Se scrivo volentieri
su questo libro di José Antonio Ullate Fabo non è per amicizia personale con l’autore, perché questa
amicizia ancora non c’è (ci siamo scambiati solo alcune lettere), anche se spero che nasca presto dato che il suo
libro mi è molto piaciuto. Il vero motivo per cui scrivo di questo libro è perché desidero valorizzarlo,
in quanto rappresenta un tentativo onesto e meritorio di affrontare alcuni aspetti della verità che riguardano la Chiesa.
Ma il libro di Ullate non è un’apologia della Chiesa, anche se il sottotitolo potrebbe farlo supporre. È
la ribellione di una persona intelligente e retta di fronte alla marea montante del fideismo laicistico (spiegherò meglio
più avanti di che cosa si tratta) che sta per sommergere ogni forma di spirito critico e di razionalità sapienziale.
Che la religione cattolica sia la realtà storica che maggiormente rischia di venire spazzata via da questa marea è
vero.
Ma è anche vero
che viene spazzata via dalla violenza di un irrazionalismo che oltre alla Chiesa sta distruggendo alla base la civiltà
occidentale nata con la razionalità greca, razionalità che ha dato origine alla filosofia, alla scienza e alle
prime forme di democrazia, e ha reso possibile orientare i mutamenti sociali secondo la logica del diritto romano e del diritto
cristiano-medioevale. Più che una difesa della Chiesa questo libro è una difesa della razionalità. Per
questo vorrei che molti lo leggessero: perché vi troveranno, come me, validi motivi per comprendere meglio le ragioni
della fede cristiana e le vere motivazioni degli attacchi che le vengonorivolti.
Il romanzo di Dan Brown
ha avuto un successo che potremmo definire insperato (considerate le proporzioni planetarie che ha assunto), anche se si tratta
di un successo certamente ricercato e abilmente ottenuto. In particolare, sorprende la rapidità con cui è diventato
un best-seller mondiale: pare che ne siano state vendute circa venti milioni di copie (un milione e mezzo solo in Italia), e
gli esperti di comunicazione di massa si sono interrogati sulle cause reali di tale successo di pubblico, ma non di critica,
di cui non si può sicuramente parlare. Da quando Il Codice da Vinci è oggetto di analisi da parte dei critici
letterari di tutto il mondo (quasi due anni), pochi sono stati i consensi e moltissime, invece, le critiche.
Il genere letterario e la sua verità.
Il nucleo essenziale
delle critiche rivolte da più parti al libro di Brown consiste nel rilevare l’ambiguità, o meglio la malafede,
dell’autore. Ma non si tratta di accuse pregiudiziali sorte da un illegittimo processo alle intenzioni.*
[Parlo delle intenzioni in senso stretto, cioè di quello che l’autore ha in mente di ottenere
con la sua opera e che – come scriveva anni fa la filosofa inglese Margaret Anscombe nel suo libro Intention (1969) –
non sono di per sé oggetto di conoscenza diretta e certa. Altra cosa, invece, sono le dichiarazioni di intenti, e degli
intenti dichiarati di Brown parla opportunamente Ullate all’inizio del suo libro.] Delle intenzioni si può
parlare, e ne parlerò, ma dopo avere giudicato e interpretato l’opera nella sua struttura testuale secondo le regole
più elementari dell’ermeneutica.
Le critiche rivolte da
più parti al libro di Brown non fanno che valutare obbiettivamente la qualità dell’opera in base a ciò
che pretende di essere, cioè in base al « genere letterario ». Seguendo questo metodo obbiettivo,
la critica è unanime nel riconoscere che – piacciano o no le tesi sostenute dell’autore – il libro
di Brown è fondamentalmente « falso ». Manca di doti formali, e questo si può ancora
perdonare; ma è soprattutto la dote essenziale della comunicazione che manca, cioè la « verità
», e questo è un difetto che non si può perdonare. La società umana non può sopravvivere senza
la verità della comunicazione, perché mancando questa viene a mancare ogni possibilità di amicizia, di
fiducia, di collaborazione e di solidarietà. Senza un minimo di fiducia nella verità della comunicazione sociale,
anche dal punto di vista politico non può esserci democrazia.
Per questo i regimi totalitari
hanno sempre mirato a eliminare le condizioni favorevoli a una comunicazione sociale che veicolasse la verità, in qualsiasi
ambito e a qualsiasi livello, istituendo sistemi integrati di censura e di propaganda che facessero circolare solo i messaggi
utili al consolidamento del loro potere. Inoltre, non bisogna dimenticare che tra gli strumenti della comunicazione di massa
i libri destinati a un vasto pubblico sono sempre stati gli strumenti di disinformatjia dei dittatori (esistono prove
certe nella storia romana, da Augusto in poi, e anche nella storia moderna, a partire da Napoleone. Della storia contemporanea,
che ha visto il comunismo, il fascismo e il nazismo arruolare eserciti di scrittori, è superfluo parlare).
Intendiamoci: la verità
di un testo è legata al suo genere letterario, non è un’entità astratta sulla base della quale si
possono costruire tesi ideologiche con argomentazioni retoriche. Il genere letterario è un dato concreto, e concreta
è pure la sua verità. La verità del testo, in questo senso, si può definire come « intenzione
intrinseca » (diversa dall’intenzione estrinseca, che è quella – più difficile da dimostrare
– dell’autore). Per esempio, se il genere letterario è quello della poesia lirica, la verità dei versi
risiederà nell’espressione della vera natura dell’animo umano e delle sue passioni in rapporto alle vicende
della vita (amore umano o divino, nostalgia, rimpianto, desiderio struggente, angoscia, immedesimazione con la natura e così
via).
Per fare un altro esempio
di questo tipo, se il genere letterario è quello del racconto fantastico (oggi definito fantasy), allora la verità
del testo si troverà nell’espressione delle dinamiche dello spirito umano in rapporto ai grandi temi dell’esistenza
individuale e sociale. Se invece il genere letterario è storico – sia che si tratti di storiografia in senso scientifico,
sia che si pretenda di descrivere una vicenda storica con elementi immaginari a integrazione dei dati accertati, come fa il
romanzo storico – allora la verità del testo dovrà corrispondere alla verità degli eventi passati
sulla base della verifica scrupolosa delle testimonianze.* [Cfr. Antonio Livi, Logica
della testimonianza. Quando è ragionevole credere, Lateran University Press, Roma 2005.]
Ancora: se il genere
letterario è quello della saggistica (che comprende sia i discorsi di tipo polemico o apologetico, sia quelli di presentazione
o approfondimento di idee filosofiche, politiche, scientifiche e simili), allora la verità del testo corrisponderà
alla forza delle argomentazioni o alla presunta accettazione di queste da parte del lettore sulla base di un consenso già
consolidato in quel contesto sociologico. A quale genere letterario appartiene il libro di Brown? Se escludiamo il genere lirico
e il fantasy (ma anche altri che non ho citato, come quello epico e quello trattatistico), restano il genere storico e quello
saggistico. Ma già si presentano inestricabili grovigli di stile che fanno intuire la disonestà intellettuale
con cui il libro è stato concepito e scritto. Lo ha rilevato, fra tanti, Goffredo Fofi:
«
Non è un bel libro, neanche come libro di genere. La scrittura è approssimativa, il romanzo non ha spessore di
alcun tipo, ma piace, tutti lo leggono e c’è anche chi prende sul serio le sue corbellerie storico-filosofiche.
È costruito come un feuilleton, a puntate, con ricapitolazioni che spingono avanti un’azione da detection
e avventura sul tema della lotta tra due organizzazioni occulte che si contendono il Santo Graal, o meglio il segreto del Graal,
che sarebbe quello delle nozze, concrete, tra Gesù e la Maddalena, donna di sangue reale, e infine della supremazia dell’elemento
femminile e androgino su quello maschile, tanto più rilevante perché siamo all’inizio dell’era dell’Acquario,
e le Chiese del Dio maschile ne tremano! La lotta tra il Bene e il Male è fra una tradizione esoterica, quella dei Templari,
e una odiatissima Chiesa il cui braccio più armato è l’Opus Dei. E procede per rebus, indovinelli, sciarade,
enigmi di cui il lettore, spinto dall’azione, finisce per dimenticare la decifrazione, ché un mistero lava l’altro.
Modello non dichiarato: il feuilleton francese anche cinematografico e televisivo, i film alla Spielberg delle «
Arche Perdute », tanta chincaglieria New Age e New Fantasy ma soprattutto, soprattutto, l’opera del
Venerabile Maestro Eco, Il nome della rosa…
Cercare di capire come
questa zavorra rimescolata a tavolino da un piccolo giocatore d’azzardo produca un best-seller di tale vastità
non è facile, ma alcuni punti fermi ci sono e proveremo a elencarli disordinatamente: il disorientamento dei "nuovi
tempi", il bisogno di consolazioni extrastoriche e pseudoreligiose, l’antico riscatto della mediocrità delle
esperienze individuali nella fantasticheria avventurosa, il rifiuto di porre le proprie speranze in un aldilà o in un’altra
parte del cosmo (di cui la fantascienza muore per incapacità di ipotizzare futuri non già ipotizzati). Infine:
la delega a supernavigatori del reale che « sanno », la spiegazione di quel che accade devoluta a forze occulte
e sette iniziatiche lontane da noi, e che contemplano al loro interno Fede e Finanza. Insomma, l’abbandono della speranza
di poter controllareun po’ del proprio destino individuale e la necessità di dar comunque un senso alla storia
di cui si è membri, e più in generale alla disfatta dell’uomo. All’assenza d’utopia del nostro
Duemila Dan Brown aggiunge in intruglio di sacro e profano e la rivincita di un paganesimo da fumetto ». *
[Goffredo Fofi, « ‘Codice’ di procedura mentale », in Il Sole-24 Ore, n. 36,
6 febbraio 2005, p. 34.]
«
Paganesimo da fumetto » è un’espressione indovinata, che forse va molto al di là di quello
che Fofi intendeva dire (certamente più di quanto abbia potuto su quel giornale). Si tratta, infatti, di un episodio
della lunga storia della reazione pagana alla diffusione del cristianesimo, cioè di quella cultura conservatrice che
sin dagli inizi si servì della filosofia per screditare la verità della rivelazione. Fanno parte di questa storia
i filosofi stoici del II secolo, come Marco Aurelio, tutti largamente tolleranti nei confronti delle religioni esotiche e di
ogni tipo di setta, ma intolleranti verso il cristianesimo; quando il filosofo platonico Giustino tentò di difendere
le credenze e le pratiche religiose dei cristiani con le sue due Apologie, la risposta fu la sua condanna a morte per
« irriverenza verso l’autorità ». Poi, nel III secolo, con Celso, Plotino e Porfirio, la reazione
pagana adottò i moduli filosofici del neoplatonismo. Nel IV secolo, dopo l’editto di tolleranza dell’imperatore
Costantino, l’intolleranza pagana ritornò al potere imperiale con Giuliano, che i cristiani denominarono impropriamente
« l’Apostata » (perché mai aveva adottato personalmente la fede in Cristo).
Così la storia
prosegue fino ad arrivare al neopaganesimo del Rinascimento, inizialmente perdente sul piano politico (Giordano Bruno), poi
trionfante nel Settecento con la rivoluzione giacobina (il culto della dea ragione nella cattedrale di Notre-Dame, tempio principale
della cristianità francese), esportata in tutta Europa con le guerre napoleoniche. Il papa Pio VII, prigioniero di Napoleone,
dette al mondo l’immagine emblematica del neopaganesimo trionfante sulla Chiesa.
Ma la politica ispirata
al neopaganesimo non poteva né accontentarsi né fidarsi di momentanei successi ottenuti con gli strumenti del
terrore e della forza militare. Occorreva consolidare le conquiste della rivoluzione armata con quella che successivamente fu
chiamata « rivoluzione culturale ». In effetti, il neopaganesimo giacobino esercitò sistematicamente
– sulla base di teorie filosofico-politiche ben elaborate – la rapina dei beni ecclesiastici, mirando a quelli che
tradizionalmente forniscono alla Chiesa gli strumenti per la catechesi e per l’evangelizzazione: le università,
innanzitutto, poi le altre istituzioni educative, come i collegi istituiti dai gesuiti e dagli scolopi, e infine le istituzioni
di assistenza e di beneficenza.
D’altra parte,
i primi giornali nacquero al di fuori della cultura cattolica e servirono a identificare, nell’immaginario collettivo
della borghesia colta, la critica sociale con l’ateismo e la Chiesa con la conservazione delle strutture politiche assolutistiche
e con la difesa dei privilegi di classe. I romanzi a tesi, prototipi del Codice da Vinci, fecero il resto. Voltaire,
con il successo del suo Candide, riuscì a far passare per buona – prima come luogo comune dei manuali di
storia della filosofia, poi della cultura di massa – la sua critica della metafisica teistica di Leibniz (una critica
fatua e innegabilmente inconsistente, che di per sé nulla poteva togliere alle ragioni di un pensatore serio come Leibniz,
che era anche un logico rigoroso e un matematico geniale); così come passò per buona – diventando un cliché
pronto all’uso – la polemica contro la morale cattolica mediante la rappresentazione falsamente realistica di ecclesiastici
bigotti e ipocriti (si noti, quindi, come non occorre addurre dati statistici e fatti giudiziariamente accertati per costruire
un’immagine di corruzione che squalifichi il clero: è sufficiente che l’immagine romanzesca piaccia a chi
vuole screditare effettivamente il cristianesimo).
Il giacobinismo non è
un episodio ma un trend stabile della civiltà occidentale. Nell’Ottocento il giacobinismo diventa ideologia di
Stato in tutta Europa e in America Latina, dopo che le rivoluzioni liberali ebbero eliminato ogni forma di potere politico dei
cattolici. Il nome che questa forma di neopaganesimo anticristiano si è dato, mutuando il termine dal lessico teologico
cristiano, è quello tuttora in voga di « laicismo ».
Il Novecento, però,
ne registra una variante, cioè il nazismo. La filosofia di Nietzsche – esplicitamente neopagana nel suo tentativo
epico di annullamento del cristianesimo – rappresenta qualcosa di più di un remoto precedente letterario. La suggestione
esercitata dalla figura di Nietzsche-anticristo, la sua rievocazione dei miti greci (Dioniso) per giustificare l’immoralismo
(invano ribattezzato come « amoralismo », perché questo termine non ha alcun senso) e l’irrazionalismo
nichilistico, l’appello naturalistico a una « fedeltà alla terra » che faccia dimenticare
il destino ultraterreno dell’uomo e soprattutto la teorizzazione dell’Übermensch furono sufficienti
a creare in Germania (dove quasi un secolo prima si era scatenato il Kulturkampf) le condizioni culturali per il trionfo
del nazionalsocialismo e della sua politica anticristiana. * [Sugli aspetti neopagani,
e pertanto anticristiani, del nazismo si legga l’enciclica di Pio XI, Mit brennender Sorge, 14 febbraio 1937.]
Parlo delle condizioni culturali, poiché delle condizioni sociali e politiche di quella tragedia si è detto tutto
e tutti ne sanno abbastanza.
E se qualcuno non fosse
convinto che sul piano culturale l’influsso di Nietzsche sia stato determinante, rifletta sull’aperta simpatia dimostrata
verso il regime nazista da un altro filosofo neopagano, Martin Heidegger, il quale, non a caso, si rifaceva sia a Nietzsche
sia ai greci da lui tanto amati: filosofi, drammaturghi e poeti. * [Su questa vicenda
culturale si veda il recente saggio di Roberto Rossi, Le ideologie del Novecento. Da Nietzsche a Löwith, Società
Editrice Dante Alighieri, Roma 2005.]
La tecnica di
egemonia culturale che il nazismo predilesse e portò a livelli prima mai visti fu, appunto, quella della storia romanzata,
la stessa adottata ai giorni nostri dall’autore del Codice da Vinci. L’accostamento non è forzato,
come dimostra un professore di liceo che ha commentato l’articolo di Goffredo Fofi: « Il suo articolo
è utilissimo, intorno a un testo che i miei ragazzi conoscono, per rendere chiara la fusione tra fantastico e reale,
o meglio l’utilizzo del fantastico per spiegare il reale: uno dei meccanismi ideologici vincenti del nazismo ».
* [Raffaele Ibba, in Il Sole-24 Ore, 27 febbraio 2005, p. 30.]
A chi serve la falsità
romanzata sul cristianesimo?
Torniamo al discorso
iniziale sulla verità. Dalle notazioni di tipo apparentemente formale che ho riportato si capisce che non si tratta solo
di forma, bensì di sostanza. Infatti, quando un genere letterario veicola un messaggio con pretesa di verità –
ed è proprio il caso del libro di Brown –, il lettore deve poter distinguere fra descrizione di un evento realmente
accaduto ed enunciazione di una tesi religiosa o politica. La distinzione è indispensabile per consentire al lettore
di vagliare le credenziali di verità dell’enunciato: credenziali che, logicamente, sono diverse se si tratta di
una pretesa verità storica o di una pretesa verità teoretica. Se l’autore non scopre le carte e confonde
il lettore, l’operazione culturale che ne risulta è una vera e propria disonestà. Giuridicamente si potrebbe
parlare di « circonvenzione di incapace » a livello di comunicazione di massa. Non sto esagerando.
La massa può configurarsi come un « soggetto incapace » quando si verificano determinate
circostanze storiche e sociali che rendono i fruitori del messaggio incapaci, appunto, di difendersi da operazioni culturali
corrotte. Generalmente la massa non ama e soprattutto non pratica il vaglio delle garanzie di verità dei messaggi che
le vengono indirizzati; invece del vaglio critico (« questa tesi mi convince oppure mi lascia perplesso »;
« questo fatto storico è sufficientemente provato dal numero e dalla qualità dei testimoni, oppure
no ») prevale l’atteggiamento fideistico di prendere per buono tutto ciò che proviene da fonti di informazione
o di propaganda che si ritengono attendibili a priori. In un’epoca in cui la coscienza collettiva della società
occidentale nutre la presunzione di essere ormai affrancata dalla credulità e dal principio di autorità, assistiamo
ai fenomeni più evidenti di fideismo laicistico.
Sì, ho detto «
fideismo laicistico », e non è una boutade polemica. Se parlo di fideismo laicistico è perché
penso a due realtà culturali – il laicismo e il fideismo – ben accertate dagli studiosi di storia delle idee
e di sociologia, e anche ben collegate fra di loro. Per presentare adeguatamente il libro di Ullate è necessario spendere
qualche parola su queste due realtà che oggi vedo strettamente intrecciate, ma che prima devo, per maggiore chiarezza,
illustrare separatamente.
Il laicismo.
Anche
Ullate ne parla, ma in altri modi, talvolta riferendosi a una « moderna gnosi » che ispira le battaglie
dei movimenti ecologisti e delle femministe. Aggiunge che questo gnosticismo contemporaneo si basa su un « agnosticismo
relativista ». Ha ragione, ma il termine « gnosi » è troppo carico di equivoci storiografici
e poco identificabile nella strategia politico-culturale che sto riportando come spiegazione dell’operazione editoriale
del Codice da Vinci. Prescindendo dai diversi nomi e dalle possibili etichette, questa strategia è storicamente
individuabile e se ne possono indicare le mosse in eventi culturali di massimo rilievo religioso e politico. Come ho detto,
il laicismo è l’espressione contemporanea di un movimento culturale che, partendo dall’Illuminismo, ha fatto
strada fino a incarnarsi nella politica delle logge massoniche, prima europee (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia), poi
americane.
Tale politica ha avuto
come primario obiettivo strategico la distruzione dell’autorevolezza e dell’autonomia della Chiesa cattolica; da
qui la lotta senza quartiere contro il suo potere culturale (le università, le accademie scientifiche, le scuole), contro
il suo influsso sociale (le istituzioni di assistenza e di beneficenza), contro la credibilità in campo dogmatico e morale.
Dal punto di vista strategico
il laicismo ha sempre mirato alla demolizione del dogma, cioè alla verità rivelata da Dio e garantita dal magistero
ecclesiastico. Nel Settecento il filosofo massonico Lessing cerca di dimostrare su basi razionalistiche l’impossibilità
di passare dagli eventi storici a una verità « universale »; *
[Nel 1753 Gotthold Ephraim Lessing (1729-81) pubblicò un’opera che ebbe grande influsso sugli
sviluppi della filosofia e del pensiero religioso tra Settecento e Ottocento; si intitola Il cristianesimo della ragione
(Das Christentum der Vernunft) e sostiene una radicale riduzione della religione « rivelata »
– cioè il cristianesimo, che si propone come depositario della rivelazione – a una religione « naturale"
o « razionale ». Le idee di Lessing sono affini a quelle di Kant espresse nella Religione entro i
limiti della sola ragione (Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft) e si ritrovano in uno dei due filoni
di pensiero che si fronteggiano nella aetas kantiana: quello di Fichte e di Schelling, aspramente combattuto da Jacobi.
Con Lessing inizia anche una pseudocritica biblica e una gratuita falsificazione della storia della Chiesa e del dogma, con
la tesi – poi amplificata e sviluppata dalla teologia protestantica cosiddetta « liberale »
e dal modernismo cattolico – di una radicale differenza tra il « Cristo della storia » e il
« Cristo della Chiesa »; la tesi è esposta da Lessing in La religione di Cristo (Die
Religion Christi), l’opera in cui nega che Cristo sia davvero il Verbo incarnato e che lui stesso lo abbia mai pensato.
Questa scissione tra un preteso « cristianesimo del Cristo » e un cristianesimo della tradizione è
comunque nettamente in contrasto con un’altra teoria di Lessing, il quale sostiene che la verità della religione
non può essere provata da un qualsiasi fatto storico. Lessing si avvale della distinzione leibniziana tra verità
« di fatto" e verità « di ragione » per ascrivere alle prime argomentazioni
come i miracoli, la cui notizia, dice, non si sa se risponda a verità e, in secondo luogo, quand’anche rispondesse
a verità non proverebbe la verità di una religione, che appartiene all’altra categoria della verità
« di ragione ». Sulle origini settecentesche della massoneria e sui suoi sviluppi ideologici dopo
l’Illuminismo inglese e francese e negli ambienti culturali tedeschi tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento
si vedano le interpretazioni di: Paul Arnold, Storia dei Rosa-Croce, Bompiani, Milano 1989; Armando Giuseppe Fava, Il
segreto della Framassoneria, ristampa anastatica dell’edizione del 1884 a cura di Franco Cardini, Solfanelli, Teramo
1991; Christian Jacq, Massoneria: storia e iniziazione, Mursia, Milano 1991; Franco Molinari, La massoneria, cattedrale
laica della fraternità, Queriniana, Brescia 1986. Questi studi, che logicamente denunciano il carattere ideologico
e settario della filosofia massonica, trovano indiretta conferma in quello che ha scritto, a difesa della massoneria, uno dei
massimi esponenti dell’organizzazione, il docente italiano Giuliano Di Bernardo – che è stato tra l’altro
Gran Maestro del più importante ramo della massoneria in Italia – con il suo libro intitolato Filosofia della
massoneria: l’immagine massonica dell’uomo, Marsilio, Venezia 1989. L’esposizione dell’antropologia
massonica di Di Bernardo esalta il carattere « aperto" e conferma la piena coincidenza con il pensiero
di Lessing, cioè con un programma di « progresso » e di « liberazione »
dell’uomo che si traduce concretamente nella lotta alle religioni rivelate (particolarmente al cattolicesimo) e in un
moralismo del tutto funzionale alle esigenze della borghesia.] nell’Ottocento, Fichte, anche lui massone, volge
i principi dell’idealismo trascendentale alla conclusione che non si può razionalmente ammettere alcuna rivelazione
divina. * [ Johann Gottlieb Fichte nacque a Rammenau, in Sassonia, il 19 maggio 1762.
Si iscrisse alla facoltà di Teologia dell’Università di Jena, poi continuò gli studi teologici nelle
Università di Wittenberg e di Lipsia. Nel 1790 scrisse la sua prima opera, gli Aforismi sulla religione e sul deismo
(Aphorismen über Religion und Theismus), nei quali esprime il dissidio tra le istanze della ragione e gli impulsi
del cuore. Da Lipsia passò a Varsavia, quindi a Königsberg, dove conobbe e ammirò Kant, cui consegnò
il suo Saggio di una critica di ogni rivelazione (Versuch einer Kritik aller Offenbarung), che Kant apprezzò
come logica prosecuzione del suo discorso sulla natura meramente razionale e soggettiva della religione.] Da allora in
poi qualsiasi argomento, vero o falso poco importa, serve alla causa del laicismo per convincere che una rivelazione divina
è impossibile, come è impossibile che il cristianesimo sia una religione diversa dalle altre e superiore in quanto
religione rivelata.
Uno degli argomenti che
il laicismo ritiene funzionali a questo discorso è ricavato dall’ideologia del tradizionalismo, sostenuta da pensatori
come René Guenon sulla base di studi di antropologia culturale, di fenomenologia della religione e di storia comparata
delle religioni. Tale ideologia punta sulla presunta dimostrazione della presenza, nel cristianesimo, di elementi di altre religioni
preesistenti (l’illogica conclusione è che tutte le religioni « storiche » esprimono il medesimo
sentimento religioso, una in un modo e le altre in altri modi).
Anche Dan Brown fa ricorso
a questo argomento nel Codice da Vinci, dando per scontato l’utilizzo di simboli religiosi pagani da parte della
primitiva cristianità. Nel suo libro Ullate mostra di avere compreso che questo argomento è un espediente dialettico
per mettere in discussione indirettamente la verità del cristianesimo come religione rivelata; risponde sbrigativamente
alle osservazioni di Brown e mette a fuoco il problema cruciale: « il cristianesimo non si presenta come una
religione ‘originale’ ma come la vera religione » (p. 153). E subito dopo aggiunge, per far capire come
le eventuali somiglianze formali non tocchino il problema della verità degli elementi sostanziali: « Il
cristianesimo appare totalmente diverso dalle altre religioni: rispetto all’ebraismo per l’incarnazione di Dio,
e rispetto alle altre religioni perché è l’unica che non ricorre al mito. Nelle altre tradizioni ci sono
storie mitiche che presentano un dio che muore e rinasce, ma Cristo è Dio e uomo, viene ucciso realmente e resuscita
di fronte a testimoni. In altre parole, il cristianesimo è l’unica religione che reclama la storicità di
ciò che predica. I critici non considerano questo fattore cercando di dissolvere l’unica originalità del
cristianesimo ».
Oggi le armi della lotta
al cristianesimo da parte del laicismo non sono più quelle tradizionali della cultura d’élite (la saggistica
filosofica e scientifica, i programmi della scuola, le cattedre dell’università) ma quelle più efficienti
della cultura di massa e dei mass media, non solo nella loro funzione di informazione ma anche in quella di intrattenimento.
Sull’uso dell’informazione contro la Chiesa è già stato scritto molto, *
[Cfr. Diego Contrera, La Iglesia católica en la prensa, Eunsa, Pamplona 2004.] quindi
non mi soffermo su questo punto. Parlerò, invece, del fideismo.
Il fideismo.
Il
fideismo è un fenomeno tipicamente religioso, e anche tipicamente
moderno. Nasce quando il pensiero moderno, dopo l’Umanesimo e il Rinascimento, prende le distanze dalla religione cristiana
a causa del dogma, per la sua pretesa di verità. Per il razionalismo moderno, sorto con la rivoluzione epistemologica
di Descartes, la verità è appannaggio della scienza, o meglio delle scienze, la cui regina è la metafisica
(philosophie première) e la cui anima è la matematica. Se la verità è appannaggio della scienza,
e tuttavia la religione va conservata, deve apparire come l’effetto di un’opzione irrazionale. Il fideismo è
appunto la considerazione della fede come adesione volontaristica o sentimentale a una comunità e a riti che non implicano
alcuna verità, ma costituiscono un’espressione ineluttabile dello spirito umano. Il fideista crede perché
ritiene di dover credere, pur sapendo che non ci sono ragioni per farlo. I Pensieri di Pascal, interpretati come il manifesto
del fideismo (anche se non lo sono), hanno introdotto nel linguaggio moderno il vezzo di parlare delle « ragioni del
cuore » e di contrapporre al ben noto e collaudato esprit de géométrie un non meglio specificato esprit
de finesse. * [Cfr. Antonio Livi, Il senso comune tra razionalismo e scetticismo.
Vico, Reid, Jacobi, Moore, Massimo, Milano 1992.]
I primi filosofi fideisti
sono stati dei cattolici, desiderosi di difendere la fede distinguendola dalla ragione (i protestanti, seguendo l’impostazione
teologica di Lutero, declinavano la fede in termini radicalmente irrazionalistici, condannando la ragione come « la
prostituta del diavolo »), poi quasi tutti i filosofi, cattolici e non, si sono trovati d’accordo nel concepire
la religione come espressione del sentimento e non della ragione. * [Cfr. Antonio
Livi, « Introduzione epistemologica », in Roberto Rossi, Fondamento e storia. Iniziazione alla filosofia
della religione, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2004, 3ª ed.]
Quando il pensiero postmoderno ha operato una critica radicale al razionalismo (chiamandolo ingiustamente « pensiero
forte » o « metafisica ») la religione è risultata l’unico valore della soggettività
ad avere diritto di cittadinanza. Si tratta, beninteso, di una religione concepita come prassi comunitaria, funzionale alla
democrazia movimentista, secondo lo schema caro ai pragmatisti americani (William James nel primo Novecento e ora Richard Rorty),
che si trovano in buona compagnia con i filosofi heideggeriani come Gianni Vattimo. * [Cfr.
Richard Rorty e Gianni Vattimo, Il futuro della religione. Carità, ironia, solidarietà, Garzanti, Milano
2005.]
Quest’ultimo, autore
di un piccolo saggio intitolato appunto Credere di credere, si dichiara religioso, anzi cristiano, sulla base degli stessi
« motivi" (e non « ragioni ») per cui milita politicamente
con i neocomunisti. Non c’è più differenza tra politica e religione, tra morale e diritto, tra scienza e
filosofia: c’è solo e sempre un atteggiamento di accettazione irrazionale (sentimentale) di quei valori sociali
che la retorica dominante ripete ossessivamente come slogan. Il consenso su basi retoriche, il consenso per motivi affettivi,
il consenso non informato e non desideroso di giustificazione razionale, il consenso che fa di tutto una fede, una religione:
ecco il fideismo.
Non a caso, da qualche
decennio a questa parte si sente spesso ripetere che le virtù civili sono la « fede nella democrazia
», la « fede nel progresso » e così via. Formule politiche che rivestono di sentimento
religioso l’assoluta mancanza di razionalità, cioè di coerenza logica. Dove questa viene a mancare, la pretesa
di enunciare delle tesi di spessore teoretico, così come la professione di adesione a determinati valori etici, non è
che fideismo, assunzione immotivata di presunte verità dettata da altri, senza poter o voler sapere se meritano fiducia.
Talvolta, quando dico questo, mi si obietta che più che di fideismo si tratta di pragmatismo, e che il pragmatismo non
è solo la caratteristica della filosofia politica americana ma di tutta la filosofia e la prassi politica del mondo.
Rispondo che non è vero: il pragmatismo di per sé, come sistema, non esiste o non sussiste, perché qualsiasi
intelletto pragmatico deve badare ai mezzi per raggiungere un certo fine, e un fine deve pur esserci come valore in sé.
Il pragmatismo non esiste, mentre esiste, appunto, il fideismo, che consiste nel prendere per buoni i fini che vengono proposti
come valori assoluti da autorità che non hanno dimostrato nulla e non hanno titoli per essere credute e seguite.
Che poi il fideismo sia
vissuto nella consapevolezza che i valori in gioco sono quelli di natura religiosa, oppure nell’illusione che la religione
non c’entri affatto e che si tratti solo di politica, non cambia la sostanza delle cose. Ogni visione del mondo e della
vita, quando ha un carattere olistico (unificante) e un effetto definitivo ai fini delle scelte esistenziali (opzione fondamentale)
è sostanzialmente una religione, e va trattata come tale. Poi resta da vedere se si tratta di una religione fondata,
cioè se la scelta religiosa è la conseguenza di una razionalità che porta ad accettare con sufficienti
motivi una dottrina di salvezza che si presenta come rivelazione divina, oppure se è mero fideismo. *
[Cfr. Antonio Livi, Razionalità della fede nella rivelazione. Un’analisi filosofica alla luce
della logica aletica, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2003.]
In questo contesto non
desta meraviglia che la lotta contro il cristianesimo appaia come una lotta tra religioni, e che effettivamente lo sia: è
infatti la lotta scatenata da una religione secolarizzata contro il cristianesimo, religione ancorata alla trascendenza, di
cui si vogliono estirpare le ultime radici dogmatiche e morali, quelle ancora presenti nella società di oggi e che portano
la linfa vitale alle piante antiche e nuove della Chiesa, sempre ricca di opere della fede, anche nei tempi più bui della
sua storia. La religione secolarizzata di cui sto parlando è il laicismo, e l’adesione a tale religione è
basata su scelte irrazionali; è un’adesione fideistica, analoga a quella che rende solo verbale o presunta l’adesione
al cristianesimo (sarà per questo che certe accondiscendenze, certi equilibrismi irenistici, certi pavidi cedimenti dei
cristiani nei confronti delle pretese del laicismo sono così frequenti presso i cristiani di mentalità fideistica?).
In conclusione. Milioni
di persone hanno « creduto » alle storie inventate da Brown perché, più o meno
consapevolmente, volevano crederci, perché hanno voluto escludere a priori che la religione cristiana fosse quella vera.
Tanta gente aveva bisogno di argomenti contro la pretesa di verità del cristianesimo, e non importa che siano falsi.
Gli argomenti che permettono di respingere la verità cristiana non devono necessariamente convincere una persona dotata
di spirito critico: basta che in definitiva « servano ». Sono argomenti di cui non si può
dimostrare l’attendibilità, ma questo non è un problema, perché la scelta è già stata
compiuta: si tratta di nutrire l’immaginazione con favole che rendano più plausibile e più bello ciò
che già si crede. Direi che si potrebbe utilizzare per i fideisti anticristiani la frase falsamente attribuita a uno
dei primi intellettuali cristiani, il dotto avvocato africano Tertulliano: Credo quia absurdum. *
[Per la dimostrazione storico-filosofica della falsa attribuzione a Tertulliano della frase che vorrebbe simboleggiare
l’atteggiamento fideistico si legga Antonio Livi, « Senso comune e filosofia nei Padri antenicei »,
in Acta philosophica, n. 5, 1999, pp. 123-145.]