Com’è noto,
la definizione della verità quale adaequatio rei et intellectus non è stata coniata da Tommaso d’Aquino
ma dal filosofo ebreo Isaac Ben Israeli (IX-X sec.). Tuttavia il significato col quale essa si è imposta, al punto da
risultare probabilmente la formulazione più conosciuta che della verità sia mai stata data, dipende dalla fondamentale
elaborazione dovuta all’Aquinate. [...] E ciò appare in piena consonanza con lo spirito medioevale esplicitato
dalla fortunata espressione per la quale gli uomini del suo tempo si consideravano appena « nani sulle spalle dei giganti
» rispetto alle grandi figure dell’antichità, risultando capaci di realizzazioni notevolmente feconde pur
senza aspirare al crisma dell’originalità.
Tra le relazioni che
l’ente – ossia « illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum et in quod conceptiones
omnes resolvit » 1 [TOMMASO D’AQUINO, Quaestiones disputatae
de veritate [d’ora in poi: QDV], q. 1, a. 1. I passi citati – quelli in latino dell’Edizione Leonina e
quelli tradotti in italiano – si trovano in TOMMASO D’AQUINO, Le questioni disputate, vol. I, Edizioni Studio
Domenicano, Bologna 1992. Per gli altri passi, dove non ulteriormente specificato, si intende che l’eventuale traduzione
è nostra.] – intrattiene con ciò che può aggiungergli qualcosa, anche se non di estraneo ad
esso ma unicamente atto ad esplicitarne modi non espressi dal termine ens, vi è quella con l’anima.[...]
Essa conviene con l’ente
nella duplice linea delle proprie potenze appetitiva e conoscitiva. Derivano da ciò rispettivamente la bontà (convenientiam
entis ad appetitum) e la verità (convenientiam entis ad intellectum). Di quest’ultima Tommaso evidenzia
tre possibili definizioni: 1) conformità dell’intelletto con la cosa; 2) conoscenza vera; 3) verità delle
cose. Si tratta però sempre della stessa formulazione: adaequatio rei et intellectus. Nel primo caso essa è considerata
in se stessa (« id in quo formaliter ratio veri perficitur »), nel secondo si riferisce l’effetto
che produce (« secundum effectum consequentem »), nel terzo invece è in questione la
sua causa (« illud quod praecedit rationem veritatis et in quo verum fundatur »). 2
[Ibidem; cfr anche Summa theologiae, I, q. 16, a. 1.]
L’ultima delle
occorrenze appena esposte evidenzia il fondamentale tema del rapporto tra la verità logica, ossia quanto viene
realizzato dal pensiero dell’uomo in rapporto alle cose conosciute, e la verità ontologica, ovvero l’intelligibilità
delle cose in relazione alla loro causa creatrice; anche in questo caso entrambe risultano sottese all’unica definizione
tommasiana. Un passo del Commento al Perì hermeneìas di Aristotele delinea con precisione tale rapporto.
Giova dunque riportarlo per intero: « Le cose si possono rapportare all’intelletto in due modi differenti: 1)
come misura al misurato; così, ad esempio, si rapportano le cose naturali all’intelletto speculativo umano; difatti,
la nostra mente si dice vera in quanto si conforma alle cose e falsa in quanto discorda da esse. Per cui le cose non si dicono
vere per il rapporto che hanno con la nostra mente, come ritennero alcuni filosofi antichi, i quali facevano consistere la verità
solo in ciò che appare: se così fosse, proposizioni contraddittorie sarebbero contemporaneamente vere. Invece
le cose si dicono vere o false per il rapporto che hanno con l’intelletto non essenzialmente o formalmente ma efficientemente,
cioè in quanto destinate a generare un giudizio vero o falso nei propri riguardi [… ]; 2) secondariamente, le cose
possono essere rapportate all’intelletto non come misura al misurato ma come il misurato al misurante: ciò accade
rispetto all’intelletto pratico che è la causa delle cose. Onde il lavoro di un artigiano si dice vero quando realizza
l’idea che egli voleva realizzare; si dice invece falso quando non la realizza. Ora, siccome tutte le cose si rapportano
all’intelletto divino come gli artefici al loro artefice, ogni realtà si dicevera in quanto possiede una forma
che imita l’idea di Dio ». 3 [TOMMASO D’AQUINO,
In I Perì hermeneìas, lectio 3, nn. 28 s.]
[...] Dunque la
verità riguarda le cose prima rispetto all’intelletto divino che a quello umano, poiché al primo si rapporta
come alla propria causa (sicut ad causam), al secondo come al proprio effetto (sicut ad effectum). Le cose sono vere per adeguazione
a entrambi gli intelletti, quello divino e quello umano. Nel primo caso perché realizzano quanto predisposto dalla loro
causa creatrice; nel secondo in quanto vengono conosciute per quello che sono. Ne deriva che « la verità è
nell’intelletto divino primariamente e propriamente, nell’intelletto umano propriamente ma secondariamente, nelle
cose impropriamente e secondariamente ».4 [QDV, q. 1, a. 4.]
* * *
Tommaso
sostiene che la nozione di verità si trova nell’intelletto prima che nelle cose (« verum per prius invenitur
in intellectu quam in rebus ») 5 [QDV, q. 1, a. 3.] e che essa
si dice innanzitutto riguardo al giudizio (« de compositione vel divisione intellectus » e « de
diffinitionibus rerum secundum quod in eis implicatur compositio vera vel falsa ») e solo successivamente delle cose
in quanto adeguate all’intelletto divino (« de rebus secundum quod adaequantur intellectui divino
»). 6 [QDV, q. 1, a. 4.] Ciò non è affatto in contraddizione
con quanto asserito altrove sull’analoga rilevanza della verità ontologica, poiché è ovvio che essa,
dal punto di vista eminentemente gnoseologico, si può dire verità solo per analogia e secondariamente. Infatti
il realismo adottato da Tommaso impone che delle realtà di cui non si ha esperienza si possa parlare solo in senso derivato.[...]
Se l’esperienza
spinge per natura all’oltrepassamento di se stessa, rimane tuttavia che quanto non cade nel suo dominio può essere
conosciuto sempre e solo attraverso la mediazione di quanto da essa si è ricavato e imparato, secondo una compresenza
di ottimismo gnoseologico e di coscienza del limite che possiamo definire « mistero » 7
[Si veda A. LIVI, Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, Edizioni Ares, Milano
1990, pp. 164 s.] e che la tradizione filosofica e teologica medioevale ha elaborato nella forma della cosiddetta «
teologia negativa ». Con questo ovviamente non si nega che quanto è quoad nos più lontano
e appena in parte conoscibile, non costituisca fondamento di tutto; si nega però che esso possa costituire garanzia
e sostegno dell’attività del conoscere, come se si volesse fondare idealisticamente la conoscenza sul
« punto di vista di Dio », anziché realisticamente sull’esperienza. In tal senso il teologo
Andrea Milano sostiene che per Tommaso « entitas rei praecedit rationem veritatis. Questo significa che, se formaliter
cioè nella sua essenza, la verità in quanto verità si realizza come rectitudo sola perceptibilis,
tuttavia a essa è presupposta come condizione della sua possibilità o, meglio, come suo fondamento l’id
quod est e dunque l’ens, che è tale perché partecipa l’esse ». 8
[A. MILANO, Quale verità. Per una critica della ragione teologica, EDB, Bologna 1999, p. 133.]
L’attività
dell’intelletto procede dunque in piena autonomia da qualsiasi ordine precostituito, che solo a posteriori può
essere rintracciato, con tutti i limiti appena evidenziati. Ciò trova conferma peraltro nella natura dei suoi procedimenti,
per cui agendo al livello del limite costitutivo della contingenza di sé e delle cose da conoscere, l’intelletto
genera un sapere mai pienamente compiuto e irreformabile. In tal senso Josef Pieper ha adeguatamente rilevato che l’Aquinate
evita di fornire definizioni scolastiche e definitive della verità: « egli spiega dapprima la sua geniale concezione,
inserendola però poi, con singolare modestia, nel novero delle definizioni tradizionali essenziali, queste con quella
reciprocamente chiarendo e rafforzando. [...] Nessuna egli esclude, a nessuna riconosce esclusiva validità; anche se
non concordano affatto tra loro sic et simpliciter, tutte egli conferma nelle loro ragioni. S. Tommaso si colloca dunque
nella vivente continuità della tradizione umana nata nei tempi più remoti, e lascia da ultimo la strada aperta
indefinitamente alle successive indagini e scoperte, senza alcuna pretesa di aver raggiunta una comprensione definitiva
». 9 [J. PIEPER, Verità delle cose. Un’indagine sull’antropologia
del Medio Evo, trad. it. Massimo, Milano 19912, pp. 48 s.]
Ma se da un lato questo
significa che Tommaso non pretende di attribuire alcun carattere di immutabilità o di definitiva staticità alla
verità di volta in volta guadagnata tramite la ricerca filosofica, dall’altro non comporta tuttavia neanche derive
relativistiche. Lo spiega Antonio Livi, scrivendo che « il fatto che la verità sia una proprietà del
pensiero non significa – secondo la filosofia classica – che sia da intendersi come mera soggettività (è
così invece che è stata intesa da molti dop Descartes); infatti, per la filosofia classica il pensiero ha una
natura “intenzionale”, è relativo alle cose e ordinato a esse » .10
[A. LIVI, Verità del pensiero. Fondamenti di logica aletica, Lateran University Press, Città
del Vaticano 2002, p. 18.]
[...] Un sospetto di
relativismo potrebbe insorgere anche dinanzi al carattere riflessivo della verità logica, dovuto al fatto che essa non
si dà né con la conoscenza sensibile né mediante la semplice apprensione ma solo nel giudizio, e che in
questo va sempre considerata una dimensione riflessiva, seppur implicita. Difatti « se la verità
di un giudizio – sostiene Alejandro Llano – si cogliesse soltanto in un altro giudizio riflessivo, si avrebbe un
processo all’infinito, nel quale si perderebbe la verità e naturalmente la realtà delle cose ».
11 [A. LLANO, Filosofia della conoscenza, trad. it. Le Monnier, Firenze
1987, p. 39.] Lo stesso autore richiama un passo delle Quaestiones disputatae de veritate nel quale egli sostiene
a ragione che le due dimensioni di adeguazione e riflessione trovano posto insieme contro ogni accusa di « realismo
ingenuo » o, all’opposto, di relativismo. Lo riportiamo qui di seguito: « La verità
è nell’intelletto e nei sensi ma non allo stesso modo. Nell’intelletto infatti è come conseguente
all’atto dell’intelletto e come conosciuta dall’intelletto: essa infatti consegue all’operazione dell’intelletto
in quanto il giudizio dell’intelletto è della cosa in quanto è; ed è conosciuta dall’intelletto
in quanto l’intelletto riflette sul proprio atto, non soltanto in quanto conosce il proprio atto ma [anche] in quanto
conosce la proporzione tra il proprio atto e la cosa, [proporzione] che non può certo essere conosciuta se non è
conosciuta la natura dello stesso atto, la quale [a sua volta] non può essere conosciuta se non è conosciuta la
natura del principio attivo, che è lo stesso intelletto, alla cui natura appartiene di conformarsi alle cose: per cui
[alla fine si deve dire che] l’intelletto conosce la verità in quanto riflette sopra se stesso ». 12
[QDV, q. 1, a. 9 [parentesi del traduttore].]
Llano sottolinea ancora
che se la gnoseologia tomista è riuscita a far coesistere l’adeguazione e la riflessione, ciò è invece
spesso mancato nella contemporaneità, laddove il positivismo logico ha perduto gli aspetti riflessivi, mentre l’ermeneutica
ha teso a sottolinearli al punto da rischiare di dissolvere il polo complementare dell’adeguazione. 13
[A. LLANO, Filosofia della conoscenza, cit., pp. 41 s.]
* * *
[...]
La riflessione di Llano su questo carattere composito della formulazione tommasiana della verità ha comportato non a
caso uno spontaneo riferimento al contesto gnoseologico moderno, nel quale, com’è noto, essa è stata oggetto
di aspre critiche, dovute anche alla riduzione alla quale talvolta è stata effettivamente sottoposta al punto da divenire
mera Richtigkeit o « corrispondenza formale ». Oggi tuttavia appare sempre
più chiaro che pensarla in tal senso significa non rendere alcuna giustizia alla sua effettiva identità. Senz’altro
infatti l’adaequatio tommasiana non ha niente a che vedere con l’idea della conoscenza come « copia
» mentale di qualcosa di esterno. Questa è semmai una concezione materialistica della conoscenza, che da Democrito
ed Epicuro giunge a Lenin (con la « Abbild ») attraverso Hume (con la «
copy »)14. In merito vanno ricordate le parole di Gilson, il quale ebbe a scrivere
seccamente che « se è tutto qui ciò che l’idealismo moderno può
rimproverare al realismo medioevale, esso non si rende più nemmeno conto di ciò che possa essere un vero realismo
». 15 [É. GILSON, Lo spirito della filosofia medioevale,
trad. it. Morcelliana, Brescia 19986, p. 299.]
Anche la nota critica
di Heidegger si è fondata su un’incomprensione della formulazione dovuta all’Aquinate. [...] Si sa che il
filosofo tedesco ha addebitato a Platone la trasformazione della verità da un’originaria nozione di « disvelamento
» (alétheia), a suo avviso corretta, a una di « correttezza » (orthotes),
quindi di « conformità » (homoiosis, adaequatio) tra pensiero e
cose. Una simile nozione, a suo avviso, avrebbe giocato un ruolo determinante nell’evoluzione della civiltà occidentale
sino a determinare la teorizzazione del dominio delle cose attraverso la tecnica. In realtà, come molti commentatori
hanno evidenziato, 16 [Si vedano, tra i contributi più recenti, A. MILANO,
Quale verità, cit., pp. 133 s.; B. MONDIN, Il sistema filosofico di Tommaso d’Aquino. Per una lettura
attuale della filosofia tomista, Massimo, Milano 19922, pp. 114 s.; M. PANGALLO, La verità come "adaequatio
rei et intellectus" in Tommaso d’Aquino, in « Sensus communis », 1 (2000), p. 506. Si veda poi H.
SEIDL, La concezione platonica della verità nell’interpretazione di Heidegger, in questo volume.]
Heidegger ignora o non comprende che nell’ambito della formulazione tommasiana la sua concezione della verità quale
« disvelamento » trova posto anziché essere esclusa o ignorata. In tal
senso Vittorio Possenti ha sottolineato che « il non-essere nascosto, la disvelatezza e
infine l’evidenza rappresentano aspetti ineludibili del vero, insufficienti però se non sono completati e coronati
da un giudizio conforme al reale ». 17 [V. POSSENTI, La domanda
sulla verità e i suoi concetti, in ID. (a cura di), La questione della verità. Filosofia, scienze, teologia,
Armando, Roma 2003, p. 21.] E ha poi anche rilevato che persino presso lo stesso Heidegger, nell’opera tarda Tempo
ed essere si può leggere proprio che tale disvelatezza non è altro che condizione dell’adaequatio,
col che, dunque, a dispetto della notissima tesi del filosofo tedesco, si rigetta la loro mutua esclusione.
Un’altra nota critica
che ha colpito la formulazione della verità come adaequatio è quella che si basa sulla teoria della verità
come « coerenza ». Anche in questo caso si tratta di una concezione che può
essere ricompresa nell’ambito della formulazione dell’adaequatio, a patto tuttavia di espungerne gli elementi
di soggettivismo e di idealismo.
Lo sottolinea opportunamente
Livi, il quale sostiene che la verità è sempre « corrispondenza »
dal punto di vista dei fondamenti (ossia corrispondenza del pensiero con le cose), ed è sempre « coerenza
» dal punto di vista degli sviluppi logici (ossia non-contraddizione con le proprie premesse e con gli asserti
concomitanti). 18 [Cfr A. LIVI, Verità del pensiero, cit., pp.
26 s.] Ovviamente la « coerenza » è intesa in tal senso
come « interna al pensiero », poiché se pensata al modo di chi
se ne è servito per criticare la concezione della « corrispondenza »,
ossia in sostituzione del rapporto tra pensiero ecose, essa conduce dal realismo al puro idealismo, e dunque alla perdita del
rapporto con la realtà. Difatti non sussiste realismo senza presupporre che le cose e il mondo esistono indipendentemente
dall’intelletto che le conosce: la conoscenza per Tommaso si compie attraverso e a causa dell’assimilazione del
conoscente alla cosa conosciuta (« per assimilationem cognoscentis ad rem
cognitam, ita quod assimilatio dicta est causa cognitionis"), 19 [QDV,
q. 1, a. 1.] e la medesima convinzione è espressa da Agostino quando afferma che « la
mente dunque riesce a capire [le cose] nella misura in cui si adegua alla [loro] verità, la quale è immutabile
». 20 [AGOSTINO, De libero arbitrio, II, 12, 24.]
[...] Si noti che la
« realtà » a cui si riferisce la formulazione tommasiana
di adaequatio rei et intellectus è quella della « res »
e non quella dell’« obiectum », come si è preso a
dire in età moderna, da Descartes a Kant e oltre. Se difatti « res
» indica l’ente considerato nella sua essenza, « obiectum » costituisce invece ciò che
il soggetto ha già dinanzi a sé, la conoscibilità e la presenza della cosa al suo cospetto, insomma la
sua « rappresentazione » (Vorstellung). Tuttavia vale la
pena esorcizzare ogni possibile accusa di dominio razionalistico della realtà o di ingenuità che una simile affermazione
di realismo potrebbe attirare contro di sé. 21 [Il « realismo
ingenuo » comporta appunto che si ritengano effettivamente esistenti le cose in quanto indipendenti dal pensiero e
che esse possano essere conosciute così come sono (cfr E. AGAZZI, voce « realismo », in A. STRUMIA
- G. TANZELLANITTI [a cura di], Dizionario interdisciplinare di scienza e fede, Città Nuova – Urbaniana
University Press, Roma 2002).]
Un passo gilsoniano lo
fa nel migliore dei modi: « che ogni conoscenza consista nel cogliere la cosa così com’è, non significa
certo che l’intelletto colga davvero la cosa così com’è, ma che solo quando ciò accade si dà
conoscenza. Ancora meno questo significa che l’intelletto esaurisca con un solo atto il contenuto del proprio oggetto:
quanto la conoscenza coglie nell’oggetto è reale, ma il reale è inesauribile ». 22
[É. GILSON, Le réalisme méthodique, Téqui, Parigi s.d. (ma 1935), p. 97
[corsivo nostro].]
Se quindi sono esclusi
razionalismo o ingenuità, rimane però che la conoscenza deve di necessità riguardare la realtà esterna
all’intelligenza, la quale altrimenti « girerebbe su se stessa
». 23 [V. POSSENTI, Terza navigazione. Nichilismo e metafisica,
Armando, Roma 1998, p. 31.] Si pensi a riguardo al rapporto tra matematica e fisica: la prima costituisce un’astrazione
(dalla materia sensibile) rispetto alla realtà delle cose descritte dalla seconda (astrazione dalla materia
individuale). È appena il caso di richiamare alla mente che se la filosofia contemporanea ha potuto a ragione lamentare
del proprio passato un certo dominio razionalistico della realtà, ciò è stato dovuto proprio a un’esagerata
fiducia nell’applicazione della matematica alle scienze naturali, procedimento che pure aveva determinato il sorgere delle
scienze moderne.
Pensare la realtà,
conoscerla e intervenire su di essa sono tutti dati di evidenza immediata, ed essi si fondano proprio sulla possibilità
di conoscere le cose esterne all’intelligenza. Il rapporto effettivo tra pensiero ed essere è elemento fondamentale
e costitutivo, presupposto alla nativa esigenza umana di ordine e razionalità senza di cui non si darebbe alcuna riflessione
costruttiva, e che sin dal principio della storia della filosofia si identifica con l’esigenza della riduzione della caoticità
molteplice a un principio di unità (reductio ad unum). 24 [Ci si
consenta un rinvio a R. DI CEGLIE (a cura di), Pluralismo contro relativismo. Filosofia, religione, politica, Edizioni
Ares, Milano 2004.] Non a caso, una volta abbandonata la certezza connessa a quell’esigenza originaria, c’è
stato chi dalle postazioni teoretiche della cosiddetta « postmodernità
» ha teorizzato la dissoluzione della filosofia.
Le vicende del pensiero
contemporaneo hanno evidenziato a sufficienza che dall’esperienza scientifica può venire un aiuto nel respingere
gli eccessi del razionalismo così come un sostegno per evitare quelli appena accennati dello scetticismo. Si è
potuto a ragione sottolineare, in merito alla realtà dell’attuale dibattito filosofico, che « un
invito a rinnovarsi ma non a dissolversi le è provenuto dall’ambito della ricerca scientifica, in specie fisico-cosmologica,
dove sono gli scienziati stessi che pongono domande di ordine metafisico ». 25
[V. POSSENTI, Tommaso d’Aquino e la ricerca della verità, in « Sensus communis », 1 (2000),
p. 386.] Essi di certo non possono esimersi da un fondamentale rilievo epistemologico, in base al quale la conoscenza
scientifica non può negare i presupposti che le provengono dall’esperienza diretta delle cose perché non
può fare a meno di fondarsi su di essi. È questa la dialettica tra senso comune e conoscenza riflessa o scientifica
alla quale, in merito alla definizione della verità, tutto questo volume è dedicato. Nel
corso dell’Introduzione difatti si è sottolineata la stretta connessione tra senso comune, realismo e verità
. 26 [Cfr R. DI CEGLIE, Introduzione, in questo volume, pp. 11 s.]
Essa emerge con evidenza immediata laddove ci si chieda che cosa comunemente si intende per « verità
» ossia nient’altro che la rettitudine del pensiero nel riferirsi alle cose esterne ad esso. Realismo e adaequatio
sono imprescindibili e ineludibili: pienamente universali, valgono per il senso comune e per ogni ambito del sapere. 27
[Cfr V. POSSENTI, La domanda sulla verità e i suoi concetti, cit., p. 20.]
Già Parmenide
colse la crucialità del rapporto pensiero-essere e sostenne che la verità del pensiero si basa sull’essere
delle cose, ossia nel dire ciò che è e che non può non essere. Aristotele avrebbe poi rilevato che
« il vero è l’affermazione di ciò che
è realmente congiunto e la negazione di ciò che è realmente diviso ». 28
[ARISTOTELE, Metafisica, VI, 1027 b 21.] Agostino, Anselmo (rectitudo sola mente perceptibilis)
e Tommaso avrebbero tutti seguito la stessa linea, mentre le impostazioni « rappresentazionistiche
» di Descartes e di Kant avrebbero opposto i primi decisivi rifiuti alla concezione della verità come adaequatio.
Essa non poteva non diventare
problematica laddove si fosse dedotto l’essere delle cose dal pensiero: uno pseudo-problema in realtà, alla stregua
del cosiddetto « ponte », necessario – così
scrive Luigi Bogliolo – « per riprendere il perduto contatto
con la realtà “esterna” ». 29 [L. BOGLIOLO, La
filosofia cristiana. Il problema, la storia, la struttura, LEV, Città del Vaticano 19953, p. 105.] Pseudo-problema
appunto perché, secondo lo stesso autore, « suppone
un distacco tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Come se l’oggetto all’inizio del conoscere
giacesse al di là del soggetto, come avviene, a suo modo in Cartesio con il dubbio universale e l’invalicabile
abisso tra l’anima e il mondo e, più sistematicamente, in Kant con la dottrina delle idee a priori ».
30 [Ibid., p. 195.] Persa la connessione costitutiva e originaria
che è da constatare e non da provare – ha rilevato Gilson non senza ironia –, da Descartes in poi
l’esistenza del mondo esterno è divenuta oggetto di fede, poiché non è apparsa più evidente,
mentre ci si è rivolti a quella che perciò si è ritenuta l’unica possibile garanzia, ossia la fede
cristiana nel Dio buono che non inganna l’uomo; ma poi, con Berkeley, ci si è addirittura convinti che essendo
l’oggetto della fede estraneo a tali questioni, sarebbe risultato addirittura più ragionevole dubitare dell’esistenza
del mondo! 31 [Cfr É. GILSON, Réalisme thomiste et critique
de la connaissance, Vrin, Parigi 1939, pp. 13 s.]
Le tracce e gli effetti
di queste trasformazioni appaiono con certa evidenza nel mondo moderno e contemporaneo, al punto che ci pare pienamente condivisibile
questa riflessione del domenicano Giovanni Cavalcoli: « il
pensiero gnoseologico è tornato a quei tempi nei quali le scoperte di Platone e di Aristotele dovevano ancora avvenire.
Ciò che ci salva ancora è che per fortuna, grazie all’intervento del buon senso, certe concezioni “critiche”
o metafisiche contemporanee non vengono tradotte nella prassi e nella morale, nel qual caso ci sarebbe veramente da temere per
la sopravvivenza fisica dell’umanità ». 32 [G. CAVALCOLI,
Introduzione alla q. 1, in TOMMASO D’AQUINO, Le questioni disputate, ed. cit., p. 69.] In effetti,
non osiamo immaginare che cosa potrebbe esserne della vita etica e civile della nostra società una volta divenute correnti
concezioni quali ad esempio quella della verità fornita da Richard Rorty, per il quale essa è solo ciò
che resta di una conversazione tra amici quando ogni possibile obiezione risulti esaurita e non si abbia più voglia di
discutere .33 [Cfr R. RORTY, Consequences of Pragmatism, Harvester Press,
Hassok 1982, p. 165; ID., Science and Solidarity, in J.S. NELSON e altri (a cura di), The Rhetoric of the Human Sciences,
University of Wisconsin Press, Madison, WS, 1987, p. 46.]
Ma lo stesso Cavalcoli
fornisce senza volerlo quello che il lettore di questo libro può cogliere come l’antidoto efficace alle aberranti
prospettive richiamate e temute: ciò che l’autore chiama genericamente « buon
senso » va più precisamente nominato come « senso
comune », secondo cioè la storia delle vicende dell’immanentismo moderno che hanno provocato presso i
difensori del realismo classico la necessità di richiamare il valore cruciale di quelle fondamentali certezze spontanee
e universali su cui ogni sapere si edifica. 34 [Si vedano, in questo libro, R.
DI CEGLIE, Introduzione, e A. LIVI, Per un bilancio critico: il senso comune e le teorie sulla verità.
Si veda pure PH. LARREY, Il concetto di verità nella scuola analitica.] Che esista il mondo nel quale ci
troviamo, e che esistiamo noi stessi (le prime delle certezze del "senso comune" nella formulazione che ne
ha fornito Livi), 35 [Cfr A. LIVI, Filosofia del senso comune, cit.,
p. 7.] è certezza di cui per fortuna nessuna astratta teoria potrà mai privarci.
* * *
Il valore
della relazione tra pensiero ed essere, con tutto ciò che un autentico realismo suggerisce in merito all’eccedenza
permanente del secondo rispetto al primo, non può non comportare – come si è già sottolineato precedentemente
– un ampliamento della concezione della verità sul versante che nell’ambito della formulazione tommasiana
viene detto ontologico. Non possiamo evitare di accennare al fatto che si tratta della classica dinamica che regge la filosofia
cristiana.
[...] Seguendo l’insegnamento
di Gilson, che di essa si è segnalato come uno dei più acuti osservatori, possiamo sostenere che si può
parlare di filosofia cristiana quando, per le esigenze intrinseche alla fede cristiana e al suo cruciale principio di Incarnazione,
si ha a che fare con una vera e autentica filosofia, da svolgere quindi nell’autonomo esercizio delle proprie metodologie,
a patto però che, proprio per il rispetto di queste: 1) non si taccia e non si disconosca l’effettiva realtà
di fenomeni di portata macroscopica quali, per portarne un solo esempio, il ruolo della cultura cristiana nella formazione del
patrimonio culturale, spirituale e più particolarmente filosofico della nostra civiltà; 36
[Ci sia permesso un rinvio a R. DI CEGLIE (a cura di), Verità della Rivelazione. I filosofi moderni
della "Fides et ratio", Edizioni Ares, Milano 2004; ID., Étienne Gilson. Filosofia e Rivelazione,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2004. Un classico, tra gli altri, rimane in merito É. GILSON, L’esprit
de la philosophie médiévale (1932), trad. it. Morcelliana, Brescia 19986.] 2) non si taccia il valore
delle evidenze originarie che fondano ogni riflessione, ossia, per dirla in breve, non si pretenda di fare a meno del senso
comune, o, il che è lo stesso, di un vero realismo, che è parso effettivamente costituire da sempre la naturale
vocazione filosofica dei cristiani. 37 [« È un fatto degno di
nota, mi sembra, che tutte le grandi epistemologie medioevali siano state ciò che noi chiameremmo oggi dei realismi.
Dopo tre secoli e più di speculazione idealistica, la neo-scolastica si presenta oggi ancora come un neo-realismo, rifiuta
di seguire il metodo preconizzato da Descartes, o, se le accade di seguirlo, si sforza di evitarne le conclusioni »
(É. GILSON, Lo spirito della filosofia medioevale, trad. it. cit. p. 293).]
Non è affatto
casuale, in tal senso, che la nozione di verità come adaequatio sia fiorita proprio nel pieno di un contesto filosofico
che non dire cristiano sarebbe perlomeno fuorviante: questa è una delle tante evidenze che la storiografia fa risaltare
(e che ogni metodo che si dica scientifico non può non imporre all’attenzione del filosofo), insieme a quella più
generale per cui, pur proclamandosi con inaudita pretesa come manifestazione dell’unica Verità, [...] la Rivelazione
cristiana ha fecondato nel contempo la cultura occidentale, che senza riferimento a un tale rapporto risulterebbe irriconoscibile.
Secondo un paradosso rilevato già da Platone (non si può cercare quanto si ignora del tutto), 38
[Cfr PLATONE, Menone, 80 e.] essa ha promosso la coesistenza da un lato di percorsi autonomi
sul piano eminentemente razionale, dall’altro di una Rivelazione divina, che, in quanto tale, si presenta come Verità
già data. Due brevi considerazioni riguardanti lo specifico della formulazione della verità elaborata dall’Angelico
potrebbero forse intervenire a sostegno di quanto appena richiamato.
[...] La prima. Nella
prospettiva di una filosofia cristiana a carattere realistico quale quella tommasiana, la verità morale si basa sulla
verità ontologica, poiché l’uomo deve adeguarsi ad essa al fine di realizzare pienamente la propria natura.
Dalla realtà esterna e che lo precede egli è sollecitato in modo stringente e ineludibile al richiamo di una legge
morale, la legge naturale, alla quale è chiamato ad adeguarsi per il proprio bene, ossia per la piena realizzazione della
propria natura. Si noti che buona parte di queste affermazioni non aggiungono molto al realismo aristotelico dell’entelecheia.
È però altrettanto evidente che nel contesto culturale cristiano esse conducono immediatamente a ritrovare nelle
cose un ordine già dato, trascendente, normativo, buono, che anzi è esso stesso Bene (origine della norma il cui
rispetto genera il bene), Volontà (perché il progetto al quale chiama non è casuale ma preordinato a un
fine) e dunque, in ultima analisi, Dio Persona.
La seconda. È
l’ordine della realtà, grazie al quale essa è pensabile e indagabile, a generare dagli albori
del pensiero filosofico l’esigenza della reductio ad unum. Il Principio di unità cercato dalla filosofia
è dunque sinonimo di semplicità, per cui Tommaso vede in Dio l’unità di Pensiero ed Essere,
i quali invece nella realtà esperibile risultano distinti. La
conclusione tommasiana ci pare però connessa anche a un altro determinante retroterra: prima ancora della ricerca filosofica,
e notoriamente senza paragoni nella storia delle religioni, il Principio unico di tutte le cose è annunciato dalla Rivelazione
al popolo ebraico, e ciò nella forma del « Santo di Jhwh », ossia in quella dialettica di vicinanza/lontananza
che la tradizione filosofica e teologica cristiana svilupperà in seguito con l’appellativo di « teologia
negativa ». Di tale dialettica dicibile/indicibile ci sembra che la dottrina della verità come adaequatio
si nutra non poco, sicuramente riguardo all’identità in Dio di Pensiero ed Essere, segno di assoluta semplicità:
esso risulta difatti un dato chiaramente inaccettabile (perché incompatibile con l’esperienza) se non nella linea
suggerita della suaccennata dialettica.
Solo alla luce di questa,
nel continuo richiamarsi di apofasi e di catafasi, può risultare comprensibile in che senso la filosofia
cristiana di Tommaso, in conformità alle irrinunciabili esigenze dell’esperienza, del senso comune e della ricerca
filosofica, possa giungere a dire di Dio, e quindi della Sua stessa Persona, che è Verità. 39
[Cfr TOMMASO D’AQUINO, Liber de veritate catholicae fidei, I, 60-61; Summa theologiae,
I, q. 16, a. 5.] Cosa che peraltro richiama anche un’altra considerazione, relativa non solo al piano delle affermazioni
filosofiche ma anche a quello propriamente teologico-dogmatico: su Dio si dice effettivamente la verità (filosofica)
quando ci si rende conto di non poterlo conoscere da soli e direttamente; ma si dice anche la verità (teologica) quando
si afferma che Egli è come l’ha raccontato (enarravit) il Figlio, da Lui inviato per rivelare il volto e
il cuore del Padre, che Egli solo contempla direttamente e comprende perfettamente. In ambedue i casi il criterio seguito è
quello dell’« adaequatio ».