La prima domanda emergente,
quando la si scopre, è: come mai proprio lassù? Giacché chi entra nel buio profondo della navata di sant’Alessandro
in Zebedia a Milano, socchiudendo gli occhi in un fulgor primæ lucis, lentamente coglie la drammatica, vivida simbologia
espressa nei colori fulgidi di quella vetrata che gli sta, altissima, dinanzi. Parlo del finestrone rapito al sommo del coro della
chiesa.
Ultimi decenni dell’800.
I fratelli Bertini, rinomati e umili Mastri vetrai lombardi, sono commissionati a foggiare cinque grandi vetrate da collocare
nel catino del coro della chiesa dei Barnabiti. Una chiesa tardobarocca nel centro di Milano, monumentale scrigno di tesori d’arte
sacra postriformista, complessa e sorprendente sotto plurimi aspetti: basti pensare che propone cupole che non ci sono, e quelle
che ci sono le mette in luoghi dove non ce le si aspetta. Sono i ‘labirinti’ raffinati dell’epoca. Questo sacro
monumento ne è pieno.
Per quanto riguarda i finestroni
del coro, guerre, devastazioni e incendi ne rovinano quei quattro attraverso i quali scendevano ai fedeli le grandi virtù
di Fede, Speranza, Carità, Fortezza. Rimane il centrale. Rimane quello innalzato proprio sopra
l’aureo e fastoso altare maggiore, collocato in fondo all’oscura vastità del tempio.
Qui vediamo un Crocifisso,
ai piedi del quale si agitano le consuete figure: Maria madre di GESÙ, sorretta nella vertigine da Maria di Cleofe e da
Giovanni, mentre Maria di Magdala è ginocchioni sulla destra. A mezz’aria, nel cielo corrusco di nembi, due serafini
si raccolgono mestamente in contemplazione della Vittima. Ma in secondo piano, dietro la Maddalena, si osserva una donna misteriosa,
piangente, interamente ammantata in un velo violaceo, il capo chino tutto in ombra. Questa
enigmatica figura è la Sinagoga. 1 [Autorevole, sebbene indiretta
conferma (forse notevole proprio in quanto indiretta), la fornisce lo storico dell’arte Vittorio Sgarbi, il quale, giusto
a proposito della figura giottesca della Sinagoga che abbiamo appena studiato, la segnala come « figura bellissima con
il viso mezzo nascosto dal velo, immagine di straordinaria modernità che tornerà spesso nella pittura italiana degli
anni Venti o Trenta del Novecento » (Gli immortali, Rizzoli, Milano 1999: Giotto, pag. 23). Le parole
dello studioso evidenziano la diffusione di una figura “misteriosa e in viola”, nell’arte sacra italiana, proprio
negli anni in cui i Maestri Bertini pongono mano alla loro opera. Gli specialisti della cappella patavina accreditano pressoché
unanimemente l’identificazione della misteriosa figura della Porta Aurea con la Sinagoga, per cui, seguendo lo Sgarbi, bisogna
dedurre che nei primi decenni del Novecento i pittori lombardi, pittando la Violacea, raffiguravano la Sinagoga.]
Essa, nel colore della pena, si affligge per la condizione che da sé si è procurata. Per cui, oscurati gli occhi
nelle tenebre del pianto, non vede la Croce rifulgere.
Come abbiamo accennato, 2 [Vedi Prefazione, p. XXVIII.] sul piano strettamente artistico questo finestrone non ha una sua propria portanza stilistica, la sensibilità
coloristica superando in suggestione, nella migliore tradizione lombarda, l’intensità del disegno: i cobalti e i
rubini si impongono a lemmi espressivi tipicamente veristi, ma di maniera, seguendo una vena figurativo/simbolica molto in voga
a quel tempo in arte come in letteratura; i gesti sono eloquenti, tragici, a sottolineare, con espressivo sentimentalismo, il
drammatico momento. Nell’ambito di queste intenzioni è significativa l’apparizione dei due cherubini sospesi
ai lati della croce, a palesare la presenza divina nel momento cuspide della storia.
È in questo contesto,
così fortemente intriso di umile pathos e di amore straripante proveniente da laggiù, dai banchi dei fedeli,
di genuino e popolare conoscimento dell’immolazione di Dio, di pietosa contemplazione dei tanti dolori addensati intorno
a quel patibolo, è qui che si inserisce la figura della Sinagoga.
Doloroso è il Cristo
inchiodato che rivolge gli occhi al Padre nell’estrema offerta: « Padre, nelle tue mani raccomando lo spirito mio
» (Luc., XXIII, 46b). È il dolore del Redentore che conosce quanti sono e quali gli uomini che la sua immolazione
non potrà salvare. Dolorosa è la Madre, quasi in deliquio per lo struggimento spirituale sottolineato dal gesto
largo delle braccia, che assomma nel cuore le roventi ferite delle sette spade di dolore che la fanno mistica Corredentrice. Doloroso
è Giovanni, in cui si riversa tutta quell’umanità amorevole e devota che, nei secoli, si riconoscerà
“figlia della Redenzione”. Dolorose sono le due Marie, cioè la madre di Giacomo, dietro la Vergine, materna
e appassionata nel guardare quel GESÙ che ha visto fanciullo, vedendolo ora morire come un malfattore, e Maria Maddalena,
prona e adorante, vera peccatrice che, ben compresa del fatto che a generare quella morte sono stati i suoi peccati di malfattrice,
ora dal pentimento è straziata.
Dolorosa infine la donna
in viola, qui presente in due simboliche sincroniche, cioè sia in quella che contraddistingue Padova, sia in quella figurata
a Parma e Strasburgo. In quanto ‘venerabile Sinagoga’ essa presenzia al momento topico di passaggio dall’Antico
Patto al Nuovo, così come riconosciuto da tutti i Padri e Dottori della Chiesa, come abbiamo detto sopra: « Nella
morte di Cristo l’antica legge ebbe il suo compimento, secondo le parole di lui stesso prima di morire: “Tutto è
compiuto”. 3 [Ioan., XIV, 31.] » (Summa
Theol., III, q. 47, a. 2).
Il suo dolore è
dunque quello di Abramo, di tutti i Patriarchi, di Mosè, di Davide, di tutti i Profeti, quindi di tutti gli uomini di Dio,
da lui chiamati a sigillare e confermare un’Alleanza eterna nel promesso Messia. Tutti i Patriarchi e i Profeti furono in
qualche modo presenti, ciascuno a suo tempo, alla morte cruenta di Cristo, Messia da loro visto e prefigurato, come detto supra,
e come sancisce l’autorità di Tommaso: « Dopo il peccato il mistero di Cristo fu creduto esplicitamente
non solo per l’incarnazione, ma anche rispetto alla risurrezione, con le quali l’umanità viene liberata dal
peccato e dalla morte. Altrimenti [i maggiorenti ebrei] non avrebbero prefigurato la passione di Cristo con dei sacrifici, sia
prima che dopo la promulgazione della legge.
« E di questi
sacrifici i maggiorenti conoscevano esplicitamente il significato; mentre le persone semplici ne avevano una conoscenza confusa
sotto il velo di quei sacrifici, credendo che essi fossero disposti per il Cristo venturo " (Summa Theol., II-II,
q. 2, a. 7).
Quindi, nella prima accezione,
vediamo nella Sinagoga piangente il dolore di Abramo che, andando verso il monte Moria 4 [Vedi
Gen., XXII, 2: « Va’ nella Terra della visione ", l’ebraico ‘Terra di Morijja’.
È la collina di Sion, dove Salomone costruì il tempio del Signore, identificata da II Paral., III, 1: «
Salomone cominciò quindi a costruire la casa del Signore in Ierusalem, sul monte Morijja ".]
per sacrificarvi il figlio, vide su quel monte lontano la croce di Cristo. Vediamo il dolore di Giacobbe, che aveva profetizzato
del Cristo. 5 [« Il patriarca Giacobbe aveva profetizzato
del Cristo dicendo: “Egli laverà nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo mantello”. (Gen.,
XLIX, 11b). Avrebbe infatti lavato nel proprio sangue la veste del nostro corpo, di cui egli stesso si era rivestito "
(San Gaudenzio da Brescia, vescovo, Trattato II; CSL 68, 29).] Vediamo il dolore di Mosè,
che di Abramo e di Giacobbe scrisse e che innalzò il serpente di bronzo nel deserto. 6 [Simbolo
del Cristo, vedi Ioan., III, 14, in cui il Cristo si svela dal serpente di bronzo di Num. XXI, 4-9.]
Vediamo il dolore di David, cantore divino che pianse nel Salmo XXI la Passione del Signore in ogni suo atroce particolare
e nel XV la sua Risurrezione.
Questo universale dolore
è d’altronde prefigurato, oltre che in molti luoghi della Scrittura, nell’episodio della Trasfigurazione di
Nostro Signore: nel senso che quegli stessi Mosè ed Elia che là significavano la Legge e i Profeti, e che erano
realmente presenti in spirito ai lati del Cristo trasfigurato, parlavano con lui appunto e precisamente dell’imminente Passione
e morte, e il loro dire non poteva che essere di animi adoranti, palpitanti, contemplanti l’immane prossimo evento.
Ma la donna in viola non
rappresenta solo la ‘venerabile Sinagoga’ propedeutica e quasi matrice alla Chiesa, ma anche i nemici di Cristo, i
giudei che lo condussero alla morte infame, la ‘Sinagoga di Satana’ di cui parla Giovanni nell’Apocalypsis.
7 [Apoc., II, 9b; III, 9b.]
Piange anche questa Sinagoga, come la prima, ma il suo pianto, tutt’affatto diverso, è dovuto allo stesso dolore
che provò Giuda 8 [Matth., XXVII, 3-5: « Allora
Giuda, che l’aveva tradito, vedendo che GESÙ era stato condannato, ne ebbe rimorso e riportò i trenta denari
ai principi dei Sacerdoti e agli anziani, dicendo: “Ho peccato, poiché ho tradito il sangue innocente”. Ma
quelli risposero: “Che importa a noi? Pensaci tu”. Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio si allontanò
e andò a impiccarsi ".] quando, pentitosi, si impiccò.
Del pentimento di Giuda
san Leone Magno dice: « Giustamente, secondo la predizione del Profeta, la sua orazione divenne peccato: perché,
consumato il delitto, la conversione dell’empio fu tanto perversa che peccò con la sua stessa penitenza. Il dolore
di questo infelice, simile a quello dei dannati nell’inferno, non lo portò alla penitenza ma all’orrore di
se stesso e alla disperazione ". 9 [Nota di monsignor Antonio
Martini, op. cit., ai versetti di Mattheus riportati supra]
Nota Origene: 10
[Nota di san Tommaso a Matth., loc. cit., in Catena aurea
(I santi Evangeli col Commento che da scelti Passi de’ Padri ne fa Tommaso D’Aquino), traduzione di Niccolò
Tommaseo, Ranieri Guasti, Prato 1873.] « La coscienza non tace mai del
tutto nemmeno nei malvagi. E ne è prova il rimorso di Giuda, prima ancora che la risurrezione di GESÙ gli dimostrasse
sempre più l’orribilità del misfatto. E forse, dopo aver saziato il furore dell’avarizia, Giuda ripensò
quello che GESÙ aveva detto tante volte del proprio patire e del risorgere, e ne inorridì.
« [Quanto
a impiccarsi, bisogna dire che] lo spirito tentatore dapprima induce al male attenuandone la gravità; poi, del male
commesso, ne fa sentire la gravità con senso superbo e disperato, per trarre infine l’anima agli eccessi estremi.
Giuda aveva avuto pur del tempo per il pentimento, e poteva impetrare perdono da chi disse “Non voglio la morte del peccatore”.
Ma negò a sé il perdono col darsi la morte ".
Quello che è detto
di Giuda vale per i peccatori prìncipi del Sinedrio e di Israele, cioè per gli accusatori e uccisori di GESÙ
i quali, mossi come Giuda da avarizia per la brama del potere e del regno su Israele, si ostinarono nel loro peccato. Giuda e
Sinedrio furono accomunati dai medesimi sogni di potere e di gloria, tanto che l’uno e l’altro vagheggiavano un Messia
trionfatore sui Romani, come abbiamo visto, e ambedue, delusi dall’umile Nazareno, desiderarono toglierlo di mezzo perché
se ne facesse vivo un altro, di Messia, più corrispondente alle loro aspettative. Quindi quello che è detto di Giuda
non vale per chi del Sinedrio si pentì, se qualcuno ve ne fu. A parte questi, gli altri sono tutti significati dalla Sinagoga
perversa, quella rappresentata da Benedetto Antelami e dal Maestro di Strasburgo e anche quella che si può ravvisare, in
seconda istanza, nella vetrata di Milano. Vale in terz’ordine, poi, per tutti i peccatori dell’universo e del secolo,
come già detto, induriti nel loro peccato. Non per nulla Antelami li raduna tutti quanti nella tenebra della medesima notte
sinagogale.
E giustamente di tenebra
si tratta. Il viola scurissimo che segnala sempre queste figurazioni non è infatti per il lutto, ma per la cecità,
per l’ottenebrazione che si allunga su tutta la persona: dall’intelletto si allunga come ombra a tutti i sensi che,
come dice Origene, non palpano e non misurano il peccato per quello che è.
Il contrasto con i colori
squillanti che rivestono i quattro primi cristiani sotto la croce è vistoso e semanticamente forte, giacché qui
dominano il blu del cobalto, il giallo aureo e specialmente il rosso di rubino, ovvero i tre colori primari. Questi colori sono
positivi, vitalistici, di dominazione, solari e, per spiegarsi ancora una volta attraverso figure musicali, appartengono al registro
in ‘tonalità maggiore’, che è registro folgorante, regale. Questi sono appunto i colori che più
si addicono anche e proprio per chi sta sotto la croce e da lì attende la vita futura, esuberante e solare, che da essa
croce deriva.
Ma la vetrata lombarda
vale bene un’ode al viola.
Il viola, infinita e trasognante
somma del blu e del rosso in tutte le sue innumerevoli gradazioni, e a questi due colori complementare, semanticamente gli si
oppone: registro minore, denota tristezza, ombra, malinconia, decadenza, regressione, pena, lutto. La convenzione di questi significati
deriva, ancora una volta, da un sillogismo fondato sulla realtà: il viola è il prodotto della mischia tra due colori
primari (cioè innati, non derivati da altri); la mischia è un passaggio; quindi il viola è un colore che
indica passaggio. Anche dal fenomeno quotidiano del tramonto del sole si può avere un sillogismo: il viola è il
colore del tramonto; il tramonto è trapasso dal meridiano al notturno; il viola è il colore di questo trapasso.
Quindi le convenzioni hanno la loro àncora non nella mente, come si crede, ma nel reale, nel mondo. I passaggi successivi
sono per accostamento: la decadenza sta al viola tanto quanto decàde il sole all’orizzonte, la tristezza si imbeve
di viola man mano che il sole si nasconde, e così via.
Per quanto ci riguarda,
bisogna dire che viola è il colore dell’inquietudine, del mistero, dell’arcano, e proprio per questo è
quindi anche il colore della profezia e dei profeti. Ecco perché Verlaine amava il viola: la realtà è un
mistero e il poeta è il suo veggente; la realtà non appare, ma viene suggerita dal poeta, evocata dalla zona d’ombra
in cui si nasconde. Ma questo è proprio ciò che è stato l’Antico Testamento, la venerabile Sinagoga
bendata: sibilla della sublime realtà della risurrezione, realtà nascosta dai peccati dell’uomo, essa ne prepara
i sentieri e ne delinea i contorni, quei contorni che poi si concreteranno con la discesa dal cielo della stessa realizzante Realtà.
La domanda iniziale, ora,
può avere una risposta. Perché lassù? Bene: certo perché per una Crocifissione il luogo più
intrinseco è, come si sa, l’altare. Ma per questa Crocifissione la risposta si espande: la vastità
dei significati raccolti nella Violacea impone la considerazione che, ancora una volta, la prima cosa che la sua raffigurazione
vuol dire è l’essere.
La Sinagoga è.
Ed essa è, nell’oggi della cristianità bimillenaria, presenza imprescindibile alla cristianità.
Giacché, quanto al primo significato, i fedeli possono dare gloria al Signore per la sua Crocifissione, cui debbono la
realizzazione di adamitiche speranze. Quanto al secondo, possono rinforzare il loro timore di Dio, mai troppo rinforzato in questa
cristianità orgogliosa e languente, meditando come sia meglio deporre subito i propri mortali peccati e schiantarsi, come
la Maddalena, ai piedi della Croce.
Ogni giorno, più
in basso, viene celebrata la santa Messa, e non solo una volta al giorno, ma di ora in ora. Inoltre, è perenne la fiammella
rossa che indica Chi, come il roveto ardente, 11 [Vedi Exod., III,
2-6.] brucia d’amore accanto all’altare: la sacra Presenza eucaristica racchiusa nel tabernacolo giorno
e notte palpita nei silenzi. Cosicché la Sinagoga è tirata lassù da un soprannaturale aiòrema, come
a luce, dinanzi all’eternità vibrante, perché anche l’eternità d’amore sa inventare sacri
marchingegni nel gran teatro del mondo per tirare a sé le anime cadute: questa dipolare Sinagoga, come l’anima, può
scegliere di starvi, nella luce, in uno dei due modi, entrambi a lei e all’anima decisivi: o santa, o persa.
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