Le considerazioni che seguono
prendono spunto da un articolo recensorio di Dario Antiseri, comparso su « Avvenire » di sabato 15 febbraio 2003,
a favore di un libro di Orlando Todisco, Lo stupore della ragione: il pensiero francescano e la filosofia moderna. Ci sembra
di dover criticare il luogo comune per il quale Antiseri, in li-nea più con il suo proprio pensiero che con il libro recensito,
definisce san Tommaso d’Aquino un « razionalista », e stabilisce in « Aristotele-Averroè-Tommaso
» una catena di pensiero contrastabile solo dal “misticismo” di Bonaventura.
1.BONAVENTURA E TOMMASO: DENTRO UN DOGMA CHE LI TRASCENDE.
Soprannaturale amicizia
e divina pace furono i doni che Bonaventura e Tommaso d’Aquino, i due più eccellenti magistri degli ordini
di san Francesco e di san Domenico, si scambiarono per tutta la loro intensissima, religiosissima e breve vita. Morirono persino
nello stesso anno, accomunati fino in ultimo dallo stesso obiettivo: obbedire al Trono papale (Gregorio X al momento) e difendere
il dogma al concilio di Lione. Che lo si voglia o no, ambedue erano ben consapevoli che dire ‘dogma’ era dire: Rivelazione,
Cristo, Scritture, Verbum divino, Trinità. Entrambi grandi pensatori, grandi mistici, furono entrambi rapiti in
estasi. Ma un’opinione popolana ascrive il misticismo al solo Bonaventura, tacciando Tommaso addirittura di razionalismo.
Ma come si può tacciare di razionalismo un religioso che, dopo il rapimento, disse di tutta la propria immensa produzione
teologica e filosofica. “È paglia”? I razionalisti, infatti (Descartes, Spinoza, Kant, Hegel,…), adorano
solo la propria ragione. 1 [Si potrebbe anche sostenere
che la mens cattolica, per l’intrinseca sua natura partecipe di Dio, non può essere razionalista, e quel pensatore
cristiano che cade nel razionalismo immediatamente cade per ciò stesso fuori del consentito cattolico, cade fuori del dogma:
il dogma non è solo verità in quanto essenza, ma anche verità in quanto metodo, come si vedrà
meglio sul terminare dell’articolo. Analogo e speculare discorso va fatto per ciò che riguarda il fideismo. Ergo tutti i Padri e Dottori della Chiesa devono essere considerati da tutta la cristianità, indistintamente, non macchiati
da abiti estranei al sentire cattolico, quali razionalismo e fideismo, che essi siano Agostino, Bonaventura, o Tommaso, abiti
che invece possono rivestire il pensiero di filosofi non cristiani, proprio perché questi non sono preservati dall’errore
formale come dalla fede ne è preservato il cristiano.]
I due Dottori della Chiesa
vanno quindi accostati, non divaricati. Polarizzare le due dottrine (indubbiamente sono due) non è opera favorevole alla
verità e al bene (due trascendentali costitutivi di Dio). La loro compresenza nella Chiesa va goduta alla luce sopramondana
che fa vedere il Cristo maestro di entrambi: un unico Cristo via-verità-vita, un unico Evangelium.
La storia della filosofia medievale va rimirata – come fece Étienne Gilson – alla luce del Verbum, cioè
nell’estensione di un ‘dogma’ che include tra i suoi adoratori alcuni – Bonaventura, Alberto Magno, Tommaso:
tutti santi – e ne scarta altri – Sigieri da Brabante, Averroè, Cartesio, Kant – con questa discriminante:
i primi fanno filosofia per fare teologia, e l’una e l’altra fanno per raggiungere e far raggiungere la divina contemplatio;
i secondi no. Corollario: non si annoveri discepolo dei primi chi filosofeggia laicamente come i secondi, né si dica che
i primi sono discepoli dei secondi: discepoli di santi saranno solo altri santi (anche se minimamente santi), perché da
un pensiero buono, per sese, si può cavare solo un altro pensiero buono.
2. I “SEMINA VERBI”.
La questione
di Aristotele andrebbe posta così: come nota per primo Giustino, i semina Verbi sono doni che il Logos divino
munificamente concede all’umanità traviata in vista della propria Rivelazione. Così Socrate, Platone, Aristotele,
Confucio. Tutti pagani, ma tutti egualmente anelanti la Verità, il Bene. Il Verbum che li ha seminati ne innesta
i rami selvatici sulla verità del suo santo albero crucifero e ne offre i frutti, dopo la propria venuta, nei propri
pensatori/adoratori: Paolo, Giustino, Dionigi, Ambrogio, Agostino, Boezio, Pietro Lombardo, Alberto, Bonaventura, Tommaso…
La filosofia (e teologia)
cristiana medievale si può suddividere sulla base dell’utilizzazione che essa fa del pensiero di Aristotele: I),
coloro che lo utilizzano, ma con parsimonia, intimoriti dall’intrinseca forza della sua scienza fondata sull’essere,
e questi sono fondamentalmente la scuola francescana, massimo esponente Bonaventura; II), coloro che lo utilizzano in toto,
seguendo la scuola pagana averroista, e questi sono guidati dall’equivoco Sigieri, III), coloro che, tra i due corni, lo
utilizzano copiosamente, ma con prudenza, e questi sono per lo più domenicani (ma padre Composta, francescano, era tomista),
guidati da Alberto Magno e Tommaso, i quali, non intimoriti, nel realismo di Aristotele vedono il superamento dello scetticismo
finale cui conduce Platone, e vedono, contro i pericoli del volontarismo agostiniano, la forza di dare all’intelletto il
primato sull’amore (non si ama ciò che non si conosce). Tommaso, in un suo studio, raffronta con serenità
i due maestri greci, mostrando l’utilità di setacciarne il pensiero cogliendo anche da Platone cose ottime quali
l’idea di partecipazione e l’astrazione degli universali.
3. LA FORZA E LA DEBOLEZZA DI UNA DOTTRINA
STANNO NELLA GNOSEOLOGIA.
È
indubbio, peraltro, che anche Bonaventura si servì di Aristotele, che conosceva più direttamente di Platone, mediato
da Agostino. Grande amico di Tommaso, egli però (come i vescovi Étienne Templer e John Peckham, dell’amico
avversari poco sereni) non si avvide che, se non si riconosceva sùbito il primato alla catena verità-intelletto-pensiero
(appropriata al Verbum), su quella di amore-volontà-atto (appropriata allo Spirito Santo), la filosofia non
avrebbe protetto l’umanità dalla manovra a tenaglia di razionalismo e fideismo, i quali approfitteranno nei secoli
in vario modo della debolezza del sistema conoscitivo agostiniano, che non coglie a sufficienza l’intimo legame, che
è di ragione, tra il lume naturale dell’intelletto umano e il lume soprannaturale proprio alla fede, dono esclusivo
della grazia.
Ed è precisamente
su questo punto che si realizza il divario più significativo tra Bonaventura e Tommaso: il primo sfuma i confini tra scienze
naturali e soprannaturali, tra filosofia e teologia, sostenendo come Agostino la dottrina dell’illuminazione, per cui, ogni
conoscenza provenendo da Dio, anche le scienze naturali sarebbero sottoposte al dono dell’illuminazione (lumen inferior,
lumen interius, lumen superior), in ultima analisi alla grazia.
Il secondo invece, più
prudentemente, distingue i due campi, scienza e fede, ragione e grazia, cogliendo da Aristotele forse il plesso più
significativo di tutto il suo pensiero, e forse anche il più periglioso, la sistematica del sillogismo, dalla quale l’uomo
può distinguere I), la teoreticità (scientificità) della teologia, II), la ateoreticità dell’errore.
4. LA TEORETICITÀ DELLA DOTTRINA
COME IMPEGNO FONDAMENTALE DI TOMMASO.
Per quanto riguarda il
primo punto, fin dal secondo articolo della Summa Theologiæ Tommaso dimostra che la scienza teologica sta alla visione
che di Dio hanno i beati come la prospettiva sta alla geometria o la musica all’aritmetica. Tale rapporto – che avviene
nell’intelletto ed è quindi fatto razionale – conferisce alla fede il ruolo di veicolo superrazionale gratuitamente
conferito, capace di rispondere alle esigenze della ragione naturale, la prima delle quali è la sua stessa esistenza: la
fede non è un secondo termine irrazionale opposto alla ragione, ma la consegue pur essendole superiore. Dall’argomentazione
sillogistica aristotelica, composta da due premesse e una conclusione, per l’argomentazione teologica deriva che «
la premessa maggiore è un asserto di fede (cioè una verità rivelata), mentre la premessa minore è
una evidenza di ragione. La seconda premessa è quindi il momento in cui la ragione fa uso delle proprie conoscenze per
riuscire a comprendere meglio la verità rivelata ». 2 [Antonio Livi, Tommaso d’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano, Mondadori, Milano 1997,
pag. 84.]
Mentre Bonaventura e i
francescani ritengono che la via mistica aperta dalla dottrina dell’illuminazione porti alla contemplazione estatica già
su questa terra, Tommaso chiarisce che alla contemplazione (illuminazione) si giunge nella vita futura, ma proprio (e solo) attraverso
la corretta disposizione dei due lumi 3 [Nella mente, come si è visto, si hanno le due potenze di ragione, i due lumi: una dipendente
dall’ordine naturale, l’altra dal soprannaturale. Padre Battista Mondin li chiama « due forze noetiche » (Battista Mondin, Dizionario enciclepedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino, ESD, Bologna 1991, p. 260).] su questa terra: il naturale sotto il soprannaturale, e questo
sotto la grazia, disposizione cui corrisponde la corretta sistemazione delle scienze: le scienze naturali (in specie la filosofica)
in vista di quella soprannaturale (teologica), e questa in vista della visione beatifica. Se, qualche secolo dopo, in un troppo
famoso processo avesse prevalso la posizione tommasiana, non si sarebbe avuto alcun caso Galileo.
5. TOMMASO E L’ANTICA DOTTRINA DELLA TEORETICITÀ DELL’ERRORE.
A riguardo del secondo
punto invece, per cui l’errore è ateoretico, cioè pratico, Tommaso (S.Th. II-II, 53, 4, in cui fluisce
anche II Sent., d. 39, 3, 2, ad 5) nota che il giudizio falso (o anche solo superficiale) è dato dal disprezzo o
dalla disattenzione per alcuni dei termini che debbono comporre i sillogismi per giungere al giudizio. Da qui discende la fondamentale
immoralità anche di un giudizio solo avventato, poiché l’uso del sillogismo, di per sé, non influenzato
da passioni o da ignoranza, condurrebbe solo alla conoscenza piena e infallibile del reale. Le
conseguenze del peccato originale evidentemente costituiscono turbativa influente al giudizio ma, anche qui, la grazia e i doni
dello Spirito, 4 [Ovviamente, la grazia, costituendo la condizione di amicizia tra Dio e l’uomo e, in secondo
luogo, l’influsso spirituale speciale e transeunte di Dio nell’anima ogniqualvolta questa compie un atto salutare,
è distinta dai sette doni dello Spirito Santo enumerati da Isaia (XI, 1-2), « abiti che servono a predisporre
l’uomo a obbedire prontamente allo Spirito Santo » (Summa Theol., I-II, 68, 3).] con la rettitudine che ne segue sul piano naturale e la profondità su quello
soprannaturale, può supplire la deficienza. Ma anche l’uomo su cui si esercitano grazia e doni divini rimane pur
sempre uomo, dunque soggetto limitato nella ragione dalle quattro limitazioni segnalate da Rosmini: « L’uomo non
ha l’idea positiva di Dio; non può abbracciare l’infinito; le sue facoltà intellettuali sono misurate;
conosce solo gli enti che gli si presentano ». Da qui la sostanziale nescienza, o ignoranza invincibile. 5 [Cfr. Antonio Rosmini, Teodicea, Libro I, capp. XIV-XVII.]
Invece l’ignoranza
(o la superficialità di giudizio) voluta, o vincibile perché maliziosa, va rigettata per la sua immoralità,
ovvero in quanto frutto di una deviazione forzata del cammino intellettuale teoretico costituito dal sillogismo. Difatti l’intelletto
rettificato dalla grazia e corroborato dai doni compie il percorso sillogistico del ragionamento senza incorrere né in
deviazioni né in arresti suggeriti da convenienze (passioni, preoccupazioni, tutte cose non elaborate dall’intelletto,
ma suggerite all’intelletto dalla carne, quindi ateoretiche) esterne al percorso teoretico che di per sé dovrebbe
essere completato. Non giungere alla verità di una cosa è quindi sempre un fatto moralmente eccepibile, perché
nel cristiano in stato di grazia gli elementi spirituali (intellettuali) per giungervi sono sempre tutti presenti e, se qualche
termine manca alla cognizione, l’intelletto si ferma a ricercarlo prima di concludere. 1 Infatti il giudizio di ragione
lega l’intelletto alla realtà: con legame proprio se il giudizio è retto e tutto teoretico, con legame improprio
(falso) se il giudizio è paralogistico (quando l’errore è dovuto da una distorsione pratica innocente) o sofistico
(quando l’errore è dovuto da una distorsione pratica maliziosa). Il peccato è uno sragionamento.
6. QUATTRO DOVERI GNOSEOLOGICI.
Resta il fatto che, con
queste due premesse, Tommaso e discepoli sanno, da una parte, che le conoscenze che essi fanno sono doverose, dall’altra
che è doverosa la loro verità. In altre parole: I), l’uomo deve giungere a Dio, II), non può non giungervi.
Questo, prima della Rivelazione. Inoltre, dopo la Rivelazione: III), l’uomo deve saper dimostrare che i Misteri rivelati
(Trinità e Incarnazione) non sono irragionevoli, e, contemporaneamente, IV), che è proprio tutto ciò
che cozza contro di essi a essere irragionevole, non teoretico, ma dovuto solo a inferimenti pratici: o passionali o contingenti.
a causa della sua prevista indecenza. Vai alla pagina 2 di 2.
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