprio il
pittore che per Paolucci « aveva insegnato che tutto l’universo visibile svelato dalla luce può essere rappresentato ». È lui il pittore della riforma cattolica, della « risposta forte » all’ansioso quesito
« Se conoscere si può ». La Chiesa (Cristo) dice che l’uomo in verità è fatto proprio
apposta per conoscere: basta entrare nel Cristo (nella Chiesa), per il quale l’uomo giungerà a conoscere persino
Dio: « Chi vede Me vede il Padre » (Giovanni 14, 9). Ma perché Caravaggio?
Prendiamo uno dei suoi
quadri, p. es. la straziante Cattura di Cristo: alla luce delle lanterne la figura di Gesù, vestita di rosso, è
presa tra gli armati, Giuda gli sta addosso, il Maestro si ritrae, Giovanni di spalle grida inorridito e il suo manto, strattonato
da uno dei masnadieri, incornicia nel vento il bacio dell’orrore. Giriamo ora la tela, guardiamo cosa c’è sulla
« faccia della verità », dopo aver visto ciò che c’è dalla parte della bellezza;
dietro al Cristo, p. es., è scritto: « rassegnazione per l’orrendo tradimento », « sconforto
per gli amici », « tristezza per la rovina del traditore », « agonica consapevolezza dell’abbandono
del Padre celeste »: sentimenti raffigurabili solo da chi non soltanto sa analizzare in profondità ciò
che passa nel cuore degli uomini, ma sa pure che la legge della conoscenza è di tutti.
Sicché, tornando
a guardare la tela dal lato « bellezza », capiamo che essa è come se fosse appoggiata ai Vangeli, e
questi infine fossero appoggiati alla realtà, quella annotata dagli Evangelisti. Questa realtà, « la realtà
di quel momento lì », è trapassata ai Libri e poi dai Libri al quadro, compiendo la stessa strada che
fa l’intelletto umano: l’uomo vede, e vedendo descrive a se stesso e poi a chi gli sta intorno il veduto. E per sottolineare
bene che le cose stanno proprio così, Caravaggio stesso entra nel quadro, si fa largo tra gli armati, alza la lanterna,
vede alla sua luce la scena del mondo, e così, chiareggiando le tenebre, mostra all’astante che « egli guarda », come a dire: « Guardate, guardate tutti: voi state vedendo e conoscendo che vedere e conoscere si può,
com’io faccio ora, e siete pure voi a essere colti sul fatto, non solo io ». Il Merisi mostra che guardando ciò
che si vede, si vede anche ciò che non si vede: si vede la conoscibilità.
La Chiesa è con
Caravaggio la prima a innescare nell’arte il problema del difetto, in altre parole del male: esso nasce dal rapporto tra
intelligenza (dunque libertà), natura (dunque forse peccato) e grazia (dunque Dio); la Chiesa è la prima e unica
comunità sociale a risolvere la cosa positivamente: spiritualmente con la riparazione della natura difettosa per
opera della grazia; materialmente con l’apprezzamento del difetto da parte dei suoi artisti, e di questi il primo
è Michelangelo da Caravaggio.
È utile sottolineare
la forte aderenza del pittore agli assunti cattolici, in particolare tridentini: da giovane respira la profonda spiritualità
lombarda che permea la bottega del Peterzano; in più, sedotto dal carattere umano e popolare del Vangelo, Caravaggio è
fedele alla vera tradizione del medioevo, che si sforzava di portare la religione cristiana nell’intimità della vita
quotidiana. A Roma il pittore si trova a beneficiare presto della protezione anche intellettuale e dottrinaria del cardinale Del
Monte, tomisticamente aristotelico e al passo anche con la scienza più illuminata, come si doveva in un secolo di forte
tensione in tutti i rami delle scienze e della metafisica. Ecclesiastico impegnato e di severi costumi, grande umanista, il cardinale
seguì da vicino, con fine e curioso intelletto, scienziati di prima grandezza come Copernico, di cui condivideva e sollecitava
le esposizioni teoretiche, e come Galilei, di cui apprezzava le prime esposizioni, sicché la pittura del Merisi gli doveva
essere scientificamente interessante anche per la tecnica d’avanguardia con cui veniva realizzata, quella novità
della « camera oscura » in cui il pittore-inventore poneva la vita che poi ritraeva.
Così come il cardinale
protettore intende la realtà quale risultato della ricerca scientifica operata sui fenomeni naturali, così il pittore
protetto spinge la veridicità evangelica fino a sceneggiare le sue figurazioni nel qui e ora contemporanei e nella dimestichezza
della vita quotidiana, in modo che lo spettatore si trovi proprio « lì dove sta avvenendo il fatto ». Così come il cardinale protettore ritiene che verificare, ossia conoscere, significa operare secondo ragione ed
esperienza, così il pittore protetto si perita con tutti i mezzi di mostrare la realtà, nient’altro che la
realtà, solo la realtà, a costo di trasportare quasi fisicamente lo spettatore ai piedi della Madonna dei pellegrini,
o alle spalle di sant’Orsola nel suo Martirio, o fin sotto il cavallo dove Saulo è caduto disarcionato, o dietro
Giuda, nel folto della mischia degli scellerati sul Monte degli Ulivi, o in qualsiasi altro « teatro »
il Merisi sia andato inscenando per svolgervi e vedervi il mondo.
Lo sforzo di trasfondere
il divino e invisibile nel quotidiano, cercando di accordare in qualche modo il proprio genio espressivo ai canoni legiferati
dal cardinale Paleotti nel Discorso intorno le Immagini Sacre e Profane, causerà a Michelangelo Caravaggio alcune
incomprensioni, come sappiamo, culminate col rifiuto della tela della Morte della Vergine da parte dei committenti, ma è
anche uno dei motivi centrali della benevolenza elargitagli da cardinali e Papi, che vedevano illustrati gli avvenimenti evangelici
– i luoghi dove il soprannaturale più fortemente percuote il naturale – con limpida naturalezza. Cardinali
e Papi, nell’epoca in cui era pressante la disputa sulla grazia e sulla teodicea che ne derivava, si felicitavano di avere
in Caravaggio un riscontro irrefutabile e universale.
Se mettessimo i suoi quadri
in fila come li aveva lui nella sua anima, vedremmo dipinta tutta la sequenza della sua vita, la sua strada di peccatore a tu
per tu di continuo con il sangue, le morti, le cadute, le assoluzioni, le ferite, le chiamate, i tradimenti: egli è sempre
lì. Cosa ci fa lì? Guarda, scruta, cerca e soppesa la verità, i fatti. Non è solo: egli che ha dipinto
la vita, chiede alla vita che ha dipinto una risposta ai propri peccati. Chiede al Cristo tradito ma perdonatore se perdona quei
suoi fedeli che come lui lo hanno « tradito ». Chiede al Cristo che chiama se chiami, tra tutti i peccatori,
anche lui. A sant’Orsola trafitta chiede se davvero muore o non piuttosto, come si dice, poi risorga. Carico di realismo,
Michelangelo peccatore dipinge i propri peccati con l’affannosa speranza di essere guardato, perdonato, graziato, nella
sua straziata fuga dalla maledizione del proprio Io. Il Merisi fu certo un gran peccatore, specie nell’ira, come
si sa, ma cattolico peccatore, ben cosciente che gli insegnamenti della Chiesa erano veri: degni della massima considerazione.
Se la grazia c’è, come vide esserci, certo lo raggiungerà, fosse anche sull’ultima rena.
Che torni dunque l’arte
a essere specchio della religione, e la religione si rifranga e si irradi ancora, come allora, dall’arte.
(Pagina protetta dai diritti editoriali).
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