Se ci chiediamo
come mai il nostro Paese non è più misura mondiale del bello, possiamo trovare risposta nel mutare dei materiali
e delle concezioni costruttive. C’è tuttavia un segreto più decisivo e annoso, che lega tra loro l’uomo,
la natura e le riposte nozioni del divino. Qui radica la proporzione aurea, misura della conoscenza e dell’arte.
« Centro del mondo
». Così Jean Nouvel, vincitore 2008 del Pritzker Prize, il premio dei premi per l’arte architettonica, definisce
l’Italia riferendosi alla speciale eminenza delle sue bellezze architettoniche. Ma, come si sa, un Paese può essere
stimato « centro del mondo » riguardo a qualcosa – p. es. all’architettura –, solo
se quel Paese è in qualche modo per il resto del mondo l’unità di misura, il canone, con cui misurare il mondo,
non quando ne viene misurato. « Centro del mondo » l’Italia lo è certamente se si apre
il « Giardino della Bellezza » delle sue antiche città. Ma oggi lo è ancora?
Oggi l’Italia architettonica
e urbanistica, da « Giardino della Bellezza » qual era, riconosciuta tanto dai suoi più celebri
visitatori come dai suoi più incolti abitanti almeno fino ai primi decenni del secolo scorso, sempre più sta assumendo
in ogni ansa il volto barbaro, regressivo e asociale di « Sterpaglia della Bruttezza », di « Acquitrino
della Sciatteria », e non solo per ciò che già si trova goffamente in tutto il resto del mondo: gli orrori
delle periferie a torri e casermoni « fotocopiati », le sterminate insulsaggini di fabbrichette
e capannoni disseminati senza pietà negli « hinterland » di ogni latitudine; ma ora anche per
le macroarchitetture e i grattacieli sempre più provocatorii alzati da architetti di grido (immancabilmente « di
fama internazionale »), i quali, sprezzando l’elezione culturale, ambientale e architettonica in generale dell’Italia
e in particolare di ogni suo angolo e centimetro quadrato, vi gettano le stesse meteoriti architettoniche disseminate in America
come in Cina, in Spagna come nel Dubai, e ciò fanno malgrado le denunce reiterate di associazioni e uomini sensibili alla
gravità della cosa, via via più esiziale non solo per la residua bellezza della Penisola in sé, della sua
cultura e intelligenza immiserite, ma specialmente per l’imbarbarimento spirituale della sua gente.
È dai tempi della
Cederna che i mostri architettonici e urbanistici devastano la Penisola, e, ultima vittoria, con tale devastazione rattrappiscono
e stravolgono la naturale « buona disposizione » degli uomini nel loro rapporto con la vita.
Infatti la bellezza è
un messaggio; la sciatteria e la bruttezza un altro. La bellezza genera e conferma amore (per le cose, per il prossimo, per la
vita, per « il futuro » e così via); la sciatteria e la bruttezza generano disaffezione, repulsione,
odio, e lo si vede in chi vive per esempio nel bello dei centri storici e in chi invece nel sciatto e nel brutto delle periferie,
dei centri sociali, dei posti di lavoro più incresciosi. La bellezza non è facoltativa, ma necessaria: l’uomo
la cerca, la riconosce intuitivamente, se ne sazia e la restituisce poi nel bene etico e politico; a che servirebbe la sua intuizione,
se non fosse vitale?
Colpa del cemento?
Altrettanto istintivamente
l’uomo fugge dal brutto, osserva la criminologa Isabella Merzagora Betsos, ma sciaguratamente non sempre, perché
non sempre l’occhio è o vuole restare innocente, ma malizioso, e in tal caso, attratto dal gorgo della perversione
contronatura, l’occhio cerca il brutto, e poi anche lo fa, e se ne sazia in una fagogitazione contronatura, producendo rancore
e odio, il più contronatura di tutti i vizi.
Æsthetica
e politica sono strette in un legame ancora tutto da riscoprire, malgrado Platone e sant’Agostino.
Sarebbe poco scientifico
attribuire la causa del decadimento architettonico e urbanistico alla scoperta del cemento armato, intanto perché scienza
e tecnologia sono di per sé neutrali, poi perché il degrado abitativo è sempre allignato dove le briciole
della ricchezza si danno ai cani. Ma, se una causa materiale è più emersiva di altre, si può intravedere
forse una linea di demarcazione del cedimento architettonico nella diffusione, tra il ’30 e il ’40 del secolo scorso,
del cemento armato. Dunque la colpa della bruttezza sarebbe del cemento?
L’inurbazione massiccia
degli Anni Cinquanta-Sessanta è un’altra concausa, ma le universalistiche « gettate » di
cemento hanno la loro parte, e non perché il cemento sia il diavolo, utile come fu almeno per abbattere i costi di costruzione
e con essi « dare una casa a tutti », ma perché la sua anima in tondini di ferro volatilizzò
le precedenti e primarie regole costruttive in uso da millenni. La tecnologia sviluppatasi successivamente ha poi fatto il resto,
sicché i materiali ultraleggeri ed elastici hanno soppiantato per sempre pietre, colonne e mattoni: l’elastico ha
scardinato l’inerte, il flessibile ha sgominato il forte, il leggero e malleabile le leggi statiche e perentorie della gravitazione.
Con ciò son saltati il pilastro, la trabeazione, l’arco, la simmetria, la sezione aurea, i concetti di verticale
e di orizzontale. È saltata insomma la regola in quanto regola, perché l’elastico è per sese
un’antiregola. La chiusa legge della statica ha ceduto alla libertà della dinamica. E ciò, non a caso, in
coincidenza con rivoluzioni del tutto analoghe sul piano civile, linguistico, religioso, familiare e sessuale, per le quali l’uomo
si convince che la libertà (un elastico) gli sarebbe più intima della verità (un pilastro). Architetti e
urbanisti ne sono coscienti e cavalcano il ribaltamento costruttivo come spunto a una rivoluzione culturale divorante.
Sta il fatto che il soppianto
di pietre e mattoni svelle – e non solo simbolicamente – il decisivo legame che l’uomo teneva da sempre con
la natura: la voragine aperta in architettura con l’introduzione dei nuovi materiali elastici apre una frattura di faglia
tra « natura » e « polis », e lo si vede nell’odierno stridore tra territorio
e città: fino a ieri sulle pietre di colli e di monti erano alzate le medesime pietre cavate dai colli e tagliate dai monti:
pietre di città su pietre di natura, pietre di chiese su pietre di roccia, in una conformazione di colore e di materiale
che illustrava perfettamente la « copiatura » della natura compiuta dall’uomo con le sue anche
più fastose edificazioni. La frattura tra architettura e natura è determinante alla caduta della bellezza. La Musa,
già avvizzita per esserle stato strappato dalle labbra il calice d’ambrosia dell’eterna armonia, p. es. con
l’edificazione nell’Ottocento delle prime megalopoli, caduta nello sbalzo, si rialza storpia.
La frattura tra architettura
e natura è ben più profonda persino di quella denunciata da Nikos A. Salingaros, perché nel concetto di «
natura » va raccolta anche la dimensione spirituale dell’uomo, ossia proprio la sua natura prima, che
è quella di essere un ente razionale creato. Il riconoscimento di ciò non deve riguardare solo la sua coscienza
individuale, ma in egual misura la sua coscienza collettiva, la « civitas » nella quale l’individuo
nasce, si forma, progredisce e che a propria volta deve contribuire a formare, progredire ed elevare nei valori materiali e spirituali,
e quelli solo in quanto ordinati a questi.
L’Italia, Paese più
di ogni altro fiorente di edifici, strade e piazze misurati sui millenari canoni della « relazione aurea
», con il crudo avvento dei nuovi materiali, delle nuove loro leggi e specialmente del nuovo spirito soggettivistico dominante
il teatro culturale, negatore di Dio e del rapporto anche sociale che l’uomo deve intrattenere con lui, si è trovata
più di ogni altro Paese drammaticamente vulnerabile alla conquista degli sconsiderati nuovi sacerdoti della provocazione
ateistica; costoro, nati dal divoramento entusiastico di contorte ideologie che Timothy Verdon in un importante articolo del 28-3-08
su « L’Osservatore Romano » (emblematicamente titolato « Quando si è spezzato
il filo dell’arte sacra ») chiama « dell’ebbrezza distruttiva » – causa
formale dell’abbrutimento –, eccitati dall’egoistica voglia di stupire e provocare più che servire e
rallegrare, vi impiantano grattacieli debosciati, « macrostrutture » disossate, chiese sdivinizzate,
« word center" meglio detti da Marc Augé « non luoghi », accolti
con acritico tripudio dai potenti locali, accomunati così agli invasori: architetti, ingegneri, geometri, immobiliaristi,
sociologi, politici, ma anche villani senza legge di tutte le taglie, radono al suolo la dimensione sacrale delle città,
e che le faceva, in un livellamento da cui dovrebbero innalzarsi prepotenti unicamente i nuovi idoli dell’autocompiacimento.
Tuttavia non ci si può
fissare a ridurre la questione del bello a una questione tecnologica, per quanto articolata: questo è naturalismo, è
pretesa di circoscrivere una questione universale a qualcosa che nasce con l’uomo, con il suo pensiero, la sua cultura,
le sue congetture: tutte cose limitate.
Infatti, come avviene a
quella categoria di concetti che riguardano tutte le cose (l’essere, la verità, la bontà, eccetera) e che
per ciò si chiamano trascendentali, dal latino transcendens, trans scando: salgo sopra, anche la bellezza
non nasce dall’uomo, altrimenti ogni cosa fatta da qualsiasi uomo sarebbe bella, tutte le cose sarebbero belle. No: la bellezza,
che è un trascendentale, viene da fuori, anzi da sopra. Da dove nasce la bellezza?
Fin dai tempi di Platone
e Aristotele la pulchritudo è riconosciuta (con la verità e la bontà) un attributo di Dio, un Dio
creatore la cui esistenza è riscontrabile dalla ragione. La Rivelazione conferma l’opinione dei Greci e va oltre,
fornendo alla filosofia, con quella conoscenza della Trinità che l’uomo da solo non poteva raggiungere, dei dati
filosofici illimitati, e di certo fino a oggi non ancora adeguatamente sviluppati. Per esempio: le più decisive considerazioni
filosofiche che pensatori insigni come san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino compiono sul pulchrum, sulla bellezza,
si trovano proprio nei loro De Trinitate. Essi dimostrano che le fonti delle acque vive della bellezza non sono solo genericamente
« in Dio », il che è già un dato filosofico decisivo, ma in Dio sono proprio e solo in
quanto la sua realtà è di essere « Trinità".
I quattro Nomi di Dio.
È sulla loro scorta
che qui si può giungere alle sacre fonti della pulchritudo, stabilizzando le conclusioni da prendere riguardo al problema
architettonico, così come già si è potuti di recente formulare una teoria del linguaggio come metafora della
natura (si veda, di chi scrive, Ingresso alla Bellezza.
Fondamenti a un’Estetica trinitaria, Fede & Cultura,
Verona, 2007).
San Tommaso insegna che
le relazioni tra le Persone trinitarie sono dovute alla nascita ab æterno dal Padre della seconda Persona, nascita
che in qualche modo è come quella di un concetto (o idea) da una mente: la mente del Padre, principio senza principio,
genera in sé un concetto che la pensa, che ne è lo splendore e che la rispecchia perfettamente. A tale concetto
generato dal Padre l’Angelico riconosce allora, cioè solo per tali motivi, quattro Nomi (cfr. S.
Th., I, 34, 2, ad 3), i quali esprimono a noi, menti limitate, i quattro requisiti personali dell’Unigenito di Dio:
Egli ha nome Figlio, Splendore, Imago (o Volto, o Specchio) e infine Verbum (o Pensiero,
o Logos).
La cosa si capisce meglio
se si pensa a una di quelle belle cupole del Barocco italiano (simile in qualche modo alla nuca di un uomo), nelle cui volte si
stendono gli affreschi delle Glorie celesti: struttura architettonica e affreschi sono tutt’uno. E noi vediamo che dalla
volta della cupola emerge l’affresco, come fosse generato dalla cupola: nasce in tutto il suo splendore la visione emozionante,
fulgida e viva di ciò che quasi viene « pensato" dalla « mente » rappresentata dalla
cupola: « La Trinità rimira in sé le proprie beate Persone e la loro inesprimibile relazione; in tale relazione
rimira anche la propria infinita bontà partecipata all’uomo, alla sua Chiesa, per il tramite della Liturgia di Cristo
che si compie sull’altare: dalla volta dei Cieli il Padre benedice e accetta il santo Sacrificio ».
Le pietre, infiammate di
vita, accendono un affresco. L’affresco, come la seconda Persona della ss. Trinità, è in primo luogo un «
figlio » generato dall’immensità della volta; coi suoi colori e le sue luci celesti è poi il
suo liturgico « splendore »; con le figure di santi, di angeli e delle stesse tre divine Persone è inoltre
il suo « volto »; infine, con la verosimiglianza e l’identificazione di tutte queste cose così
precisamente rappresentate, è il suo « logos », il suo « pensiero ». L’esempio
ci aiuta a capire le cause per cui l’Aquinate ritiene di poter individuare per la seconda Persona della santissima Trinità
quattro Nomi, e proprio quei quattro.
Di questi quattro Nomi,
i due in cui risiedono le forme ideali preesistenti alle cose sono precisamente Volto e Pensiero (Imago e
Logos): Volto, come si intuisce, ne permette la rappresentazione, Pensiero il loro senso, il loro contenuto;
Volto istituisce i canoni dell’espressione, dell’arte cioè di spremere fuori un pensiero (lat. exprimere);
Pensiero fissa le leggi che permettono di ragionare secondo logica, e anche qui si capisce che le tre prerogative di armonia,
chiarezza e unità sono connaturali a entrambi per restare fuori dal caos e rimanere nell’essere: l’essere,
essendo vero, buono e bello, è ovviamente intelligibile, comprensibile, positivamente logico e soavemente attraente, come
visto anche con l’esempio della cupola barocca.
Ma se con sregolatezze
o astrattismi l’uomo distrugge le forme delle cose, egli distrugge sia il loro volto che la loro sostanza, e, in esse, distrugge
Dio. E con Dio l’uomo distrugge ogni canone, ogni appiglio di qualsivoglia certezza da cui qualsiasi ragionamento deve comunque
iniziare, fosse anche solo l’innatismo grammaticale di Chomsky. In altre parole l’uomo, col relativismo astrattista,
col pensiero e l’arte tranciati dalla natura e dalla forma delle cose, essendo il suo linguaggio non solo esterno a sé
e non solo produttore di gesti, di manufatti e di città, ma lavorando anche dentro di sé, producendo cioè
qualcosa di reale nelle proprie fantasie caotiche, astratte, sregolate, l’uomo, si diceva, si autodistrugge da dentro.
Reale, cioè divino.
Ecco perché il
suo occhio cerca istintivamente il bello: nel bello egli trova i segnali della vita. È istintivo che l’uomo cerchi
la vita. Ma, per quanto contronatura, il gorgo del brutto lo attrae perché per suo tramite può gloriarsi di invenzioni,
pavoneggiarsi di primati, compiacersi di « novità » meravigliose.
Inoltre con la perdita
del senso del reale, cioè del divino, da cui si effondeva il profumo della bellezza che si aveva nelle polis cristiane
fino al Settecento, perdita realizzata con la derubricazione urbanistica di Dio e delle sue chiese, con la caduta poi della misura
naturale della « proporzione aurea » a quella arbitraria dell’elastico che la sdegna, con l’abbandono
infine della visione oggettiva mediata dai sensi in favore delle visioni soggettive di pura fantasia, si perde anche ciò
che alla realtà è assolutamente essenziale e che proprio e soltanto i due Nomi Imago e Verbum impiantano:
la relazione, anzi la prima relazione, la relazione fonte di ogni e di tutte le altre relazioni, fisiche
o spirituali che siano, che è cosa importantissima, decisiva, perché tutte le cose nascono dalle relazioni, a cominciare
dal Creato, che nasce dalla relazione con Dio, e vi nasce solo perché il Dio da cui nasce è la Trinità, la
cui essenza è costituita dalle relazioni delle tre Persone.
Con i due Nomi di Imago
e Verbum ci troviamo infatti alle ‘Origini della bellezza’. La bellezza ha le sue origini qui: nella
specialissima relazione tra i due Nomi divini Imago e Verbum, Volto e Pensiero, Specchio e
Nous. Con la loro relazione il pensiero ha la sua forma, la verità i suoi assi ortogonali, la realtà la sua
sostanza interiore e la sua espressione esteriore.
Se questa è l’origine
della bellezza, la città che vuol essere bella dovrà essere per necessità orientata a essere anche buona.
C’è forse qualcuno che non sogni una città buona? Naturalmente no, però sono molti che la vogliono
buona come vogliono loro, bella come dicono loro, e questo è il punto: il soggettivismo; ma bellezza e bontà, senza
riferimento a Dio – e a Dio « Trinità » – si perdono nel nulla e nel caos che vediamo.
Il primo attributo di Dio
è l’essere. L’uomo può – e anzi per certi versi deve – sognare, immaginare,
ipotizzare, ossia spingersi oltre le colonne del conosciuto, oltre l’orizzonte del visto. Ma, se vuole restare nell’ambito
dell’essere, non può farlo arbitrariamente: non fuori dell’essere della realtà,
non oltre le colonne dell’adesione almeno analogica e intenzionale al reale, non al di là della conoscibilità,
che si realizza solo attraverso i sensi.
Dunque, se per fare bellezza
– in tutte le arti, quindi anche in architettura – bisogna restituire all’uomo la sua dimensione naturale, bisognerà
in primo luogo restituirgli la dimensione trascendente di creatura, e non, come ora, di creatore, e ciò impiantando in
primo luogo nell’architettura e urbanistica attuali una dimensione verticale non fatta tanto di grattacieli ma semmai di
« relazioni auree », di misure armoniche, di continuità col territorio circostante e con l’eternità
sovrastante: continuità cioè con le vive indicazioni del passato sul piano storico e con la sacralità trinitaria
sul piano religioso.
Senza il ritorno a queste
due continuità – fino a tre secoli fa mantenute anche se con le immancabili oscillazioni del percorso culturale –
l’arte architettonica non ha alcuna possibilità di restituire all’Italia quella qualità di « Giardino
della bellezza » ora quasi del tutto perduta. « Giardino della bellezza » perché in
Italia si era concretata più che in ogni altra regione la « civitas » cristiana, la laboriosa
« polis » ordinata alla propria santificazione attraverso la viva armonia insegnata dalla Chiesa tra
cultura e religione. « Giardino della bellezza » perché luogo dove si veniva realizzando l’uomo
nello splendore del modello cristiano prima della deriva degli ultimi secoli, secondo il bellissimo detto di Romano Amerio, per
cui « il problema dell’uomo è il problema dell’adorazione, e tutto il resto è fatto
per portarvi luce e sostanza ».
Al contrario, oggi il rischio
è di cosificare l’uomo nella perdita della sua dimensione reale, trascendente e anelante a Dio, anche con un’architettura
alienante intessuta di « non luoghi » produttori di « non uomini »
invece che di « luoghi densi di uomo »; reificare l’uomo levandogli la religione per levargli
la testa, la ragione, cioè la libertà e l’amore, perché tutto divenga arbitrario, relativo,
sregolato, in una città ebete e grassa, prostituita alla produzione di beni di consumo e di gonfie vanità.
Qualcuno potrebbe obiettare
che con ciò si vuole suggerire quello che spregevolmente viene definito un « ritorno al classico
». Ebbene: di quale classico si parla? Classico non vuol dire misoneistico, tutt’altro. Prima di avanzare apriorismi
non ben argomentati bisognerebbe chiedersi cosa pensarono i contemporanei di Brunelleschi, di Alberti, di Bramante allorché
costoro « restaurarono » in Italia la « relazione aurea »,
il « classico »: non è infatti la « relazione aurea »
in sé che fa una buona architettura, ma il suo buon uso, il genius artistico di chi, baciato dalla Musa, sa salire alla
bellezza, all’equilibrio del « classico »; di per sé la « relazione
aurea »è solo la prima e indispensabile condizione al bello, questo è certo, ma nessuno gridò mai
a quei grandi: « Fidia è morto! », « Fidia è morto!
».
La « relazione
aurea » ha il pregio non indifferente di costituire una sorta di anello tra natura (da cui proviene: si veda
la foglia di una rosa), uomo (che con gli Egizi la colse e con Fidia la canonizzò) e Dio, che la serba nel
Logos e la irraggia nel Volto. La « relazione aurea »è dunque conseguenza della ragione, a dispetto
di coloro che, stornati con ciò dai loro capricci, si straccerebbero le vesti se tornassero a risplendere in Italia l’armonia
della bellezza e un umanesimo pronto a trovare in vibranti poetiche il modo di piegare alle esigenze dell’arte l’urbanizzazione,
i nuovi materiali e le loro notevoli possibilità.
Sì: l’anello
triplamente nuziale della « relazione aurea » va di nuovo infilato alle dita della Musa, almeno in Italia,
per restituirle il ruolo primaverile che le è proprio nel mondo. Di esso sarà utile parlarne a fondo direttamente,
prima o poi, perché è da lì che si sviluppano anche cose che con l’arte parrebbe che non c’entrino
nulla, e invece c’entrano, come l’amore e l’amicizia.
(Pagina protetta dai diritti editoriali).
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