Le Lezioni
friburghesi (Freiburger Vorlesungen) di Martin Heidegger (del 1931-32) 1 [M.
HEIDEGGER, Gesamtausgabe, vol. 34: Vom Wesen der Wahrheit. Zu Platons Höhlengleichnis und Theätet, Klostermann,
Francoforte 1988 (19972).] nelle quali si interpreta il racconto della caverna di Platone appaiono nell’edizione
Klostermann con il titolo Sull’essenza della verità (Vom Wesen der Wahrheit). Alle due parti principali
dedicate all’interpretazione del testo platonico Heidegger premette delle Considerazioni preliminari (Einleitende
Betrachtungen). Esse introducono il lettore alla sua prospettiva esistenzialistica nella quale si inscrive l’interpretazione
di Platone. Intendo dedicarmi subito ad esse, poiché espongono i presupposti del pensiero heideggeriano sull’essenza
della verità, per procedere successivamente ad esaminarne l’interpretazione del racconto della caverna e la connessa
concezione della verità.
1. Le Considerazioni preliminari di Heidegger
e la sua comprensione della verità.
1.1. La verità universale e superficiale delle cose della tradizione
e la verità esistenziale di Heidegger relativa al vivere concretamente le faccende umane.
Heidegger
distingue subito – quanto all’essenza di una cosa, che egli chiama con Husserl « faccenda » (Sache)
– tra una opinione previa superficiale, come essa si intende da sé (oberflächliche, selbstverständliche
Vormeinung), e una comprensione profonda esistenziale L’opinione previa superficiale, della quale si accontenterebbe
la tradizione, comprende l’essenza delle singole cose in modo concettuale universale (ad esempio il concetto astratto
universale di « tavola" ricavato dalle singole tavole), mentre la comprensione esistenziale si acquisisce
nelle faccende concrete della vita. Perciò Heidegger rigetta il metodo tradizionale della definizione che, comportando
concetti astratti universali di genere e di differenza specifica, si allontanerebbe dall’esperienza esistenziale delle
nostre faccende della vita.
A questa impostazione
heideggeriana sorgono a mio avviso le seguenti obiezioni.
1) La prima concerne
lo spostamento della conoscenza umana dalle cose (lat.: « res", ted.: « Dinge »,
ingl.: « things ») alle faccende (ted.: « Sachen », ingl.: « matters
», « affaire »), con cui si perde il realismo oggettivo. Infatti le cose, nella nostra coscienza
reale e per così dire quotidiana, esistono indipendentemente da noi, con la loro essenza sulla base della quale possiamo
nominarle per mezzo di determinati concetti. Senza questo rapporto determinato di ciascuno di noi con gli altri e con le cose
non potremmo vivere neppure un giorno. La parola tedesca « Sachen », invece, ha una connotazione più
soggettiva, connessa con gli interessi pratici di ciascuno. Anche l’aggettivo « sachlich » non
significa « oggettivo » in contrasto con « soggettivo » ma piuttosto «
necessario », « inevitabile », in contrasto con « facoltativo
», « arbitrario ». Lo spostamento dalle cose alle faccende che conduce alla perdita della conoscenza
dell’essenza e della verità oggettiva, si compie sulla base del soggettivismo moderno che manca presso i filosofi
antichi, almeno in Platone e Aristotele; il che non permette, però, di deprezzare la filosofia antica (e medioevale)
in quanto « oggettivismo », come fa Edmund Husserl, il quale pone la « realtà
» primariamente nella coscienza intenzionale del soggetto per costituire un mondo della vita (Lebenswelt) e delle
faccende. Husserl si dedica ai « fenomeni psichici » per stabilire determinate unità di senso
essenziale costituite dalle intenzioni pratiche degli uomini, e si richiama a una « intuizione dell’essenza
» (Wesensschau). Tuttavia, questa « essenza » non ha più nulla a che fare con
l’essenza nel significato realistico tradizionale.
Platone ricerca l’essenza
delle cose non dal lato del soggetto ma da quello dell’oggetto. Nel dialogo Parmenide egli distingue tra il concetto
universale (nohma) nell’intelletto e l’essenza (ouvsia), partendo dal livello delle concrete cose
sensibili per arrivare poi al livello intelligibile, separato da quello sensibile. Platone non è « idealista
» ma realista, come Aristotele, poiché orienta la conoscenza all’essenza delle cose in modo ricettivo e non
creativo.
2) In Platone, come anche
nella tradizione che lo segue, la conoscenza dell’essenza delle cose non è, come suppone Heidegger, una mera universalizzazione
di casi particolari, col fine di raccogliere gli stessi in un concetto universale da « sostanzializzare
» (« ipostatizzare »), poi, come « essenza ». Piuttosto
la conoscenza platonica dell’essenza si dirige alle cause costitutive delle cose, soprattutto alla causa formale che Platone
chiama « idea ». La dimensione delle cause, però, è soppressa dai pensatori
moderni, da Kant (che sostituisce le cause reali con le leggi del pensare), da Husserl (che sostituisce le cause con unità
di senso intenzionato), da Heidegger, che elimina le cause dal suo pensiero, attribuendole al campo delle scienze naturali,
le quali, a suo avviso, « non pensano ».
3) Il rifiuto heideggeriano
della conoscenza in concetti universali come « superficiale » e inadatta a dischiudere l’essenza
delle faccende, è originata dal ben noto problema dell’opposizione tra l’universale e il particolare che,
visto storicamente, era sorto già con Platone. Nei tempi moderni il problema si allarga a quello tra l’astratto
e il concreto, nonché tra la teoria e la prassi, tra ciò che non importa per la nostra vita e ciò che invece
importa molto. Il modo in cui Platone si è occupato del problema lo induce alla summenzionata « separazione
» delle cose in due mondi, quello delle cose particolari sensibili e quello delle loro essenze o idee intelligibili universali.
Aristotele ha criticato la « separazione » platonica e risolto il problema in modo valido e
definitivo: egli assume con Platone le essenze delle cose e ribadisce che esse sono conoscibili e definibili soltanto attraverso
concetti universali, ma corregge il suo maestro per un aspetto importante: Platone identifica il modo secondo cui l’essenza
è dalla parte delle cose con il modo secondo cui l’universale è nell’intelletto, cioè come
« l’uno al di sopra del molteplice », il che è falso, come comprende Aristotele,
perché in verità l’essenza si trova in ciascuna delle molte cose.
S. Tommaso d’Aquino
seguirà lo Stagirita constatando che come l’universale è nell’intelletto, così l’essenza
non è dinanzi alle cose – come « l’uno sopra il molteplice » –
ma si trova in ciascuna di esse.
Secondo la metafisica
tradizionale l’essenza delle cose non si trova dalla parte dell’universale (che è nell’intelletto)
ma da quella delle cose singole, essendo in ciascuna. Tuttavia viene conosciuta attraverso concetti universali che si riferiscono
all’intelligibile essenziale nelle cose sensibili particolari. La soluzione aristotelico-tomista del problema degli universali
non era più nota nei tempi moderni. Si è perciò perpetuata la separazione platonica dei due mondi, quello
sensibile e quello intelligibile, presso i diversi pensatori, Descartes, Kant, i tedeschi idealisti, i quali vi si sono confrontati
in modi diversi, ma sempre dando priorità o al singolare o all’universale.
4) Heidegger sostituisce
la conoscenza universale (che ritiene vuota e lontana dalla vita concreta) con l’esperienza, il che corrisponde all’empirismo
moderno e addirittura lo supera, cambiando cioè l’esperienza (che è rivolta alle cose fuori del soggetto)
in un « vivere » (erleben) fenomeni di faccende nella coscienza del soggetto. Egli
opera questa trasformazione sotto l’influsso della fenomenologia di Husserl (influenzata, a sua volta, dalla psicologia
di Franz Brentano) e della teoria delle visioni del mondo (Weltanschauungen) di Wilhelm Dilthey. Il «
vivere » contrasta sempre con l’universale, essendo connesso col « corporalmente
concreto » (das leibhaft Konkrete), e mira a unità intenzionate di senso che vanno analizzate e descritte
attraverso una fenomenologia esistenziale.
Tali analisi hanno certamente
il loro valore per le due discipline summenzionate ma non riguardo alla questione filosofica dell’essenza delle cose e
dell’uomo, perché questa non concerne la ricchezza dei contenuti vissuti psichicamente (sentimenti, affetti e simili)
bensì il formale essere tale (esse tale) intelligibile delle cose, in vista delle loro cause costitutive, che
vengono comprese soltanto dall’intelletto attraverso concetti universali. L’essenza delle cose e dell’uomo
non è in nessun modo un « vissuto » che cambia, ma riguarda semplicemente
le cause del loro essere tale alla luce dell’identità ontologica secondo cui ciascun ente è ciò che
è: l’albero un albero, il cane un cane, l’uomo un uomo.
5) Quanto alla definizione
classica, essa non è una « opinione » ma il risultato di una operazione
scientifica che separa metodicamente l’essenziale dall’accidentale, l’identico dal mutevole, arrivando alle
cause costitutive, che Heidegger ignora. Non si può penetrare oltre nell’intimo di una cosa. Al contrario, nel
pensiero del filosofo tedesco i vissuti esistenziali delle cose rimangono notevolmente esterni ad esse, tanto più che
si riducono a faccende che riguardano unicamente il soggetto conoscente.
1.2. La critica heideggeriana alla concezione tradizionale di verità
come « adeguamento » ossia « rettitudine » della proposizione
rispetto alle faccende.
Heidegger declina la
propria critica generale alla concezione tradizionale
dell’essenza delle cose in quella della verità, e rigetta la definizione tradizionale della verità come
« adeguamento » ossia "rettitudine della proposizione rispetto
alle faccende »; egli la critica ritenendola opinione previa (Vor-meinung) di vuota universalità.
Vorrei però osservare
che secondo la dottrina tradizionale (aristotelico- tomista) – che è tutt’altro che mera «
opinione » (si veda sopra) – la verità primariamente non è nella proposizione,
neppure nella sua forma logica, come vuole Heidegger, ma solo secondariamente. A suo avviso, « perché
tutto viene spiegato formalmente senza fondo, noi non otteniamo, con la concezione della verità come concordanza, nulla
da intendere. Ciò che appariva come qualcosa di evidente è totalmente oscuro ». 2
[M. HEIDEGGER, Vom Wesen der Wahrheit, cit., p. 3.] Nella tradizione, però, la verità
si trova primariamente nel giudizio dell’intelletto, e questo viene determinato dai dati presenti nelle cose, e quindi
dall’essenza, con una "verità ontologica" insita in esse. Da ciò risulta la definizione della
verità del giudizio come « adeguamento tra l’intelletto e la cosa
», più precisamente come adeguamento dell’intelletto alla cosa, in tal modo che il giudizio dell’intelletto
rispetto alla cosa sia vero quando il suo contenuto (il conosciuto) sia adeguato ai dati della cosa.
Heidegger costata un
circolo vizioso nella concezione tradizionale di verità, come egli l’interpreta: una proposizione concorda con
la cosa ed è vera, se retta ossia concordante, e, dall’altro lato, è retta ossia concordante, se vera: «
Il conosciuto è il vero. Proprio ciò che concorda con lo stato delle faccende.
La proposizione concorda con il conosciuto nella conoscenza, dunque con il vero; il vero? Così la concordanza della proposizione
è il concordare con un concordante? Una definizione magistrale! Verità è concordanza con una concordanza…
e così via ». 3 [ibidem] Tuttavia, tale interpretazione
che considera i due concetti alla stregua di meri sinonimi è sbagliata; infatti, nella definizione tradizionale, il «
retto » significa l’adeguamento dell’intelletto alla cosa –
non del conosciuto alla proposizione! – e in tal modo il « vero »
si spiega con una relazione conoscitiva causale tra oggetto e soggetto, che non risulta ancora dischiusa ed evidente nell’opinione
previa su di esso. Ciò sfugge a Heidegger, perché ha ridotto la cosa alle faccende e perché ignora la dimensione
causale (lo stesso vale per Husserl: difatti le cause non si presentano mai come « fenomeni
», ma devono sempre essere dischiuse dall’intelletto). Nell’adeguamento dell’intelletto alla cosa s’incontrano
due istanze, l’una determinabile e l’altra determinante, l’una come « misurata
» e l’altra come « misura ».
In prospettiva storica,
la riflessione in merito alla relazione conoscitiva causale tra oggetto a soggetto si è compiuta, per la prima volta,
nell’epistemologia di Platone (Teeteto) e di Aristotele (Analitici secondi), ed è stata provocata
dalla scepsi dei Sofisti, i quali mettevano in questione la verità oggettiva delle cose. Molto nota è la tesi
di Protagora secondo cui l’uomo sarebbe la misura di tutte le cose. Aristotele (Metafisica, V 15) ha assunto da
questa tesi l’immagine della « misura » e ha definito la
conoscenza come relazione unilaterale tra soggetto e oggetto, correggendo, però, Protagora in questo modo: non è
il soggetto la misura delle cose bensì sono le cose la misura del soggetto.
La concezione tradizionale
della verità come rettitudine cioè come adeguamento dell’intelletto alla cosa dischiude, dunque, una causalità
nella relazione tra soggetto e oggetto, cosicché realisticamente la conoscenza dell’intelletto viene determinata
dai dati intelligibili nelle cose, e questi ultimi si basano sulle cause costitutive delle cose stesse.
1.3. La concezione heideggeriana ermeneutico-fenomenologica della verità in contrasto con quella tradizionale.
Heidegger
sviluppa, com’è noto, una concezione completamente nuova di verità esistenziale, come un avvenimento («
Geschehen », che rimanda alla « Geschichte
», storia) ossia un accadimento (« Ereignis », che
si associa a « Erlebnis », vissuto) nel pensare, come attività
dello spirito, creatrice nelle opere culturali, storiche, nonché poetiche della lingua. Il modo in cui si formano le
cose-faccende in queste attività spirituali e il loro apparire quale rivelazione di un senso per la vita, intenzionato
dal pensiero, è la loro verità. Il pensiero qui non è razionale argomentato, ma è piuttosto un sentire-indovinare-
presagire, in stretta connessione con l’immaginazione, il sentimento e le tonalità psichico-emozionali. I contenuti
di questo pensiero sono, in contrasto con la chiarezza concettuale razionale, l’oscuro o il nascosto nella forza di un
destino ignoto, che domina nella natura e nelle faccende umane della storia. Heidegger cerca di trovare un «
cenno » (Wink) della sua concezione nell’antichità greca,
usando da un lato la semplice etimologia di alétheia – ossia il non essere nascosto, l’essere scoperto,
rivelato – e interpretando dall’altro alcuni testi di poeti lirici e tragici nonché dei filosofi presocratici
Eraclito e Parmenide.
Tuttavia, fare etimologie
non è fare filosofia. E Heidegger vi si accosta a partire dalla propria prospettiva filosofica, con l’intenzione
di depotenziare l’universale, che è frutto di un grande sforzo dell’intelligenza, quello di elevare concetti
dal livello di significati sensibili concreti al livello di significati intelligibili astratti, al fine di esprimere contenuti
di conoscenze universali dell’intelletto. L’etimologizzare è percorso inverso, si svolge dall’alto
al basso, dall’astratto universale al concreto particolare. Certamente l’etimologia ha il suo valore se serve ad
apprezzare i significati astratti universali rispetto a quelli originari concreti, ma non se viene utilizzata per disprezzarli.
Inoltre il pensiero heideggeriano, in quanto cerca la filosofia nei poeti greci e constata che la metafisica sarebbe finita
già con Platone ed Aristotele , 4 [Si veda M. HEIDEGGER, Gesamtausgabe,
vol. 40: Einführung in die Metaphysik, Klostermann, Francoforte 1983.] rivela di aver introdotto un nuovo
modo di « filosofare » che non ha più nulla a che
fare con la filosofia classica, come si presenta nella metafisica di Platone e di Aristotele in una prima forma iniziale vigorosa
e fertile.
Gran parte del pensiero
heideggeriano si definisce solo grazie al contrasto con la metafisica tradizionale spogliandone i concetti principali –
l’ente, l’essere, l’essenza, la verità ecc. – del loro proprio significato, per riempirli con
nuovi significati di tipo esistenziale, e dunque totalmente estranei ad essi.
Questo procedimento viene
applicato anche al concetto classico di verità, alétheia. Nella filosofia greca essa presenta un lato soggettivo,
secondo cui l’intelletto cerca di scoprire qualcosa di vero nelle cose, ma anche un lato oggettivo, secondo cui nelle
cose c’è qualcosa di nascosto e di intelligibile, di vero e di essenziale, dietro i fenomeni sensibili accidentali.
In Husserl e in Heidegger questi fenomeni delle cose si riducono a fenomeni psichici di faccende, l’essenziale diviene
un senso per la vita, costituito da intenzioni del soggetto, il vero si trasforma in un apparire dei fenomeni che rivela un
destino storico-culturale del pensiero umano. Peraltro, dal punto di vista storico, nel pensiero di Heidegger confluiscono diverse
posizioni di pensatori moderni, cioè di Kant, Fichte, Hegel, Kierkegaard, Nietzsche, Dilthey, Husserl ed altri. Tuttavia
il mio compito non è qui spiegare questo aspetto, ma limitare il mio studio ad Heidegger e alla sua interpretazione dei
testi antichi.
1.4. L’interpretazione heideggeriana del frammento di Eraclito:
« La
natura ama nascondersi ».
Per
mostrare che la sua concezione esistenzialistica si sarebbe quasi annunciata nei Presocratici, Heidegger sceglie il frammento
di Eraclito che suona così: « La natura ama nascondersi
» (é physis...kiptestai). 5 [In H. DIELS - W. KRANZ, Die
Fragmente der Vorsokratiker, B 123.] Egli si attribuisce il merito di prendere sul serio i testi dei Presocratici,
contro un razionalismo moderno che li trascurerebbe comridicoli. 6 [M. HEIDEGGER,
Vom Wesen der Wahrheit, cit., p. 15.] Certamente, direi, lo studio dei Presocratici oggi è lodevole, ma
a patto che ci si confronti con l’autentica prospettiva dei loro testi. Heidegger invece attribuisce ad essi la sua propria
intenzione. E fa uso di un’ermeneutica che è più di un metodo interpretativo, e che anzi si presenta come
una nuova forma di filosofia.
Partiamo dalla interpretazione
tradizionale e corretta che legge il frammento nel contesto della principale intenzione di Eraclito, presente anche negli altri
frammenti, quella cioè di cercare dietro i fenomeni, percepiti dai sensi ingannevoli, il principio (arché),
la causa essenziale delle cose naturali che si dischiude soltanto alla ragione (lógos) in modo sempre vero.
La stessa intenzione
manifestano, del resto, gli altri Presocratici come Empedocle e Anassagora. Mentre, però, questi trovano il principio
in elementi molteplici, Eraclito lo trova nel fuoco che caratterizza, poi, con la ragione (lógos).
In tal modo Eraclito
riflette – ed è la prima volta che accade – anche su quell’affinità che esiste tra la facoltà
conoscitiva, la ragione (lógos), e le cose, alle quali inerisce una certa ragionevolezza o intelligibilità.
Questo principio è,
all’inizio, nascosto ai sensi e deve essere dischiuso man mano dalla ragione. « La
natura » che « ama nascondersi » significa
nel testo chiaramente il principio immutabile da ricercare, non le cose naturali concrete che si presentano ai sensi in continuo
mutamento.
L’interpretazione
di Heidegger non coglie questa intenzione di Eraclito perché ignora la dimensione causale (aliena dal suo pensiero, come
già detto). Nel frammento in questione egli scambia « la
natura » per « l’ente in quanto tale »,
cioè per tutte le cose. Tuttavia ciò non è corretto, per due motivi: 1) non si deve adoperare l’espressione
aristotelica « l’ente in quanto tale » per
Eraclito, poiché questi vede le cose naturali soltanto in movimento, non « in
quanto enti »; il loro essere costante per Eraclito non è che un’apparenza sensibile. Solo Parmenide
farà attenzione al fatto che l’essere delle cose non è un loro aspetto sensibile bensì intelligibile,
cioè comprensibile unicamente con l’intelletto; 2) tutta la filosofia greca parte dalle cose naturali come date
per evidenza. Perciò è chiaro che « la
natura » che « ama nascondersi »
designa quel principio ricercato nelle cose che la ragione tenta di rendere palese al fine di conoscerlo.
Heidegger interpreta,
poi, il testo eracliteo in modo che « all’uomo
sia necessario e possibile accingersi a strappare l’ente dall’essere nascosto, recandolo all’essere non nascosto
e, in tal modo, a porre se stesso nell’ente non nascosto ». 7 [Ibid.,
p. 13.] Questa interpretazione però introduce il soggettivismo moderno nel pensiero dell’autore antico in
modo tale che il soggetto fa apparire l’ente – cioè le cose naturali – nell’essere che avviene
nel suo pensare. Di più, questo apparire o rivelarsi dell’essere diventa l’essere uomo e insieme l’avvenimento
della verità: « La alétheia, il
non essere nascosto, nel quale l’essere nascosto dell’ente deve trasformarsi attraverso il filosofare, non è
una cosa qualsiasi o persino una proprietà di una proposizione, o un cosiddetto valore, ma è quella realtà,
quell’avvenire, al quale conduce solamente la via (e odós), della quale allo stesso modo uno dei più
grandi filosofi antichi [Parmenide, fr. 1,2], dice che essa “corre fuori dei sentieri soliti degli uomini” ».
8 [Ibidem.]
Tale svolta soggettivistica
moderna è totalmente aliena dall’autore antico che difatti non ne dà segno alcuno. Al contrario, secondo
Eraclito, le cose naturali, nel loro movimento, sono date in modo evidente, e la ricerca filosofica mira al principio immutabile
delle cose che sta oltre i fenomeni sensibili, che non appare, e che è compito della ragione rendere palese. Questa via
del filosofo è completamente diversa da quella degli uomini che guardano le cose soltanto con i sensi, e che non impegnano
la ragione adatta di per sé alla ricerca del principio.
2. L’immagine platonica della caverna:
interpretazione tradizionale.
Prima
di passare all’interpretazione heideggeriana dell’immagine della caverna di Platone (Repubblica, VII), mi
pare necessario ricordare quella tradizionale, al fine di procedere successivamente a confrontare l’una con l’altra.
Bisogna rendersi conto che per Platone l’importanza della sua metafisica risiede nella sua teoria filosofica, da lui caratterizzata
nella stessa Repubblica come « scienza dialettica
», che si dispiega in concetti universali, e alla quale l’immagine si aggiunge soltanto come una illustrazione.
Heidegger, invece, vede nell’immagine l’unica espressione autentica per una filosofia poetica come la sua, e di
ciò intende trovare un cenno (einen Wink) in Platone.
2.1. Distinzione tra conoscenza sensitiva, opinione
e conoscenza intellettiva,
nonché tra apparenza e verità.
Per
Platone la distinzione (preparata già dai Presocratici) tra i fenomeni sensibili e le cause essenziali intelligibili
è fondamentale. Ad essa corrispondono due livelli conoscitivi, quello sensitivo e quello intellettivo. Il compito di
un progresso della conoscenza delle cose consiste proprio nel passaggio dall’uno all’altro livello, mentre memoria,
immaginazione, opinione ed esperienza rappresentano un livello intermedio tra i due. Separando dalle cose sensibili le cause
costitutive, le « idee », Platone presenta due mondi, quello sensibile e quello intelligibile delle idee.
Essi sono rappresentati dalla caverna sotterranea e dal mondo terrestre alla luce del sole. Inoltre, alla prima idea che sovrasta
le altre, cioè all’idea del bene, corrisponde il sole stesso. Le conoscenze delle cose empiriche sono vere se orientate
alle idee, ai principi delle scienze. Il sole è la fonte ultima di ogni conoscenza vera. La luce del sole è il
simbolo della verità nella quale l’intelletto considera le cose secondo la loro essenza.
2.2. Passaggio dell’intelletto dal sensibile accidentale all’intelligibile essenziale,
fino al principio trascendente del bene e del vero.
Per
comprendere adeguatamente l’immagine in questione è dunque necessario avere presente la dottrina presentata in
Repubblica, IV-VI. Essa espone l’intero percorso delle scienze fino alla « dialettica"
metafisica delle idee che i futuri governanti (« guardiani ») devono studiare prima di accedere agli
uffici politici. Nel percorso si compie quel passaggio summenzionato dal livello sensibile a quello intelligibile, dall’accidentale
all’essenziale, dal causato alle cause. Un certo sostegno offre pure lo studio della matematica i cui oggetti partecipano,
da un lato, per la loro forma astratta, alle idee, ma, dall’altro, per la molteplicità delle forme, al mondo sensibile.
La geometria per esempio studia il triangolo « ideale » astratto ma in una molteplicità di
forme, rimanendo lontana dall’idea che esiste soltanto come un’unica forma.
Nel campo etico-politico
sono di grande importanza le virtù, soprattutto quelle della saggezza, della fortezza, della temperanza e globalmente
della giustizia. Infine, la contemplazione metafisica deve elevarsi sino all’idea delle idee, al bene stesso, che sta
« al di là dell’essenza » (epékeina tes ousias, cioè delle idee)
e da cui dipende tutto, sia le idee sia (tramite esse) le cose del mondo sensibile.
2.3. Il programma politico-educativo nell’immagine della caverna: la svolta dall’ingiustizia
alla giustizia, dall’apparenza alla verità.
È
importante vedere nell’immagine della caverna non soltanto un’illustrazione della dottrina delle idee. Diversamente
sarebbe incomprensibile il complicato scenario dello spettacolo delle marionette, portate da attori dietro un muretto, e del
fuoco artificiale che proietta le ombre delle marionette sulla parete in fondo alla caverna. I prigionieri sono incatenati,
e così guardano le ombre delle marionette che si muovono sulla parete opposta all’ingresso e alla luce del giorno.
Infine, altri uomini entrano attraverso l’ingresso e cercano di liberare i prigionieri per condurli alla luce del giorno.
Platone stesso commenta questa immagine dopo averla presentata: essa vuole illustrare il programma educativo dei governanti
nello Stato ideale. Alla caverna corrisponde il mondo politico con le assemblee del popolo e dei dicasteri: gli attori delle
marionette sono i funzionari e i giudici sofisti che esercitano i loro giochi politici, manipolando e seducendo il popolo per
i propri scopi egoistici ingiusti . 9 [Un caso esemplare di tale spettacolo politico
fu il processo contro Socrate, come lo documenta Platone nei suoi dialoghi Apologia di Socrate e Critone.]
I prigionieri sono quei cittadini che si lasciano manipolare dai politici sofisti. Il fuoco artificiale è lo splendore
che questi ultimi danno a se stessi, in contrasto con la luce del sole che rappresenta la verità che risplende presso
i governanti filosofi che guidano lo Stato con giustizia e cercano di educare i cittadini ad essere uomini buoni. La parola
chiave è la periagogé, la svolta dello sguardo dell’intelletto dei cittadini sedotti dai giochi di
politici malvagi verso i giusti scopi dei buoni governanti, passando dalle opinioni false egoistiche alle vere conoscenze sul
bene morale politico comune.
3. L’applicazione da parte di Heidegger della sua nozione di
verità all’immagine platonica della caverna.
Heidegger
trascura la funzione dell’immagine della caverna, quella appunto di illustrare il programma educativo politico di Platone,
nonché la sua prospettiva metafisica delle idee; trascura anche l’epistemologia dei due livelli conoscitivi, quello
sensitivo e quello intellettivo, ossia del passaggio dall’uno all’altro, nonché della svolta dello sguardo
dell’intelletto da parte di coloro che lo fissano soltanto sul sensibile che è empiricamente opinabile. Heidegger
invece limita la propria interpretazione al solo testo dell’immagine e valuta il suo contenuto « narrativo
» per rilevarne quel « cenno » (Wink) esistenziale che gli sembra anticipare qualcosa del proprio pensiero.
3.1. Il primo passo dell’interpretazione heideggeriana:
l’uomo esposto sin dal principio alla verità non nascosta.
In un
primo momento della sua interpretazione Heidegger intende lo stato dei prigionieri come se essi, guardando le ombre, avessero
già dinanzi a sé il vero, il non nascosto: « L’uomo possiede già in questa situazione tò
àletes, il non nascosto. Platone non dice che egli ha un non nascosto ma il non nascosto. Ciò vuol dire: l’uomo,
fin dalla sua infanzia e per natura sua, è già posto dinanzi al non nascosto… L’uomo è…
pròs tò prósten, indirizzato a tale dinanzi a lui: tò àletes. All’uomo
appartiene, lo mostra già l’impostazione dell’immagine, lo stare nel non nascosto, come noi diciamo: nel
vero, nella verità ». 10 [M. HEIDEGGER, Vom Wesen der Wahrheit,
cit., p. 27.] Tuttavia, vorrei chiarire che Platone non dice che i prigionieri guardando le ombre si trovano già
dinanzi al vero, bensì che i prigionieri guardando le ombre le ritengono come vere, e cioè falsamente. Certamente
si legge altrove che colui che guarda il vero, le idee, le vede « dinanzi a sé », pròs
tò prósten, cioè dinanzi all’occhio dell’intelletto, ma il fatto che il testo presente
usi l’espressione preposizionale pròs tò prósten non ci permette di concludere che i prigionieri
si trovano dinanzi al vero.
In primo luogo, l’intelletto
dei prigionieri, all’inizio, è ancora fissato sul sensibile, è vincolato ai sensi, mentre il vero è
l’intelligibile. Heidegger sbaglia nell’identificare l’ente con le cose sensibili nella loro familiarità
quotidiana, per noi indifferente e noiosa, nella quale, poi, deve apparire l’essere per i nostri interessi esistenziali.
Al contrario, l’ontologia di Parmenide, Platone ed Aristotele ci insegna che considerare le cose sensibili in quanto «
enti » significa proprio non considerarle più nel loro aspetto sensibile empirico familiare senza
importanza rispetto alla verità, ma considerarle nel loro aspetto intelligibile che è importante per l’intelletto
e lo rinvia all’essere tale, all’essenza, alla verità delle cose.
In secondo luogo, lo
sguardo dei prigionieri è indirizzato nella direzione opposta al vero, all’indietro, verso la parete in fondo alla
caverna, non in avanti, ossia in direzione dell’uscita verso la luce del giorno. Sarà necessario girare lo sguardo
di 180 gradi per indirizzarlo verso il vero, e cioè sotto la guida dei governanti buoni che libereranno i prigionieri.
Inoltre, se il testo
ci dice che i prigionieri, guardando le ombre e sentendo le voci degli attori delle marionette, ritengono che le ombre costituiscano
« l’ente », ciò significa che essi, illusi dallo spettacolo delle marionette, scambiano
falsamente le ombre per « l’ente". Heidegger, invece, di nuovo intende il testo nel senso opposto:
« Con ciò viene detto: l’uomo nel non nascosto (rappresentato a lui) vede l’ente; anzi,
l’uomo non è nient’altro che quell’ente che si rapporta a ciò che è l’ente
». 11 [Ibidem.]
Con queste parole Heidegger
introduce la sua posizione fenomenologica esistenziale secondo cui l’ente è ciò che appare all’uomo,
e riflette sull’essere uomo che fa apparire l’ente. Mentre, dal canto suo, il testo platonico non riflette sull’uomo
in generale ma su prigioniericittadini illusi da politici ingannatori; esso presuppone la differenza tra l’apparenza e
l’ente, tra il falso e il vero, tra l’intelletto rivolto al sensibile e ingannato da ombre, e l’intelletto
rivolto all’intelligibile. Ma questo è ignorato dall’interpretazione heideggeriana.
3.2. Il secondo passo: il vero si trova nel movimento.
Successivamente
Heidegger caratterizza come insuccesso il tentativo
di liberare i prigionieri, cioè di condurli dall’ente a quanto è "più ente". Egli cita
da Platone: « Lo svincolato riterrebbe, però, che il visto prima (le ombre) sia stato più non nascosto
(più vero) del mostrato adesso (cioè le cose stesse alla luce) ». 12 [Ibid.,
pp. 30 ss.] Di nuovo Heidegger fraintende queste parole, e le ritiene espressive della tesi di Platone stesso e non di
una falsa opinione scettica dei prigionieri che subiscono ancora l’impressione dello spettacolo delle marionette e quindi
risultano incapaci di vedere la differenza tra l’apparenza e l’ente, tra l’inganno e il vero. Per Heidegger,
invece, il dubbio dei prigionieri nel progredire verso l’ente diventa quasi un’attività creatrice che mette
in movimento il vero: « “Verità” e “vero” non sono qualcosa che di per sé,
sotto ogni aspetto, rimane immutabilmente identico, indifferentemente valido, volgare ». 13
[Ibid., p. 32.] Nell’interpretazione heideggeriana, l’opinione scettica sul vero
e sull’ente dei prigionieri ormai liberatisi diventa più importante della conoscenza dei loro liberatori: questi
ultimi possono difatti soltanto promettere la vista di cose immutabili nonché la mera rettitudine a ciò connessa,
la quale, tuttavia, alla luce tremolante, appare piuttosto incerta. Lo scopo di Heidegger risulta ovviamente quello di trovare
nell’opinione dei prigionieri un « cenno » del suo pensiero esistenzialistico che non riconosce una
verità immutabile bensì soltanto una verità in movimento (storico-culturale).
Tale interpretazione,
però, non coglie per niente l’intenzione di Platone, il quale nel testo citato indica la difficoltà iniziale
di colui che viene costretto a compiere un progresso conoscitivo e a passare dalla conoscenza sensitiva dei fenomeni delle cose
a una conoscenza intellettiva della loro essenza. Quale pedagogo non comprenderebbe questa difficoltà iniziale del discepolo!
Ma, appunto, si tratta di una difficoltà da superare, non di un insuccesso. Eppoi è tipico dell’empirismo
– e in particolare dei politici sofisti! – rifiutare un progresso conoscitivo verso conoscenze scientifiche universali
dell’essenziale delle cose. 14 [Il comportamento dell’intelletto
che rifiuta ogni passaggio dal sensibile all’intelligibile essenziale delle cose, perché sempre attaccato all’esperienza
sensibile, è caratteristico dell’empirismo dei Sofisti con cui Platone si confronta nei suoi primi dialoghi che
concludono ad aporie.]
3.3. Il terzo passo: l’avvenimento della verità come storia.
Anche
nel terzo passo della sua interpretazione del testo platonico Heidegger si allontana dalla prospettiva in cui si inserisce l’immagine
della caverna e continua a intendere come incerta la verità rappresentata dalla luce del sole. Perciò il testo
gli sembra oscuro. Infatti egli, perplesso, si domanda: « Che cosa dobbiamo intendere con il soggiorno del prigioniero
liberato fuori della caverna, dato che già l’esistenza nella caverna simboleggia il fare e agire reale quotidiano
dell’uomo, dunque proprio quello sotto il sole? … Platone stesso offre più avanti (517 b ss.), l’interpretazione
dell’intero paragone. La caverna, dice, significa nell’immagine la nostra terra sotto il firmamento del cielo…
Il fuoco nella caverna significa il sole, lo splendore del fuoco significa la luce del sole. Le ombre sono l’ente, le
cose che vediamo sotto il cielo e con cui di solito abbiamo da fare… ». 15 [Ibid.,
p. 44.]
Questa spiegazione del
testo è errata, perché ignora il significato di tutto lo scenario con lo spettacolo delle marionette quale simbolo
delle manipolazioni politiche, come da me spiegato in precedenza. Mancandogli l’autentica prospettiva in cui si inserisce
l’immagine della caverna, Heidegger, infine, vi introduce un significato tipicamente esistenzialistico: « Infatti,
il paragone narra proprio la storia, nella quale l’uomo viene a se stesso come uno che esiste in mezzo all’ente.
In questa storia dell’essenza dell’uomo accade proprio l’evento del non nascosto, cioè il rivelarsi,
il decisivo… Quando dicevamo: proprio questa essenza della verità (il rivelarsi) è l’evento che accade
nell’uomo, ciò significava che l’uomo, come lo vediamo nell’immagine della sua liberazione, è
spostato nella verità. Questa è la maniera della sua esistenza, l’evento fondamentale dell’esser-ci.
L’originale non nascosto è il rivelarsi che si progetta come evento che accade “nell’uomo”, nella
sua storia ». 16 [Ibid., p. 75.]
Questa interpretazione
non gode di alcun appoggio nel testo. Il suo esistenzalismo confonde l’ente con le faccende quotidiane in movimento della
nostra esperienza quotidiana, mentre in Platone l’ente rappresenta proprio l’intelligibile immutabile cui corrisponde
una conoscenza transempirica. Nella versione heideggeriana tutti i concetti tradizionali cambiano dal significato statico a
un significato dinamico tipico delle attività soggettive. In tal modo anche il vero diventa un evento del soggetto, anzi
il suo esistere come processo storico-culturale.
Non mi permetto un giudizio
sul pensiero esistenzialistico di Heidegger; certo però il suo tentativo di trovarne un « cenno »
(Wink) nel testo platonico mi pare inaccettabile, come ho appena spiegato. L’immagine della caverna non tratta
dell’uomo e della sua esistenza in generale, ma di cittadini che sono esposti a ingannevoli manipolazioni politiche. Inoltre,
lo stadio iniziale per quei cittadini non è tale da trovarsi
in mezzo agli enti – cui sarebbe già inerente il vero e l’essenziale delle faccende umane –, ma di
trovarsi in mezzo ad apparenze artificiose che essi non riescono a capire, perché si lasciano traviare dai sensi e dalle
opinioni volutamente diffuse da falsi politici, e non si lasciano invece guidare dall’intelletto e istruire dai veri politici
che guardano alla giustizia e alla verità metafisicamente fondata.