Sillabo:
la celebre raccolta (syllabus) di ottanta proposizioni fatta pubblicare nel 1864 dal beato Papa Pio IX. È una collezione
particolare: enumera alcuni errori cui la ragione dell’uomo moderno è particolarmente versata, concretati, in una
parola, nello spirito di indipendenza da Dio, ovvero in ciò che più di ogni altra cosa distingue l’irreligioso
dal religioso, il superbo dall’umile, il laicista dal cattolico. Il ragionevole dall’irragionevole. Dirò anche:
il puro dall’impuro, o empio. Vedremo perché.
L’accostamento che
il nostro Convegno propone fin dal titolo: “Pio IX, il dogma dell’Immacolata e il Sillabo” è del
tutto appropriato, e risponde al più intimo e primo volere di Papa Mastai per fronteggiare la ribellione alla ragione innestata
dalle filosofie moderne nate dal razionalismo: fin dal ’52 concepì l’idea di affermare la sovranità
sul mondo dello spirito (cioè della Chiesa), doppiamente, cioè in un unico atto di docenza (dunque di sommo
imperio): una pars construens, con la promulgazione solenne del dogma dell’immacolatezza di una creatura ab æterno;
e una pars destruens, con la damnatio della pervicace impurità di cuore del secolo.
L’accostamento è
storicamente attestato: il beato Pio IX, da quel « puro di cuore » che era, « oppone all’orgoglio
luciferino, motore occulto dell’egualitarismo democratico, il dogma dell’Immacolata Concezione, per il quale Maria
fu dispensata, in virtù di una grazia sovrana, dalla legge comune »: 1 [GIOVANNI
VANNONI, Sillabo, Edizioni Cantagalli, Siena 1985; Genesi e natura del Sillabo, p. 32.] Maria espunta dalla
sovranità democratica in virtù di una superiore sovranità: divina e monarchica.
Ora, Maria, concepita immacolata,
è, rispetto agli altri uomini, una creatura particolare, superiore: per tutti gli altri uomini, macchiati dal peccato,
un catalogo dei possibili errori in cui può incorrere la ragione è non solo utile, ma conveniente, e difatti possiamo
dire che il primo sillabo, in tal senso di forte bordone alla ragione, furono le tavole di Mosè. Dai tempi di Mosè,
i cataloghi degli errori approntati dai Profeti e dalla Chiesa servirono agli uomini per far loro comprendere chi entra nel Regno
dei Cieli: vi entrano unicamente i « puri di cuore "; chi non è « puro di cuore »
non entra. Ora, « puro di cuore » si è nella mente, nella ragione, e vedremo cosa significa ciò:
panteismo, razionalismo, relativismo, poi modernismo, irenismo, pacifismo, laicismo, liberismo, sono tutti errori compiuti per
via della primigenia impurità del cuore, cui Maria e tutti i santi opposero la loro castità di cuore, e per questo
essi sono nel Regno dei Cieli.
Bisogna capire che la morsa
in cui viene stretto quel « puro di cuore » era a tenaglia: la morsa delle due ganasce della gnosi, la teoretica
e la pratica: la teoretica faceva avanzare il materialismo dialettico di Marx ed Engels, con il loro Manifesto del Partito Comunista
diffuso sotto l’egida della Lega dei Comunisti (ex società segreta “dei Giusti”), o lo spiritualismo
lanciato negli Stati Uniti dalla Confraternita Ermetica di Luxor, appoggiato da personaggi come Guénon; la ganascia pratica,
nel frattempo, colpiva la Chiesa anche materialmente, con i rivolgimenti politici, le insurrezioni, le invasioni, le guerre.
Come rileva Roberto De
Mattei, « la prospettiva di Pio IX […] si presenta come una visione della storia e della società intimamente
controrivoluzionari, secondo la quale il Rinascimento, il protestantesimo e la Rivoluzione francese costituiscono le tappe di
un processo plurisecolare che si propone come fine la liquidazione [io direi piuttosto l’assorbimento] della Civiltà
cristiana e l’edificazione, sulle sue rovine, di una Repubblica universale equalitaria » 2
[ROBERTO DE MATTEI, Pio IX, Piemme, Casale Monferrato 2000, con i testi completi del Syllabus
e della Bolla Ineffabilis Deus; p. 7.].
Per colpevoli congiure,
ma anche per consigliate valutazioni, i due atti vennero di fatto divisi e la bolla Ineffabilis Deus uscì dieci
anni prima del Syllabus.
Papa Pio IX ha l’intuizione
di cogliere – dietro il generale fanatismo anticattolico che assedia la Chiesa, che si risolveva nelle grandi rivolte del
’48, nei soprusi poi del regno Sabaudo, nelle provocazioni mazziniane di una Repubblica Romana, nella pressione sulle province
romane a ribellarsi al governo della Chiesa, ma poi anche, più profondamente e per tutto il mondo, nella diffusione delle
ideologie democraticiste sia liberali che marxiste, poi del razionalismo, del fideismo, del panteismo, del naturalismo più
immanentistico – l’intuizione è, dicevo, di cogliere un’unica matrice, un’unica vis velenosa:
il rigetto del concetto di obbedienza, il rifiuto della nozione di sottomissione, la ribellione della pur sovrana
ragione a una superiore sovranità. Questo abitus profondamente anticattolico verrà segnalato in primo luogo
da Romano Amerio, Augusto Del Noce, e oggi da studiosi come Roberto De Mattei.
Niente di nuovo, propriamente,
giacché, senza andare come si potrebbe almeno fino a Pelagio, passando per i padri dei vari ribellismi protestanti e per
filosofi come Cartesio, sarebbe stato sufficiente attardarsi intorno a quest’ultimo per aprire il vaso di Pandora di tutti
gli errori moderni: l’inveramento della sovranità della ragione su ogni altra sovranità ha infatti in Cartesio
il suo inizio.
All’aceto di una
ragione dalla sovranità pervertita quel Sommo Pastore « puro di cuore " vorrebbe rispondere con il vino
doppiamente nobile di una ragione di Magistero (Syllabus e Ineffabilis Deus) dalla sovranità raddoppiata:
sovranità di ragione proferita sia sul piano della grazia che della dottrina; sia sul piano della contemplatio che
della damnatio; sia sul piano della ragione che della fede; sia sul piano della spiritualità più interiore
che su quello dell’autorità più universale. Qui vorrei suggerire la forza del legame tra purezza interiore
e azione sociale.
Le ragioni del Sillabo,
di quel Sillabo, permangono a tutt’oggi quali ragioni di un Sillabo, permanendo la radicale convinzione di una sovranità
assoluta della ragione umana.
Che altro è il panteismo,
se non identificare la divinità col mondo, cioè adorare la propria ragione come fosse Dio? Che altro il razionalismo,
se non imporre la sovranità della ragione come suprema norma alla verità, quasi essa fosse ab æterno?
Che altro l’indifferentismo, se non dare buona in ogni nozione religiosa ogni operazione quale che sia compiuta da
una ragione sovrana che così è davvero assoluta? Che altro il liberalismo e la statolatria,
se non l’imposizione della sovranità della ragione persino sulla Rivelazione, dei suoi diritti sui diritti di Dio?
Che altro poi un matrimonio desacramentato, se non il godimento della sovranità di una ragione divenuta però libertina
e licenziosa? E infine: che altro è la divisione dello Stato dalla Chiesa, se non la proclamazione della sovranità
della ragione, finalmente così indipendente da ogni norma morale, dalla Caritas, dal Verbum, da Dio?
Se è Kant ad affermare
l’impossibilità per l’uomo di conoscere fuori della propria mente un reale, è Cartesio che ne pone come
dicevo le premesse metafisiche sradicando intelletto e volontà (libertà) dall’essenza di Dio e poi snervando
la volontà da un intelletto previo. È il cattolico Cartesio a togliere alla Trinità la corretta disposizione
delle processioni divine (Spiritus Sanctus FILIOQUE procedit), ferendo il Verbo di una ferita che di secolo in secolo trabocca
nel mondo (tra i filosofi, tra le genti, fin nella Chiesa), il guaio sommo intravisto da Pio IX, per il quale dalla dislocazione
della Trinità si ha la vittoria della libertà umana sulla sua intelligenza.
Ma la processione dell’Amore
dal Verbo stabilisce la relazione che lega la verità alla libertà: poiché la questione della libertà
dipende strettamente dalla sua corretta conduzione, come per primo sottolinea GESÙ nell’Evangelium: « La
verità vi farà liberi », 3 [Ioan., VIII, 32.]
ovvero è l’adesione dell’uomo alla verità che dà all’uomo la libertà.
La libertà dipende dalla verità, come in Dio l’amore, la volontà, seguono il Verbo, e
non viceversa.
Questa disposizione di
dipendenza viene colta dal retto svolgimento compiuto dall’uomo sul raziocinio operato nella prima età, raziocinio
che per la sua semplicità e forza si può dire il principe dei ragionamenti: il ragionamento di dipendenza.
Esso è quella deduzione
con cui ogni uomo, fin dalla prima e tenera età della ragione – tenera ma pura, retta e innocente – si riconosce
dipendente. L’animo del fanciullo, infatti, ragionevolmente sa di essere assolutamente dipendente. Da qui la sua
limpida fede: nel genitore, e nel prossimo, prima di tutto. Per cui: « Chi non si fa piccolo come questo bambino, non
entrerà nel Regno dei Cieli » (Matth., XVIII, 4); e ancora: « Io vi dico in verità che
chiunque non accoglie il Regno di Dio con l’animo di un fanciullo, non entrerà in esso » (Luc. XVIII,
16-17). Sicché la sollecitudine di Dio è che noi uomini si divenga prima « piccoli come bambini »
e, una volta tali nell’intelletto di fede, si possa « entrare nel Regno dei Cieli », il quale ha la porta
piccola perché è a misura di pueri, di bambini.
Il sillogismo principe
è quel ragionamento che unisce l’uomo alla madre, al padre, ai fratelli, in un da, in un con, in un
per, cioè con un plesso di relazioni e affetti da cui sa di non poter nemmeno minimamente prescindere (e da cui
fino alla perdita della semplicità e purezza infantili in effetti non prescinde): il suo Io non è ancora costruito
tanto da poter aspirare all’usurpazione del trono su cui sta assisa l’umiltà di dipendenza.
Non formulo il principe
dei sillogismi: ogni uomo conosce il proprio cuore, sa dunque a cosa mi riferisco. È sufficiente la sua conclusione:
l’uomo si riconosce intrinsecamente dipendente, e insieme al proprio Io riconosce dipendente tutto il creato. Con
questo universale giudizio di dipendenza riconosce intuitivamente l’esistenza del Creatore da cui provengono tutte le cose,
e tutto questo in conformità alla divina Scrittura, ovvero a ciò che il Signore stesso insegna attraverso i suoi
oracoli: « [A tutti gli uomini] è manifesto quel che si può conoscere di Dio; Dio stesso lo ha loro manifestato;
poiché le sue invisibili perfezioni si rendono visibili, comprendendosi dalle cose fatte, fin dalla creazione del mondo
» (Rom., I, 19-20).
Queste parole dell’Apostolo
non vanno solo riferite ai filosofi, ma estese con più grande pertinenza a tutti gli uomini, e io oserei dire a tutti i
ragazzetti, a tutti i pueri appena forniti del lume della ragione naturale, già possessori della base di
presupposti appartenenti al sensus communis, cioè alle certezze universali prefilosofiche e prescientifiche, di
cui parla in innumerevoli libri il decano della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, mons.
prof. Antonio Livi, 4 [Cfr. ANTONIO LIVI, Dizionario storico della Filosofia,
Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2000, nella quale opera, riferendosi l’Autore in generale al sensus communis
« come 'sistema organico di certezze universali e necessarie’ », egli completa tale sistema di «
un fondamento razionale della realtà in Dio, prima Causa e ultimo fine » (voce senso comune).],
pueri quindi capaci di intuire i princìpi primi (di identità e di non contraddizione) che contrassegnano
le cose nella loro individualità, di percepire il senso di sé (della propria realtà), dell’altro (simile
a sé), del mondo (realtà circostante), di una legge universale superiore a sé e agli altri, e della certezza
della verità così come della capacità della ragione nell’individuarla. Dunque pueri, ragazzetti,
capaci di avvicinare e distinguere, addizionare e sottrarre le cose tra loro nei sillogismi. Il più delle volte, come si
sa, con perfetta immediatezza, semplicità e purezza di cuore. 5 [Che l’età
della ragione sia comunemente stabilita dopo i 5 anni ha almeno due argomenti a favore: la volontà di san Pio X che la
santa Comunione fosse accordata ai fanciulli a partire dai 5 anni; la beatificazione di Francisco e Jacinta Marto, i due pastorelli
di Fatima di 7 e 9 anni. Entrambe le cose possono infatti essere ratificate solo supponendo la ragione nei soggetti operante.
Da qui il consiglio del Maestro: « Lasciate che i fanciulli vengano a me » (Loc. cit.), cioè
lasciate che vengano a me i vostri cuori tornati con la grazia ‘fanciulli’: semplici, innocenti e puri. ]
Romano Amerio, dopo analoghe
considerazioni, conclude – proprio in via di questo particolare sillogismo che porta al riconoscimento della dipendenza
– che la religione, se riconosciuta legata a ciò che chiama una « tensione innata » dell’uomo
al bene e al vero, è giudizio così intrinseco e intimo all’uomo da essergli quasi connaturato,
turbato poi anche dalle nefaste conseguenze del peccato originale dei progenitori, per cui ciò che prima sarebbe risultato
un giudizio certo, inerrante e fermo, dopo il peccato viene messo a repentaglio e reso incerto – appunto – dalle passioni,
dalle circostanze, dai moti più disordinati dati dalle mode, dai vagheggiamenti di potenza e persino dai moti dell’amicizia
che prendono a volte il sopravvento sui giudizi di verità, eccetera. Ma il primo giudizio di dipendenza, la prima
religio a Dio, per il filosofo, è quasi ‘di natura’.
Il tomismo mostra, intorno
al processo intellettuale che muove e fa l’uomo, non solo la luce intellettiva che rischiara i termini e gli evidenzia
il vero e il bene, ma anche la sua tensione volitiva, per la quale egli si muove verso il vero e il bene. Ma tutto ciò
che è connaturato e innato all’uomo, è precedente a qualsiasi suo ragionamento, a qualsiasi atto da uomo;
se dunque ciò che lo precede sono una luce e una tensione al vero e al bene non costruite con il proprio
raziocinio, esse devono scaturire da ciò che è prima della natura, cioè da Dio.
Questo sembra il cuore
del problema: da qui sappiamo perché la ragione umana è una maestà: sovrana di prima grandezza nel
creato, ma vassalla di una Ratio divina nei rapporti con l’Increato, ovvero nei rapporti con ciò che le è
precedente.
È maestà,
la ragione, fin tanto che governa le passioni, le preoccupazioni, persino gli affetti, tenendo tutte queste cose fuori dal ragionamento,
dopo aver ricevuto proprio da esse i termini per compierlo e persino la sollecitudine a ragionare.
Infatti la filosofia, da
Socrate ad Amerio, passando per Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, Manzoni, Rosmini, e persino per Croce, chiarisce che il
sofisma, o errore del ragionamento, del processo che diciamo sillogistico, è assolutamente ateoretico, cioè
non dipende assolutamente dal raziocinio in sé (aristotelico), il quale conclude sempre bene: l’errore
dipende dall’infiltrazione del senso, cioè da preoccupazioni, passioni, affecta, desideri (di amicizia, di
pace, etc.), che si infiltrano nel cuore dell’intelletto e lo turbano. Se non fosse per loro, i ragionamenti porterebbero
all’evidenza di conclusioni vere, e l’uomo si persuaderebbe da queste evidenze.
Come ben nota il marchese
Donoso Cortès, cui Pio IX aveva affidato tra gli altri la prima stesura del Sillabo, il peccato originale turba i ragionamenti
umani, e spesso permette all’uomo di nascondersi mille piccole evidenze con mille piccole astuzie, tralasciando le quali
non si svierebbe, non errerebbe, non peccherebbe.
Sua maestà la ragione, in realtà, è spesso una meretrice di se stessa, giacché la fame di sé
la distoglie dal suo cibo naturale, che sarebbe, come dice la Scolastica, la verità.
Il fatto è –
e qui vediamo il fattore libertà – che quel cibo naturale per l’intelletto che è la verità,
o evidenza, è l’unico cibo di cui l’intelletto dovrebbe cibarsi: l’evidenza costringe l’intelletto,
e la persuasione è doverosa. Dove sta la libertà? La libertà, dice Amerio, accompagna l’uomo
quando egli costruisce il raziocinio, avvicina i termini corretti da confrontare, e lì decide di stare a quei termini o
non starci, cioè di accettare o non accettare il responso, che di per sé è, fin dal momento in cui sono apparecchiati
i termini, chiaro, inconfondibile, ineludibile.
Prendiamo il più
classico dei ragionamenti: « Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; dunque Socrate è mortale
». La libertà dell’uomo dovrebbe seguire il ragionamento, ma può anche permettere che vi entri una qualsiasi
remora, un pulviscolo di sabbia che corregge il ragionamento e ne svia la doverosa conclusione: può entrarvi l’ignoranza
(l’ipotesi, p. es., ‘tutti gli uomini sono mortali’ non è debitamente accertata); una qualsiasi passione
(p. es. la fretta di concludere il ragionamento, oppure il desiderio di vedere in Socrate, per amicizia, qualcosa di più
di un uomo: un semidio); un apriorismo culturale (p. es. appartenere a una scuola filosofica avversa alla socratica,
per cui si tenta in ogni modo di trascinare il ragionamento in un circolo vizioso). E via dicendo. La libertà segue
la verità, perché è libertà intellettiva, come nella Trinità l’amore, la volontà,
cioè la libertà di Dio, sono di Intelletto nella processione dal Verbum; e se non la segue, la libertà
decade in licenza.
Sua maestà la ragione,
dunque, è regina sui sensi, sulle passioni, sulle preoccupazioni, sugli affetti, ma, come ognuno sa, non su di sé.
Infatti, se fosse sovrana assoluta, come pretendono gli irreligiosi, come mai per capire qualcosa essa è costretta a lavorare?
Da quando in qua una regina lavora? E la ragione lavora di continuo, non sta mai ferma. Essa tende, e tende alla verità,
che la precede, che le è dinanzi, che le si sottrae anche, e che la umilia. Ecco ancora in cosa consiste la dipendenza
della ragione, che il cattolico sa bene, rallegrandosi, come nel Magnificat, della propria piccolezza.
Dipendenza dunque,
ma anche indipendenza: quando l’uomo è da Dio stesso posto dinanzi al proprio dovere di scegliere, con il
proprio libero arbitrio, di essere uomo, cioè di usare del proprio intelletto, la ragione è lasciata a se
stessa: davanti al mondo che lo tira ora qua e ora là, che gli offre allettamenti su ogni ordine di valori, e specialmente
dinanzi alla necessità vitale di costruire il proprio sé, l’uomo si trova dinanzi al baratro della propria
ragione, della propria libertà che è di seguire o non seguire la ragione, della propria indipendenza.
Da questo punto di vista
si capisce sùbito che costruire un ragionamento retto diviene un’operazione arrischiata, priva cioè di quei
muretti a destra e a sinistra che sembravano tenere il ragionamento in piedi: l’indipendenza della ragione, sovrana forzata,
mette p. es. dinanzi ad Adamo la scelta: alzare il sopracciglio o non alzare il sopracciglio per mettersi sulla difensiva e compiere,
all’ingresso del serpente nel Giardino, una prima e risolutiva considerazione: “Le creature di Dio ascoltano in primo
luogo le parole di Dio; io sono una creatura di Dio; dunque io ascolterò in primo luogo le sue parole”. Scelgo
liberamente di dipendere. Oppure una seconda: “L’amore con cui Dio mi detta le cose che posso e che non posso fare
è immenso; nessuno può avere un amore più grande di quello; nessuno dunque può dettarmi parole diverse
(migliori) da quelle”.
Anche Maria è esposta
dall’indipendenza della ragione a una scelta, e infatti la sua scelta non solo la scosterà dalle creature che –
come i bruti – non ragionano, ma anche da Zaccaria, che ragiona, sì, ma non liberamente, ma piuttosto sotto la remora
dell’incredulità. Maria ragiona, e ragiona addirittura legando in un unico razionale sillogismo la ragione di
natura alla ragione di grazia, come indicato da Livi esponendo san Tommaso; 6 [ANTONIO
LIVI, Tommaso d’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano, Mondadori, Milano 1997, p. 84: « Nell’argomentazione
teologica [e nell’argomentazione in cui la vita, come nei santi, dà sèguito alla fede] la premessa maggiore
è un’asserzione di fede (cioè una verità rivelata), mentre la premessa minore è una evidenza
di ragione. La seconda premessa è quindi il momento in cui la ragione fa uso delle proprie conoscenze per riuscire a comprendere
meglio la verità rivelata ».] per cui la Vergine Ancella, chinando il capo, sceglie: “L’Angelo
è un messo di Dio; i messi di Dio dicono sempre cose vere; l’angelo mi dice cose vere”. Oppure: “[L’angelo
dice:] ‘Colui che ti nascerà sarà chiamato Figlio di Dio’ (premessa minore, di grazia); tutti
i figli ricevono la loro natura dal padre e dalla madre (premessa maggiore, di natura); il figlio che mi nascerà
avrà da me la natura umana e da Dio quella divina’ (conclusione sillogistica superrazionale)”.
L’indipendenza della
propria libera ragione muove Maria a farsi dipendente, come tutte le creature razionali quando compiono un retto sillogismo, un
retto giudizio: dipendono infatti dalla determinazione del ragionamento.
Libertas, ancilla
veritatis, è dalla verità determinata: mantenendo i termini del sillogismo costruito a partire dalla realtà
confrontata con la coscienza, l’uomo esercita la libertà, la quale viceversa gira in licenza se al ragionamento vero
preferisce una passione. L’uomo è libero solo se il suo cuore aderisce alla realtà aletica delle cose postegli
dinanzi, e raccolte dai sensi.
Questa è la base
metafisica su cui riposa quel ragionamento di dipendenza che si diceva, e che è fondamento all’uomo: l’uomo
è indipendente e libero nel scegliere con la ragione la dipendenza che deve scegliere per essere figlio di Dio.
Se lo spirito che sostanzia
il cattolico è di dipendenza (dalla verità, dunque da Dio), ecco cosa Pio IX fa rilevare fin dalla III proposizione
del suo Sillabo, 7 [“La ragione umana, senza tenere assolutamente in
nessuna considerazione Dio, è l’unico vero arbitro del vero e del falso, del bene e del male, è legge a se
stessa, e con le sue forze naturali è sufficiente a procurare il bene degli uomini e dei popoli”.] nella
lettura che ne fa Amerio nel suo celebre Iota unum: « L’indipendenza della ragione che, senza riferirsi
a Dio, riconosce legge soltanto quella posta da sé stessa », è in fragrante autonomia dalla forza creatrice,
non appoggiandosi ad altra ragione che alla propria. Nella V proposizione , 8 [“La
rivelazione divina è imperfetta e per questo è soggetta a un continuo e indefinito progresso, il quale corrisponde
al progresso della ragione umana”.] nota Amerio, che « si fa della ragione la norma assoluta e del soprannaturale
un prodotto del pensiero naturale », arrivando così a negare « la dipendenza del verbo creato dal Verbo
increato », sicché « la perfezione della divina rivelazione è nella coscienza umana del
divino e nella riduzione dei dogmi a teoremi razionali ».
Mi pare di poter riassumere
così: ragionare è cosa adatta all’uomo « puro di cuore », cioè dal cuore sgombro
da preoccupazioni che non siano quella di ragionare puramente. Questa prerogativa va non solo tenuta, ma anche insegnata,
e infatti costituisce l’insegnamento unicamente di nostro Signore e, vicariamente, della Chiesa. E infatti: chi può
mettere assieme un catalogo di irrazionali impurità se non la Chiesa, unica Maestra di verità, unico deposito
della conoscenza della Trinità, solo dal cui Mistero procede ogni vera conoscenza, ogni ragionamento, ogni retta filosofia?
Documenti come il Sillabo servono proprio a offrire agli uomini gli strumenti più idonei per ragionare con quella purezza
che qui si è detta. Pio X e Pio XII, 8 [Il primo con il decreto Lamentabili,
unito alla Pascendi, 8 luglio 1907; il secondo con la Humani Generis, 12 agosto 1950.] consapevoli dei guai
portati dallo scombinamento della divina Monotriade, ebbero lo spirito di ragione e di religione per pubblicarne altri due, contro
il modernismo e il neomodernismo.
In conclusione, possiamo
dire che fin tanto che l’avidità di indipendenza impropria turberà la « purezza di cuore
» cui è chiamata la ragione, si impone la necessità di un elenco degli errori cui porta di volta in volta
l’avidità di sé, il primo errore dei quali è l’ingrippatura del proprio stesso meccanismo spirituale.
L’elenco spesso dev’essere lungo, specifico; ma basterebbe dire: sii razionale, sii teoretico, ragiona scevro da passioni,
o uomo, come i ragazzetti, come i pueri, e non incorrerai in alcun errore, ma entrerai anche tu nel Regno.
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