Sulla vicenda umana
ed ecclesiale di Romano Amerio ho già avuto occasione di scrivere qualcosa introducendo il bellissimo saggio di Enrico
Maria Radelli dedicato al filosofo luganese. 1 [Cfr. ANTONIO LIVI, Le disavventure
di un filosofo cristiano, in ENRICO MARIA RADAELLI, Romano Amerio. Della verità e dell’amore, Marco
Editore, Lungro di Cosenza 2005, pp. VII-XXVIII.]
Adesso torno a scrivere
su Amerio in un contesto diverso, con il confronto tra vari studiosi, limitandomi a un solo aspetto della questione, quello
che a mio avviso è fondamentale: il giudizio che si deve dare oggi, da un punto di vista intellettuale, alla vicenda
di Amerio, per “rendere giustizia a un filosofo cristiano”. Ho dato questo titolo alle mie considerazioni per far
capire subito che cosa intendo sostenere in questa occasione: intendo sostenere che Romano Amerio è un filosofo cristiano
e che le critiche ingiuste delle quali è stato vittima dipendono innanzitutto dal non aver compreso il senso e il valore
del su discorso, che è da valutare appunto come il contributo di un filosofo al tema che è sempre al centro (anche
se non sempre esplicitamente) del dibattito culturale odierno: il tema della verità in rapporto alla storia, alla religione
e alla politica.
Sono convinto che solo
un esame delle argomentazioni di Amerio che sia condotto con i criteri della giustificazione epistemica propri della filosofia
possa “rendere giustizia” a questa singolare figura di intellettuale. Non si fa certamente cosa ingiusta quando
si segnalano limiti e difetti riscontrabili nelle sue tesi; nemmeno si manca alla giustizia se si vogliono contestare, queste
sue tesi, per quello che hanno di opinabile (infatti non sono dogmi né pretendono di esserlo): si manca alla giustizia
se le sue tesi non discusse nel merito, per quello che realmente sono, cioè come tesi metafisiche e logiche. Il giusto
approccio a delle tesi metafisiche e logiche è quello rigorosamente epistemico; ogni altro approccio è, non solo
extra-filosofico, ma anche contrario alla dignità della cultura, perché risponde a logiche che sono essenzialmente
le logiche strumentali del potere e della difesa di interessi di “casta” (in questo caso si tratterebbe della casta
degli ecclesiastici, della casta dei teologi e della casta dei politici ufficialmente cattolici, che dai teologi mutuano linguaggio
e atteggiamenti).
La disavventura di questo
filosofo cristiano è stata appunto di aver avuto pochissimi critici sereni e capaci di giudicare nel merito il suo discorso,
mentre ha avuto molti avversari astiosi e intolleranti, dai quali sono venute non solo critiche dottrinali ma anche pesanti
sanzioni (la damnatio famæ prima e la damnatio memoriæ dopo) che erano evidentemente dettate dal risentimento
e dall’arroganza del potere.
L’opera maggiore
di Romano Amerio, “Iota unum”, è stata considerata nella stagione del cattolicesimo che suole chiamarsi
“conciliare”, come espressione estrema della “reazione anti-conciliare”, addirittura come l’emblema
stesso dello “spirito reazionario” Le cronache degli ultimi decennio del Novecento e la attuali ricerche bibliografiche
documentano in modo inequivocabile come il saggio di Amerio sia stato, per questo motivo, letteralmente messo al bando, escluso
cioè dal dialogo tra le varie espressioni contemporanee della cultura cattolica.
Trattamento, questo,
doppiamente ingiusto. Ingiusto, innanzitutto, perché la statura intellettuale dell’autore di “Iota unum”
(filologo e filosofo di fama internazionale) e l’intrinseca qualità del testo meritavano una lettura attenta, non
superficiale, del saggio e una discussione serena e pertinente delle tante e solide argomentazioni critiche che esso contiene;
l’aver voluto rinunciare a leggere attentamente il testo e a discuterne l’assunto fondamentale è stato un
segno desolante dell’imbarbarimento e del degrado ideologico della cultura cattolica di fine Novecento, incapace di superare
gli slogan della comunicazione di massa e di esprimersi con autentici ragionamenti, invece di indulgere sistematicamente alla
retorica sentimentale. 2 [Si tenga presente che parecchi altri pensatori del
Novecento hanno avuto, nella seconda metà del secolo, un trattamento analogo; si veda quanto scriveva , a proposito di
Michele Federico Sciacca, un suo valente discepolo: « Da parte di certi ambienti curiali, e non tanto per il suo san
o e sacrosanto anticlericalismo, netto al pari del suo antilaicismo, quello dei “bigotti della miscredenza”, come
li chiamava […], negli anni Cinquanta era spesso considerato troppo “a sinistra” – lui da sempre, tra
l’altro, idealmente monarchico – e comunque non “allineato”, anche per la sua sistematica e risonante
valorizzazione del “sospetto” Rosmini. Perciò, secondo la medesima logica insana o insipiente, una ventina
d’anni dopo gli stessi ambienti lo tacitavano come rivolto troppo “a destra”. Nel tentativo – ed anche,
purtroppo, con il risultato – di fare ed ampliare il deserto intorno alla sua opera: tanto più desolantemente quanto
più essa godeva di sempre più grande autorevolezza anche in ambiti tanto lontani dalle sue idee e dai suoi principi
» (PIER PAOLO OTTONELLO, Sciacca oggi, in IDEM, Sciacca. Interiorità e metafisica, Editore Marsilio,
Venezia 2007, p. 17).] Ingiusto, poi, perché ogni opinione, nel campo dell’opinabile, ha diritto di cittadinanza
nella “città dei filosofi”, ossia nell’agorà intellettuale (che necessariamente include il dibattito
teologico), alla sola condizione che si tratti di una opinione adeguatamente giustificata, capace cioè di esibire la
propria giustificazione epistemica (di opinione personale) con ragioni pertinenti. Quando una corrente di pensiero esclude intenzionalmente
dal dialogo - ovvero dal sereno confronto delle diverse opinioni e dall’onesta valutazione della giustificazione epistemica
che ciascuna di esse può esibire - chiunque si proponga di criticarne le tesi, essa rivela la sua vera natura, che è
quella dell’ideologia, con tutti i difetti dell’ideologia, a cominciare dal carattere essenzialmente pragmatico
(il pensiero strumentale) per finire con l’irrazionale tendenza a dogmatizzare l’opinabile. 3
[Vedi in proposito ANTONIO LIVI, “L’opinabile, il dogmatico”, in « Studi cattolici
», 24 (1980), pp. 763-765; 779-784.]
Anche se il linguaggio
che adopero può sembrare astratto e formale, io mi sto riferendo alla concreta vicenda storica delle opinioni critiche
espresse da Amerio con tanta audacia (sapendosi quasi solo contro tutti, nell’ambiente in cui operava), con tanta severità
(ma questo fa parte del rigore intellettuale dei veri filosofi) e allo stesso tempo con tanta spassionata ragionevolezza. Quello
che ho detto del dogmatico e dell’opinabile, delle opinioni e del dogmatismo, è importante in sé ma ancora
di più lo è se si tratta – come in questo caso – della logica della fede cattolica.
Nell’ambito della
fede, infatti, è assolutamente necessario e importante distinguere, da una parte, ciò a cui i cristiani debbono
credere, perché è dottrina autorevolmente proposta dal magistero ecclesiastico ut credenda (cioè come una
verità divinamente rivelata), e dall’altra ciò che i cristiani possono pensare (se personalmente si sono
fatti una certa opinione) o credere (se danno credito all’opinione di qualche autorità umana, filosofica o teologica).
Io chiamo “dogmatismo” l’ingiusta e deleteria tendenza di certe ideologie che, all’interno della comunità
cristiana, presentano una loro opinione teologica – opinione che va al di là, e talvolta contro, il dogma vero
e proprio - come assolutamente certa, e di conseguenza la impongono a tutto l’ambiente cattolico, arrivando addirittura
a spacciarla come la vera e unica fede, ossia come l’unico modo di essere veri cristiani.
Dico che si tratta di
una tendenza ingiusta e deleteria, e posso spiegare perché lo dico. Innanzitutto, è ingiusto, dal punto di vista
epistemico, sovrapporre la propria autorità umana, sia pure di teologi, all’unica autorità che può
essere riconosciuta in rapporto alla fede, quella cioè di Cristo rivelatore, e quindi quella della Chiesa fondata da
Cristo e animata dallo Spirito Santo, per cui in materia di fede l’autorità competente è rappresentata dal
magistero ecclesiastico, che possiede il carisma dell’infallibilità e può dichiara formalmente che una dottrina
è divinamente rivelata. In secondo luogo, è davvero deleterio, dal punto di vista pastorale, indurre i fedeli
a credere a ciò che non va creduto, a ciò che non è de fide divina et catholica, con l’inevitabile
conseguenza di non credere più a ciò che invece va creduto, fino a perdere addirittura la nozione di ciò
che dovrebbe essere creduto per essere veri membri della Chiesa e professare in essa l’una fides. 4
[Vedi in proposito ANTONIO LIVI, “Dogma e Magistero dopo il ‘caso Küng’”,
in « Studi cattolici », 24 (1980), pp. 171-177.]
Amerio è stato
fatto passare per uno che ha espresso opinioni contrarie alla fede: ma chi lo accusava di questo intendeva per “fede”
(arbitrariamente e ingiustamente) l’ideologia conciliaristica, improntata al progressismo teologico e al modernismo, dalla
quale è derivata quella falsa interpretazione della dottrina e delle direttive pastorali del concilio ecumenico Vaticano
II che il papa Benedetto XVI ha così chiaramente denunciato. 5 [Cfr. BENEDETTO
XVI, Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005: « Tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio
o – come diremmo noi oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione.
I problemi della ricezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra
loro. […] Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità
e della rottura” […]. Dall’altra parte c’è l’”ermeneutica della riforma”
».] Non è certamente un dogma o il dogma in quanto tale l’oggetto della critica di Romano Amerio (si
deve avere sempre presente che il Vaticano II non ha enunciato alcun nuovo dogma, perché i papi che lo hanno indetto
e presieduto hanno voluto che fosse un concilio di carattere pastorale) ma un’opinione teologica che – a rigor di
logica – non sembrava a lui (e non solo a lui) in stridente contrasto con il dogma vero e proprio, quello di tutti i concili
ecumenici fino al Vaticano I e dei due dogmi promulgati dai papi Pio IX e Pio XII. È appunto compito del filosofo esaminare
la congruenza e la compatibilità di una dottrina con un’altra dottrina, una tesi con un’altra tesi, un dogma
con un’opinione che pretenda di servire da corretta ipotesi di interpretazione del dogma stesso.
Questa allora fu l’intenzione
di Amerio: esporre il suo punto di vista sulla compatibilità della cosiddetta “teologia conciliare” (che
dogma non era né dal punto di vista formale né dal punto di vista materiale) con il dogma vero e proprio. Che
i testi conciliari dovessero essere in perfetta ed esplicita consonanza con i dogmi della tradizione ecclesiastica era l’intenzione
dei papi che convocarono e presiedettero il Vaticano II, ossia Giovanni XXIII e Paolo VI; tra l’altro, Paolo VI, nel suo
discorso di promulgazione della costituzione dogmatica sulla Chiesa (la Lumen gentium), aveva ribadito che con questo
documento, come con gli altri, la dottrina di sempre non era stata affatto cambiata: « Ciò che era semplicemente
vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito; ciò era meditato, discusso e in parte
controverso, ora giunge a serena formulazione ». Con queste parole la Chiesa ribadiva che i documenti del Concilio
sono documenti del Magistero, non ipotesi teologiche; e, se delle ipotesi teologiche sono presenti in quei documenti, esse diventano
atti del Magistero che le ammette come congruenti con il dogma (non certamente come tali da far pensare che il dogma non abbia
più valore o abbia cambiato di senso).
Restava da vedere, con
un esame rigorosamente logico, se una determinata espressione dottrinale, una volta divenuta oggetto di commenti e interpretazioni
da parte della “pubblica opinione” (quella che talora ha molto peso nella vita della Chiesa), risultasse effettivamente
chiara e chiaramente conforme alla verità dogmatica, o si potesse prestare a interpretazioni incompatibili
con la fede. Una volta ancora, è il magistero della Chiesa – non sono i teologi – ad avere l’ultima
parola in questione.
Lo ribadisce recentemente,
sempre in materia di ecclesiologia, un documento della Congregazione per la dottrina della fede, nel quale si legge: «
La vastità dell’argomento e la novità di molti temi continuano a provocare la riflessione teologica,
offrendo sempre nuovi contributi, non sempre immuni da interpretazioni errate che suscitano perplessità e dubbi
». 6 [Congregazione per la dottrina della fede, Risposte a quesiti riguardanti
alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa, 29 giugno 2007 (le sottolineature sono mie). Si noti l’esatta corrispondenza
linguistica, e quindi concettuale, tra queste parole del documento vaticano e le parole del Papa dianzi riportate; la logica
è sempre quella che porta a distinguere la dottrina dogmatica e le sue interpretazioni, e tra le interpretazioni quelle
del tutto opinabili dei teologi e quelle autorevoli del Magistero stesso, che può e deve dire quale interpretazione è
“giusta”.] Perplessità e dubbi che sono appunto ciò che ha mosso Romano Amerio a fare quel
polemico ma necessario raffronto analitico tra la dottrina dogmatica della Tradizione e la cosiddetta “teologia conciliare”:
non per offrire egli stesso una sua interpretazione teologica con la pretesa che fosse l’unica possibile e nemmeno la
più autorevole e quella definitiva, ma per dare il suo contributo di filosofo alla necessaria chiarificazione dei concetti
impiegati dai diversi documenti del Magistero e dai teologi. Alla fine, quello che Amerio voleva mettere ben in chiaro era che
egli – come credente e come filosofo, o meglio come filosofo credente – non poteva ammettere la possibilità
(che ai suoi tempi quasi tutti davano per scontata) che il Vaticano II avesse determinato l’abbandono, da parte della
Chiesa, della dottrina dogmatica fissata una volta per tutte dai Concili precedenti.
Che poi questa fosse
un’intenzione buona, anzi genuinamente cattolica, e non solo un’esigenza irrinunciabile della ragione filosofica,
lo conferma ai nostri giorni il discorso che fa il documento del Magistero or ora citato; per chiarire quale possa essere un’interpretazione
(di qualsiasi genere) erronea e quale sia la giusta interpretazione (teologica) dei testi conciliari, questo documento non può
che ribadire ancora una volta l’assoluta impossibilità di partire dal presupposto che la dottrina dogmatica della
Chiesa sulla Chiesa sia cambiata: « Il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto
ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente ». 7
[Ibidem]
Che qualche interpretazione
gravemente erronee ci sia stata nel cosiddetto post-concilio lo ha autorevolmente rilevato il papa Benedetto XVI, ma già
Paolo VI e Giovanni Paolo II avevano messo in guardia i cattolici da questo genere di interpretazioni. Amerio non ha fatto altro
che contribuire alla chiarezza in questo campo, ma dal suo posto (che non è quello di un Pastore ma quello di un semplice
fedele) e con le sue specifiche competenze (che erano quelle di un filosofo, sollecito della buona dottrina perché sinceramente
cristiano). Il suo lavoro – ripeto - poteva essere criticato nel merito ma non era giusto accusarlo di ribellione all’autorità
della Chiesa o di reazione conservatrice n ei confronti della “nuova teologia”. Posso anche ammettere che, da un
punto di vista puramente esteriore ed ecclesiale, le sue critiche potessero sembrare irrispettose: ma dal punto di vista che
conta, quello della ragione e della fede, le sue intenzioni erano quelle che devono guidare sempre il pensiero e l’opera
di un intellettuale che sia anche un sincero credente.
In realtà, allora,
l’opera di Romano Amerio, se compresa nella sua intrinseca validità speculativa e in rapporto dialettico con gli
orientamenti teologici del momento, dimostra quanto possa essere utile, per la vita della Chiesa, il contributo di una autentica
competenza filosofica quando è messo a servizio, non di una ideologia o di una prassi politica, ma della fedeltà
alla verità rivelata da Cristo. Intatti, la comunità cristiana non può fare a meno, in ogni determinato
momento della su storia, di una profonda e audace critica dei travisamenti della quale può soffrire la verità
rivelata a opera di arbitrarie interpretazioni dettate da dottrine filosofiche inammissibili e da interessi politici contingenti.
Ma spetta solo alla filosofia denunciare l’inammissibilità logica di una dottrina, ancora prima che il Magistero
eventualmente si pronunci in merito, così come spetta ancora alla filosofia distinguere, in una opzione politica, ciò
che corrisponde agli indiscutibili principi del diritto naturale da ciò che invece dipende da opinabili e contingenti
strategie locali.
Si tratta, in altre parole,
del problema di una corretta ermeneutica teologica, che non può essere affidata al momentaneo prevalere di una moda culturale
(contrabbandata con l’etichetta pseudo-teologica dei “segni dei tempi”) e tanto meno ai buoni propositi (quasi
sempre presunti) di chi si arroga una “funzione profetica”. L’ermeneutica teologica richiede sempre innanzitutto
la capacità di utilizzare le categorie della logica (quelle che consentono di cogliere il vero senso della dottrina proposta
infallibilmente dalla Chiesa, e quindi confrontarla con le diverse ipotesi di interpretazione), ed è questo il principale
contributo del filosofo cristiano alla vita della Chiesa. Senza questo contributo di rigore, capace di fornire il criterio per
discernere un’ipotesi compatibile con la fede da un’altra che compatibile non può essere, la teologia facilmente
manca al suo compito essenziale, che non è quello di giustificare un’ideologia umana o una prassi politica ma di
interpretare correttamente la fede trasmessa dagli Apostoli, al servizio del Vangelo e dunque per il vero bene comune degli
uomini.
* Decano della Facoltà di Filosofia e Docente di Filosofia della conoscenza
alla Pontificia Università Lateranense.