(Segue da p. 2) Nell’ultimo articolo di quella serie fresca e vitale la mente quasi incontaminata del giovane Luganese estrae dal ricchissimo
regno intellettuale del Verbum, di cui è per grazia serva fedele, quest’altra bellissima e perfettissima perla
della in ratio unitas: la vita è un insieme, la vita è una cosa sola, e non solo in sé quella terrena,
ma anche la vita nei suoi due apparenti spezzoni di qua e di là della morte, e questa una vita la si ha ragionando. Solo
ragionando, ma bene e rettamente ragionando.
Per
cui, posta quella che Amerio chiama la religione o, se vogliamo, posta nella religione l’individuazione
nell’uomo di un legame così forte tra creatore e creatura da mettersi –
vestigio dello Spirito d’amore trinitario – quasi sostanzialmente più che
come mero accidente, ecco che ora viene portato sul tavolo l’altro dato: il cosa è
uno degli enti legati, come si configura, in cosa consiste.
Dio,
“primo dato” ed ente creatore del legante (secondo dato) e creatore della
vita (terzo dato), ente nel quale sono per essenza sia il legante che la vita, non
è oggetto diretto dell’analisi di Amerio perché è piuttosto il
soggetto la cui accettazione viene mostrata indispensabilissima quanto la ricusazione rovinosa
e perimente.
Quando
Amerio dice: « Il problema nostro è il problema dell’adorazione e tutto
il resto è fatto per portarvi luce e sostanza », giunge al motivo centrale
di tutte le scoperte e considerazioni che compirà fino allo spegnimento del lume. Giunge
al principio conclusivo e alla causa finale di tutti i suoi pensieri.
Se
la grazia della religione non fosse posta nell’uomo come giovannea e poi tommasiana
lux intelligenctiæ, 1 [Tommaso
d’Aquino, Summa Theol., I, q. 12, a. 11, ad 3; I-II, q. 109, a. 1.] come elemento ordinativo della ragione e di ogni altra
potenza posta nell’uomo, la povera creatura non avrebbe alcuna possibilità di
riconoscere il proprio stato creaturale: la ragione naturale capace di sillogizzare, cioè
di addizionare o sottrarre dati, ha bisogno di luce per vedere quei dati, di « rispondenza
e orientamento infallibile » per valutarli, ovvero di un’unità di misura.
La quale, qui Amerio dimostrerà, non è ente tra gli enti dati, non è
cosa creata valutatrice tra i valutabili, ma, pur tra loro immessa, non è loro intrinseca.
E Amerio di essa dice « rispondenza » per significarne il paradigma di
bilanciamento, e « orientamento infallibile » per significarne il preciso
rapporto con il soprannaturale (il divino Oriente di riferimento).
Per
cui, essendo nella creatura questa increata luce, con essa e per essa ella vede lo stato del
proprio essere e, usando della libertà, gli assente; e abusandone, glielo nega.
Ma assentirgli significa propriamente (e immediatamente) riconoscere la propria microbicità
e, con pronto atto d’adorazione, l’incommensurabilità del Fattore.
Qui
nasce l’esigenza del primo sillogismo, del primo ragionamento, del primo fatto
intellettivo per il quale l’uomo diviene un essere storico: un cavallo o una
mosca girano in una sequenza di fatti privi di storia perché privi di semantica, e
privi di semantica perché privi di coscienza. Ma dal momento che la coscienza è
inserita nelle molecole del mondo, in uno dei corpi del mondo, molecole e universo iniziano
a ricevere senso da quella coscienza e quel corpo una persona.
Enuncia
Amerio: la coscienza inserita nell’uomo per prima cosa sùbito (ma anche sempre
in séguito, preliminare sensus communis) gli dice: “Sei un uomo”.
La coscienza aderisce perfettamente alla realtà perché essa è la verità
della realtà: luce che illumina la stanza del reale e la fa vedere com’è
(o bilancia che soppesa i dati secondo la taratura del trascendente). A questa luce l’uomo
vede la stanza e ragiona (e con la bilancia mette i pesi fino all’eguaglianza). Il suo
ragionamento, non essendo viziato da passioni (di sé, fondamentalmente), sarebbe quel
puro calcolo che porta all’unica azione conseguente propria di una creatura: io vivo
in forza di un Essere che mi dà la vita; gli esseri che ricevono la vita, vivono la
vita al fine di ringraziare chi gliela dà; io dunque vivo la vita per ringraziare quell’Essere
che me la dà. Il che è lo stesso che dire: « Il problema nostro è
il problema dell’adorazione e tutto il resto è fatto per portarvi luce e sostanza
».
In
La Religione e la sua valutazione… Amerio aveva impostato anche il secondo dei
cardini la cui fondatezza riposa certo sui Greci ma che riceve carisma indistruttibile dai
dati della Rivelazione cristiana: il pensiero precede l’atto. Ma non è il pensiero
un atto? Ovviamente: è l’atto del pensare, cioè, come visto, è
compiere i sillogismi, i calcoli concettuali, è porre alcune premesse e da quelle arrivare
per somma o per sottrazione a un risultato: il giudizio.
Parlare
del pensiero è parlare del sillogismo, cioè dell’operazione principe con
cui l’uomo muove la sua vita, ogni giorno compiendone migliaia: dinanzi a ogni atto
viene fatto un calcolo (quasi sempre con alcuni termini – gli universali – sottintesi,
essendo quelli di “senso comune”), e la maggior parte dei calcoli sono o entimemi
o sillogismi, cioè o ellittici o retti, o per esempi o immediati. In ogni caso sono
non disponibili a cadere in errore: teoreticamente infrangibili, intaccabili, immarcescibili.
Ed è questo che interessava il giovane Amerio: il motivo per cui un meccanismo atto
a raziocinare, cioè a conoscere la verità della realtà, alcune volte
segue la verità, altre cade in errore malgrado la sua intrinseca profonda coessenziale
indisposizione all’errore: la sua violabilità.
Già
il pitagorico Filolao denunciava l’incongruenza della falsità con l’armonia:
« Tutte le cose che si conoscono hanno numero », sono cioè ordinate,
e « nessuna menzogna accoglie in sé la natura del numero, né l’armonia
», realtà ordinate nella loro variazione, per cui « il falso nulla ha in
comune con esse ». « La conoscenza, l’ordine e la verità hanno
(dirà poi Giovanni Reale) una coincidenza strutturale », per cui la falsità,
la conoscenza falsificatoria, è disarmonica devianza.
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E. M. R. |