ROMANO AMERIO. L’UMANISTA, IL LUGANESE, IL CATTOLICO.
Questo è in assoluto il primo luogo in cui qualcuno porta a luce meridiana
il fatto che la causa prima e cardinale dell’odierna crisi della Chiesa
(e conseguentemente della civiltà) è data dalla ameriana
« dislocazione della divina Monotriade », o « ripudio del Filioque ».
Conferenza tenuta al Convegno italo-svizzero
svoltosi presso la Facoltà Teologica di Lugano
il 29 gennaio 2005, nel I centenario della nascita di Romano Amerio (16 gennaio 1905).
Gli Atti del Convegno possono essere richiesti a Casagrande Editore,
oppure a E. M. Radaelli con una
Saluto
e ringrazio l’on. Giovanna Masoni Brenni, il dott. Antonio Gili, il Magnifico Rettore prof. Gerosa, gli illustri intervenuti
e tutti gli amici come il prof. Lepori e il dott. Piffaretti, che, per conto del Municipio, dell’Archivio storico e della
Facoltà di Teologia di Lugano, hanno con me fortemente voluto questa memorabile giornata in onore del loro illustre concittadino
Romano Amerio.
Entrerò, per dirla con una metafora,
solo per quattro o cinque centimetri nella vastità di quel territorio culturale che va sotto il nome di Romano Amerio:
ciò dovrebbe bastare a illuminare il grande apporto offerto alla Chiesa da chi, come dice il depliant del Convegno, ne
ha « assunto posizioni vivacemente critiche, ma francamente argomentate nella più genuina e stretta tradizione
».
Dal mio punto di vista,
di amico e ammiratore, che cerca capire un uomo sommo e discusso, dopo aver ascoltato per ore e ore Amerio, intervistato ininterrottamente
per anni, letto e studiato in tutti i suoi volumi, scritti e foglietti – e inediti, come la traduzione del De Civitate
Dei –, posso dire di essere arrivato a una conclusione sintetizzabile in un solo punto, che propongo anche agli amici
che hanno avuto il bene di seguirlo per tutta una vita, sostanzialmente un punto di metodo: la filosofia di Amerio coincise
con il metodo con cui egli si condusse e crebbe, coincise con la sua vita.
Per cui potrebbe rivelarsi
fuorviante parlare in qualsiasi modo di metafisica, o di ogni altro tema che voglia celebrare i pregi intellettuali di Amerio,
se prima non si sarà messa a fuoco la virtù che ne informò per tutta la vita – dalla fanciullezza alla
morte – ogni atto: cioè la sua estrema, disarmante, e congenita umiltà. Non bisogna confondere atti dovuti
ad autorevolezza con mancanza di umiltà: vedi Mosè.
Bene han fatto allora gli
organizzatori di questo Convegno celebrativo su Romano Amerio a dare la parola tra i primi al suo amico professor Agliati, che
ci ha potuto avvicinare con finezza al più vero fondamento del suo pensiero, specialmente attraverso la mostra di quella
delicata virtù che abbassa l’uomo fino a terra, e lì lo tiene, considerando che humilis, da humus,
significa appartenere alla terra, e che humilitas segnala il concetto fondamentale di abbassamento, che Amerio
tenne per tutta la vita con grande semplicità e freschezza di cuore.
Mi spiegherò meglio entrando per il primo centimetro: l’asse intorno al quale ruoteranno tutti i molti universi presenti alla mente di
Amerio – letteratura, filosofia, filologia, storia, teologia, e anche le più minute e ridenti aneddotiche –
sarà costituito dall’umiltà intellettuale, derivata dall’umiltà esercitata, intorno
a cui quel ragazzetto si fa uomo, si fa cattolico, si fa poi pensatore, quindi insegnante,
infine cittadino: la buona volontà germina in Amerio il pensiero, che a sua volta conduce alla realtà
operante dell’atto vivo sia nella sua polis adottiva di Lugano, che nella Civitas Dei della Chiesa.
Questo è il metodo: prima disposizione, quindi pensiero, infine atto.
È il metodo cattolico
per eccellenza, e tipicamente ameriano, anzi è proprio quel particolare metodo di verità-tradizione che sostanzierà
tutta la vita di Amerio di un’unica idea, se per verità-tradizione si intende quello che egli intendeva, il
nous dell’idea (trascendente, precedente, eterna), che nell’uomo si invera in una Traditio
storica, in progressu, vitalistica.
In altre parole: la buona
volontà, che, come sappiamo, è di per sé umile, disarmata e semplice, dispone a pensare umilmente, e dispone
anche a ritenere che l’umiltà sia la nozione principe del pensiero, tanto quanto il pensiero fa l’uomo, come
Amerio affermava. Questa humilitas, da lui presto riferita unicamente alla specificità cattolica come pensiero motore
del pensiero umano, diviene per Amerio la caratteristica saliente del cristianesimo, l’elemento che fa il cristianesimo,
che fa cioè la società di chi vuole farsi uomo: « Il principio primo del cristianesimo – scrive
in Iota unum,– è l’obbedienza », 1[ROMANO AMERIO, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Riccardo Ricciardi Editore, Milano - Napoli 1997, § 147, p. 28, ora Lindau, Torino 2009, p. 40] o ciò che di quella virtù sociale è l’equipollente individuale: l’umiltà.
Che obbedienza? che umiltà? Entriamo dunque nel secondo centimetro. A diciannove anni Amerio perviene a individuare con candore – un candore
che non lo abbandonerà mai – il ragionamento che spiega la religione: « È tutto l’uomo che,
rapportando se stesso alla natura, o viceversa, riconosce la subordinazione, la dipendenza, la precarietà, l’insufficienza
insomma dei due termini [‘io’ e ‘natura’] a risolvere la complessità che [essi] formano ».
2[ROMANO AMERIO, Iuvenilia, La
religione e la sua valutazione nel pensiero moderno, « Pagine nostre », aprile-maggio 1924, p. 520.]
Due anni dopo dirà:
« Il problema dell’uomo è il problema dell’adorazione, e tutto il resto è fatto per portarvi
luce e sostanza ». 3[ROMANO AMERIO, Iuvenilia, Di
un bisogno dei Contemporanei, « Pagine nostre », 1926, p. 24.] Cioè: onori Colui da cui dipendi;
e, se da lui dipendi in tutto, adori.
Infatti, rapportando se
stesso a sé, alla madre, al padre, ai fratelli, al mondo, Amerio, ancora ragazzetto, come tutti i pueri compie un confronto,
fa un calcolo, sulla base dei primi dati forniti dal lume della ragione naturale. Tutti i ragazzetti, infatti, iniziano a pensare
a partire dalle certezze universali prefilosofiche e prescientifiche chiamate filosoficamente sensus communis, cioè
dai presupposti di cui parla in innumerevoli libri il professor Livi. 4[Cfr. ANTONIO
LIVI, Dizionario storico della Filosofia, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2000, nella quale opera, riferendosi
l’Autore in generale al sensus communis « come “sistema organico di certezze universali e necessarie”
», completa tale sistema di « un fondamento razionale della realtà in Dio, prima Causa e ultimo fine
» (voce senso comune).] Sicché tutti i pueri e le puellæ della Terra intuiscono
I), i principi primi (di identità e di non contraddizione) che contrassegnano le cose nella loro individualità;
II), il senso di sé (della propria realtà); III), il senso dell’altro (simile a sé);
IV), il senso del mondo (realtà circostante); V), il senso di una legge universale superiore a sé
e agli altri (cioè Dio); e, VI), la certezza della verità e l’idoneità della ragione
a individuarla.
I pueri –
ciascuno di noi lo riconosce nel proprio intimo – compiono innocentemente le operazioni di avvicinare e distinguere,
addizionare e sottrarre nei ragionamenti, nei sillogismi, le cose. Innocentemente, cioè con perfetta immediatezza,
semplicità e purezza di cuore. Amerio ha il pregio di mantenere lo stato di fresca puerizia ricevuta dal battesimo, e,
impossessatosi successivamente dei più impegnativi strumenti culturali, decide di ricercarne le cause, cioè di fare
filosofia, e farla in primo luogo sui motivi per cui si ha la religione nel mondo, cioè sui motivi per cui si è
portati, quasi per natura, a essere umili.
E non solo egli non smentirà
mai le scoperte prefilosofiche fatte da ragazzetto, ma, con tutte le sue ricerche, darà loro le conferme più significative:
Epicuro, Agostino, Boezio, Bernardo, Campanella, Manzoni, Rosmini, positivamente, e, in negativo, in particolare
Cartesio, Sarpi, Malebranche, Leopardi.
Sicché, quando poi
sul letto di morte l’uomo detterà con le sue ultime parole le prime da porre alla Premessa di Stat veritas
– il libro, che gli avevo proposto di fare, era ormai pronto alla stampa – proferirà parole da leggere al lume
della nozione di umiltà/dipendenza ora vista: « La parola che un parlante proferisce è più ed è
altra cosa dall’uomo che la proferisce: certo, la parola è causata da un parlante perché una parola è
proferita da un parlante. In questo senso il parlante, l’autore, la mente, è la causa della parola, dell’opera,
dell’idea: siamo, qui, propriamente in una linea causale. Ma il parlante umano che proferisce quella parola non è
la causa prima di quella parola come parola, perché essa, avanti di essere detta dall’uomo parlante è detta
dal Verbo Divino, Parola increata ». 5 [ROMANO AMERIO, Stat Veritas. Seguito a « Iota unum », a cura di ENRICO MARIA RADAELLI, Riccardo Ricciardi Editore, Milano - Napoli 1997, ora pubblicato da Lindau, Torino 2009, Premessa.]
La parola umana, specie
se religiosa, dipende da una parola che la precede e che è la parola del Verbo, è la Parola-Verità
discendente dai Cieli e che sulla terra, per via delle parole seconde proferite dall’uomo, si fa Traditio tanto quanto
‘trae’, trasporta e traduce nei suoi idiomi e segni storici la Trinità da proferire, che
è l’unica cosa da proferire.
« Beninteso
– continua Amerio –, bisogna tener ferma questa distinzione: ci sono delle parole che sono proferibili dal Verbo
e non sono proferite né proferibili dall’uomo. Queste possono essere certamente esaminate per se stesse, [...] senza
nessuna attenzione al parlante umano che le riferisce. Qui ha origine la loro indipendenza e la loro superiorità sull’uomo
».
Amerio sottomette ogni
moto buono dello spirito al Verbum, e in altre pagine di Stat veritas preciserà che questa dipendenza
è governata precisamente dalla grazia. La coscienza di una fondamentale dipendenza come primo dato di natura non verrà
abbandonata dal filosofo mai, anzi sarà il terreno di scavo più fertile e specifico del suo fertile acume.
Ho intitolato un paragrafo
della mia monografia su Amerio 6[ENRICO MARIA RADAELLI,Romano
Amerio. Della verità e dell’amore, (Introduzione di Antonio Livi), Marco Editore, Lungro di Cosenza 2005; nella monografia, corredata dagli Interventi (appositamente richiesti da chi scrive) di don Divo Barsotti e dei vescovi Mario Oliveri e Antonio Santucci, sono date le più ampie e circostanziate notizie sul pensiero più generale del Luganese, in primo luogo sulla causa primigenia e assoluta che egli attribuiva – e che qui viene per la prima volta in assoluto come tale rilevata – della crisi della Chiesa e della cultura contemporanea, vale a dire la « questione del Filioque », o « dislocazione della divina Monotriade »; trovano posto poi le uniche due interviste da lui concesse (a « Sì sì no no » e a « Il Sabato »), le tre recensioni su fogli cattolici (« Civiltà Cattolica », « Jesus » e quella, mai pubblicata, per OR), il Piccolo glossario per la lettura di Iota unum, infine l’elenco cronografico di tutte le sue opere filosofiche.] L’originalità di un pensatore che non voleva essere originale, per sottolineare
quanto solo lo spirito di obbedienza alla Traditio – che dà l’essere che è nella Verità
– sia datore di originalità; al contrario, chi sposta la Traditio avanti alla Veritas non solo
ne cambia i connotati nella inventio, per la perdita di veritas e di essere poste nella Traditio, ma perde
anche quel mordente che spinge l’uomo a fare traditioin progressu, perde l’originalità di chi
ha il senso dell’origine, cioè del Logos di verità, e vaga in sofismi antistorici – come Amerio
dirà in Iota unum – perché scardinati dalla Veritas d’origine, dalla memoria dell’essere.
Con i fondamenti prefilosofici,
il giovane Amerio compie il suo personale sillogismo di dipendenza, in onore alla ragione che lo fa uomo, senza soluzione
di continuità con le scoperte compiute nell’innocenza: il vero uomo è e resta puer, secondo il sacro
detto: « Chi non si fa piccolo come un bambino, non entrerà nel Regno dei Cieli ». 7 [Matth., XVIII, 4.]
La religione, osserva il
filosofo a diciannove anni, 8[ROMANO AMERIO, Iuvenilia, La religione e la
sua valutazione… cit., p. 452.] va riconosciuta legata a una « tensione innata » dell’uomo
al bene e al vero, e, nella determinazione di dipendenza da Dio, è giudizio così intrinseco all’uomo
– come rileverà anche Livi nelle sue indagini sul sensus communis –, da essergli quasi connaturato,
turbato solo dalle conseguenze del peccato originale, per cui ciò che prima sarebbe risultato sicuro, dopo viene
messo a repentaglio dalle passioni, dalle circostanze, dalle preoccupazioni, dal proprio Io, dai disordinati moti delle
mode, dai vagheggiamenti di potenza e persino però dai moti dell’amicizia e di sane preoccupazioni, che a volte prendono
il sopravvento sui giudizi di verità. Ma il primo giudizio di dipendenza, la primareligio a Dio è,
per Amerio, quasi ‘di natura’.
A questo punto dell’ideale
percorso che stiamo compiendo sulle tracce di Amerio – siamo al terzo centimetro –, avviene in lui la scoperta
centrale della relazione tra ragione e libertà: scoperta, ancora una volta, decisiva, e, ancora una volta, confermativa,
in onore a quella Traditio veritatis cui egli sa essere appesa la vita. Amerio scopre – per così dire –
la ateoreticità dell’errore; scopre cioè – con Socrate, Platone, Aristotele, Tommaso, e poi con Manzoni,
Rosmini e persino Croce – che l’errore, di per sé, è tutto fuori dal percorso sillogistico,
estraneo alla teoresi, al ragionamento, al raziocinio, perché nasce dalle passioni, che levano al raziocinio la sua innata
mansuetudine. L’errore è ateoretico, ed è passionale.
Il fatto è –
ecco il fattore libertà – che quel cibo naturale dell’intelletto che è la verità,
o evidenza del reale, è l’unico di cui la mente dovrebbe nutrirsi: l’evidenza, nota Amerio in un suo
inedito, 9[ROMANO AMERIO, Registrazione dell’aprile 1994, avvenuta in Lugano:
Sulla ateoreticità dell’errore.] costringe l’intelletto, e la persuasione è doverosa.
Dove sta la libertà? La libertà, spiega Amerio, 10[ROMANO AMERIO,
Stat Veritas… cit., chiosa 14.] accompagna l’uomo proprio nella costruzione del raziocinio, quando l’uomo
avvicina i termini corretti da confrontare, e lì decide di stare o non stare a quei termini, cioè di accettare
o non accettare il responso, il quale, di per sé, fin dal momento in cui sono apparecchiati i termini, è chiaro,
inconfondibile, ineludibile.
Prendiamo il più
classico dei ragionamenti: « Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; dunque Socrate è mortale
». La libertà dell’uomo dovrebbe seguire il ragionamento, ma può anche permettere che vi entri una qualsiasi
remora, un pulviscolo di sabbia che lo inceppa e ne svia la doverosa conclusione: può entrarvi l’ignoranza
(l’ipotesi, p. es., ‘tutti gli uomini sono mortali’ non è adeguatamente accertata); una qualsiasi e anche
buona passione (p. es. la fretta di arrivare al giudizio, oppure il desiderio di vedere in Socrate qualcosa di più
di un uomo: un immortale); un apriorismo culturale (p. es. appartenere a una scuola filosofica avversa alla socratica,
per cui si tenta in ogni modo di trascinare il ragionamento in un circolo vizioso). E via dicendo. La libertà segue
la verità, perché è libertà intellettiva, come nella Trinità l’amore, la
volontà, cioè la libertà di Dio, è di Intelletto, spira dal Verbum: « [Patre] Filioque
procedit », ricorda Amerio, e mai l’inverso, perché: « In Principio era il Verbo »,
11[Ioan., I, 1] e, ci teneva a far notare il teologo, « non
l’Amore ».
Nota Claudio Vasale che
persino Spinoza riconosceva « l’area divina della razionalità, per la quale “necessità”
è “libertà”, nel senso che la libertà si risolve nel “sì” assoluto alla necessità
». 12 [CLAUDIO VASALE, L’opera di Todisco in prospettiva storico-filosofica,
« Sensus Communis »wwwsensuscommunis.net,
vol. 5 (2004), n. 1 (gennaio-marzo), p. 73.]« Il nostro compito – conclude
Vasale – è di aderire all’orizzonte della razionalità pura ». Aderire cioè al percorso
che si compie in una pura teoresi sillogistica: la libertà, che potrebbe distogliere l’intelletto da uno qualsiasi
dei termini della teoresi, o dal giudizio finale, dice invece sì all’intelletto, e rispetta lo svolgimento della
ragione. Questa libertà necessitata, però, non piace praticamente a nessuno, tranne che ai pueri, poiché
a tutti i non più pueri preme l’indipendenza del proprio Io. Ma Amerio non si lascia intimidire né
dalle proprie né dalle altrui passioni, dovessero essere anche le più sante, come amicizia, amore, pace.
Il punto strenuo di tutta
– e sottolineo tutta – la produzione filosofica di Amerio fu rivolto a far emergere il primato della verità
sulla libertà, dell’intelletto sulla volontà, o, ancora, dell’idea sull’atto,
e ciò PER SALVARE LA LIBERTÀ, L’AMORE, DA SE STESSI.
Siamo alquarto centimetro
del percorso ameriano: al punto cruciale di tutta la sua metafisica, di tutta la sua vita.
Con l’andar dei secoli,
infatti, pare quasi che per la salita al Cielo si siano delineate nel sentire cattolico due vie preminenti: l’una privilegia
l’intelletto, lo spirito, e dunque insegna esservi prima la verità, l’idea, il progetto, dunque il Verbum,
cui gli atti, la storia, la libertà, l’amore, la volontà seguono; l’altra invece privilegia il cuore,
con una scuola che vuole caratterizzarsi caritatevole, e punta tutto sull’amore, sulla libertà, sull’amicizia,
sostenendo di superare le posizioni dogmatiche con la forza dell’amore: essa insegna che Dio non è solo in una
religione, ma piuttosto in tutte le religioni che cercano Dio, cioè nella religiosità, che è l’anelito
stesso che l’uomo ha di Dio.
Come si vede, la prima
strada è obbligante: costringe la volontà a seguire la luce posta dall’intelletto, e chiarisce all’uomo
il senso del dovere. L’uomo deve, ma del dovere può in ogni momento liberarsi (e questo Spinoza non l’aveva
afferrato: egli scambia un doveresempre rifiutabile per una inibizione).
L’altra strada invece
sembrerebbe liberatoria: l’uomo, posta la libertà (o volontà, o amore) avanti alla ragione,
alla verità, al dogma, in un assoluto che gli permette di dire: « L’uomo è libero di scegliere anche
la propria religione, se la sua coscienza lo comanda ». 13[GIOVANNI PAOLO II, Discorso nella Giornata mondiale per la pace, I gennaio 1999.]
Amerio osservava: «
Ma dire che l’amore è sopra ogni dottrina è una dottrina. Dunque l’amore non precede mai la verità,
la libertà non precede mai il dogma, perché il nuovo dogma è che c’è solo l’amore, che
c’è solo la libertà, e questo è un sofisma, è un errore che disloca le essenze nella divina
Monotriade, e da lì nel creato ». E nelle sue registrazioni postreme per una conferenza ad Albano Laziale,
annota: « È ancora, questo, un ferimento del Verbum », 14 [ROMANO AMERIO, conferenza per registrazione: La questione del Filioque. Ovvero la distorsione della divina Monotriade, trascrizione della relazione appositamente registrata e poi letta da chi scrive per conto dell’Autore, allora ancora vivente, al Convegno della rivista “antimodernista” « Sì sì no no », Albano Laziale, 8-10 dicembre 1994.] e se ne capisce sùbito la causa: gli vien tolta la spirazione d’amore. 15[TOMMASO
D’AQUINO, Summa Theol., I, q. 43, a. 5, ad 2: « Il Figlio è Verbo, ma non un verbo qualunque, bensì un verbo che spira l’Amore: cosicché sant’Agostino può affermare: “Il Verbo di cui ragioniamo è una cognizione piena d’amore”. Quindi il Figlio non è inviato per un perfezionamento qualsiasi del [nostro] intelletto, ma solo per quell’insegnamento da cui prorompe l’amore ».]
Augusto Del Noce afferrò
immediatamente la gravità della prospettiva illuminata da Amerio in Iota unum, quando lesse il bigliettino con cui
l’amico lo avvertiva dell’uscita del libro e gli rispose con una lettera di inarrivabile sintesi: « Forse
sbaglio – scrive – [...]: ma mi è venuto in mente un bellissimo Suo saggio del ’37 sull’arbitrarismo
teologico in Cartesio; e quando ho letto nella Sua lettera dell’ordine delle essenze, e della Chiesa che sussiste proprio
in tale ordine (che ultimamente è il Verbo), non ho potuto fare a meno di ricollegare la critica che muoveva allora a tale
tesi cartesiana alle tesi di oggi. Quello di Cartesio è un punto centrale della storia della filosofia, e la Sua critica
rigorosa è molto difficile. Ma le conseguenze della tesi cartesiana sono state enormi.
« Ripeto, forse
sbaglio. Ma a me pare che quella “restaurazione cattolica” di cui il mondo ha bisogno abbia come problema filosofico
ultimo quello dell’ordine delle essenze ». 16 [AUGUSTO DEL NOCE,
Lettera ad Amerio, 25 settembre 1985, in: ENRICO MARIA RADAELLI, Romano
Amerio. Della verità e dell’amore... cit.,, pp. 231-32.]
Non so perché Del
Noce, dopo un’analisi così puntuale, si limitasse a fare considerazioni dai risvolti immani lasciando poi l’amico
a esporsi tutto solo. Però egli ha il merito di rendersi conto immediatamente che gli argomenti portati da Amerio in Iota
unum non sono affatto “tradizionalisti”, ma, nati da pagine scritte nell’insospettabile ’37, fanno
teologia solo dopo aver fatto pura metafisica, essendo frutto di un esame di scritti di Cartesio di metafisica,
a base di una buona teologia.
Ma in cosa consiste questa
storia di Cartesio? Per afferrarne l’importanza va registrato il fatto che a trentadue anni il giovane filosofo rifiuta
la docenza a Milano offerta con amichevole insistenza da padre Gemelli, per il perentorio rifiuto di tesserarsi al fascismo, e
segnalo questo risvolto della vita del filosofo perché quel rifiuto è motivato proprio dal punctus dolens
che stiamo toccando, perfettamente espresso in un suo aforisma: « Il fatto primario è che la filosofia crociana
(pari in questo alla gentiliana) covò il fascismo, diffondendo in Italia le dottrine antidemocratiche dell’idealismo
tedesco [di Hegel]. In sostanza Croce professa [che] il criterio è il fatto ». 17[ROMANO AMERIO, Aforisma 276, in ENRICO MARIA RADAELLI, Romano
Amerio. Della verità e dell’amore... cit., in testata al § IX, p. 119.] Il criterio delle «
dottrine idealiste antidemocratiche [di Hegel] è il fatto », 18[Ibidem.] e Amerio non aderisce a una prassi politica
– come poi non aderirà a prassi religiose – frutto dell’usurpazione idealistica e antidemocratica
del trono assoluto dell’idea da parte del fatto.
Questo è l’immane
scambio di fattori su cui Amerio, studiando Cartesio, porta la sua attenzione, poiché è la metafisica di Cartesio,
con la dislocazione di essenze perpetrata sulla Trinità, a trascinare il mondo alla rovina della ‘modernità’.
Vogliamo provare a entrare
nell’ultimo, decisivocentimetro? Essendo metafisico, ci porterà al centro di Amerio.
Nella classica concezione
scolastica, infatti – inizia a dire Amerio – le idee eterne si trovano in Dio, e da Dio sono viste nella propria
essenza « come in uno specchio »: 19 [TOMMASO D’AQUINO,
Summa Theol., I, q. 15, a. 3.] Dio conosce le idee perché conosce perfettamente se stesso come infinitamente
partecipabile e imitabile e, così conoscendosi, costituisce le idee, anteriormente all’atto libero della volontà,
con cui poi alcune anche le produce, creando il mondo.
Cartesio invece, osserva
Amerio, non accetta che le idee della creazione, le « vérités éternelles », specie di
materia e di male, possano costituire l’essenza di Dio, espianta la loro idealità dall’essenza
di Dio e la inradica nella sua volontà, convinto che essenza e volontà siano in Dio distinte come nell’uomo:
« Quando si considera attentamente l’immensità di Dio – scrive Cartesio – si vede chiaramente
che è impossibile che ci sia qualcosa che non dipenda da lui, non soltanto di tutto ciò che sussiste [cioè
la realtà], ma anche che non c’è né ordine, né legge, né ragione di bontà e di
verità [cioè l’idealità] che non ne dipenda ». 20 [RENÉ
DESCARTES , Risp. alle VI obbiezioni, n. 8: « Quand on considère attentivement l’immensité
de Dieu, on voit manifestement qu’il est impossible qu’il y ait rien qui ne dépende de lui, non seulement de
tout ce qui subsiste [realtà], mais encore qu’il n’y a ni ordre, ni loi, ni raison de bonté et
de vérité [idealità] qui n’en dépende ». ] Ordine, legge, ragione di
bontà e verità non sono l’essenza di Dio, ma fuori, e dipendono da lui come ne dipende il mondo.
« Sarebbe difficile – nota a questo punto Amerio – abbracciare in poche righe il significato profondo
ed eversivo di questa tesi cartesiana ». 21 [ROMANO AMERIO, Arbitrarismo
divino, libertà umana e implicanze teologiche nella dottrina di Cartesio, suppl. al vol. XXIX, Società
Editrice « Vita e Pensiero », Milano, luglio 1937, p. 18.]
Con questa posticipazione
delle idee al momento volitivo di Dio, Cartesio crede di salvare la sua immacolatezza, e non si avvede che ne nasce l’arbitrarismo,
né che ne vengono snervate assolutezza di dogma e certezza di teoresi. Da qui infatti nasceranno il dubbio ideologico,
il pirronismo e il relativismo.
Le « vérités
éternelles » diventano esterne al pensiero divino e, riguardo all’assoluto, divengono degli accidenti come
la creazione. 22 [Mentre per san Tommaso Dio pensa il mondo necessariamente,
ma non lo vuole necessariamente, per Cartesio Dio né lo pensa né lo vuole necessariamente, ma solo come cosa
possibile.] Questo, rileva Amerio, è prima di tutto « in netta antitesi alla teorica del Verbo
», è cioè in antitesi alla Trinità. 23[ROMANO AMERIO,
Arbitrarismo divino… cit., p. 18.]
Il Verbo, svuotato dell’idealità
del mondo, non è più « lo specchio» in cui Dio ama e rimira la propria potenza e il proprio amore
di partecipazione in ordine, legge, ragione e idealità del partecipabile: le Scritture
ripetono spesso la formula « Io oggi TI COMANDO DI AMARE il Signore tuo Dio »: 24 [Deut.,
XXX, 16.]: « ti comando » sta al Verbo,
che proferisce l’Amore: « di amare ». Chi abbatte il Verbo, nello « specchio » abbatte
la partecipabilità di Dio, cioè l’amore, e, sradicandolo dalla sua causa, incrudelisce lo stesso amore.
Con la dislocazione delle
idee dal necessario dell’idealità all’accidentale della creazione, non solo Cartesio opera lo
scadimento dall’idea al fatto, ma priva le idee della creazione del loro riferimento all’idealità
assoluta nel Verbo, le trascina nell’immanenza della volontà, sicché, dice Amerio, proprio per il fondatore
del razionalismo Dio diviene necessariamente « cieco, fattuale, disordinato, irrazionalistico ». Infatti «
mondo e conoscenza sono considerati effetti dell’arbitrarismo divino anziché dell’idealità assoluta
divina ». 25[ROMANO AMERIO, Arbitrarismo divino… cit.,
p. 18.]
Ma l’arbitrarismo
in Dio – conclude Amerio – indifferente e irrazionale se non è dovuto all’idealità, nell’immanenza
aconcettuale porta al relativismo, all’indifferentismo e al materialismo. Ciò avviene in tutte le dottrine seguite,
che accantonano o anche solo vanificano il Verbo. L’essenza creata, indipendente da ogni determinazione dell’azione
creatrice, rende le due essenze, Increato e creato, reciprocamente inintelligibili (esattamente come nella metafisica
del monoteismo islamico, poggiato sull’identica estrapolazione dell’idealità nella volontà).
L’articolo su Cartesio
trafigge l’errore che Amerio chiamerà « della dislocazione della divina Monotriade », di cui scrive
anche in Iota unum, 26 [ROMANO AMERIO, Iota unum… cit., p. 295-96 (p. 315 in edizione Lindau.] errore primo di ogni altro errore moderno e prima fonte di tutti i guai dell’Occidente.
La centralità teoretica universale del Verbo ridisegnata da Amerio è il suo più profondo principio di cogitazione,
la sua più alta indicazione, il più certo regolo a ogni ulteriore ragionamento.
Entrati per pochi palmi
nel pensiero di un « mite e umile di cuore », abbiamo potuto constatare che la sua ultima preoccupazione fu
salvare l’amore, perché la pianta dell’amore si radica solo nel Verbo, che è Verbo spirante
amore. Umiltà e amore dunque: questa è la farina della gran mola di Amerio.
Per approfondire ulteriormente
c’è poi, tra pochi mesi, la mia monografia su Amerio, con un’Introduzione
del professor Antonio Livi, un Interventodi don Divo Barsotti, e i contributi di ben due vescovi, il carteggio con Del
Noce, le interviste di Amerio, le recensioni anche inedite su Iota unum.
Faccio, per concludere,
tutti i miei voti affinché le autorità diocesane preposte, raccolte tutte le testimonianze di eroica bontà
intellettuale e pratica su Amerio, mettano presto in mano alle autorità competenti un’umile ma intensa richiesta:
che si apra la causa di beatificazione di Romano Amerio, uomo dal cuore puro, mansueto e schietto, la cui umiltà e obbedienza
forgiarono tutta la vita e, prima ancora, tutto il suo pensiero sulla vita. Ecco la cosa per cui potrà andare fiera, e
tanto, la Città di Lugano. È tutto.
* * *
Enrico Maria Radaelli
* Docente di Filosofia dell’estetica e direttore del Dipartimento di Estetica
della Associazione Internazionale “Sensus Communis” (Roma), collabora alla cattedra di Filosofia della Conoscenza
(sezione Conoscenza estetica) della Università Lateranense.
Gli Atti del Convegno possono essere richiesti a Giampiero Casagrande Editore,
oppure a E. M. Radaelli con una