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La musica, che delle figlie di Zeus pare la più spirituale, in realtà è tutta una passione: persino l’austero
ambrosiano rompe a volte in struggenze che saranno poi topiche e comuni del più pieno romanticismo. E gli scuotimenti armonici
di Monteverdi hanno tale forza, lì tra le sue Selve morali e spirituali, da far sussurrare a fine concerto: «
Ancora una strofa, e sarei scoppiato a piangere ». Come scrive Carla Moreni, quella del “divino Claudio”
è « ricamo a tombolo », è incanto costruito con poche increspature poi rilasciate, è
ardimento di sonorità che a cambiar colore ci metton poco – o tanto –, secondo che sia il basso a sfiatare,
o un controcanto al soprano: emozioni, affecta, lievi o massicci moti come d’ali; e, se gli si toglie il moto di
questi tali affecta, a questa Musa tutta sospesa, si toglie subito tutto.
Ma Monteverdi opera una
decisa rottura non solo tra l’arte sua e quelle di Ambrogio e Gregorio, ma, più ancora, tra l’arte musicale
tutta che lo precede, da Palestrina ai troubadours, dal teatro greco alle salmodie ebraiche, e l’arte musicale tutta
che lo segue, odierni cantautori compresi. Egli si pone a spartiacque di due prospettive culturali che si allungano sui secoli
in avanti e indietro, e che si spingono fino al nocciolo profondo della nostra ricerca: a spartiacque cioè di quelle due
tali prospettive filosofiche poste a fuga a partire dai due sacri Nomi del sommo Intelletto, configurando il paesaggio di una
Filosofia dell’estetica propriamente trinitaria.
Monteverdi opera direttamente
sull’adiacenza che ben conosciamo tra verbum e imago, ossia sui confini tra parola e musica, tra poesia e melodia, da lui
chiamate oratione e armonia.
In un suo trattato solo
iniziato, la Seconda Prattica Musicale, – forse con velato rimando alla Seconda Navigazione di Platone, autore
cui non di rado si richiama – egli afferma di voler lasciare la « prima prattica » (della polifonia),
irrigidita in un’armonia « non comandata ma comandante, et non serva ma signora del oratione »,
1 [Così in FRANCO ABBIATI, Storia della musica, Vol. II, Il Seicento,
Garzanti, Milano, 1941, p. 96.] per edificare invece una nuova e più veritiera « prattica »
dove l’armonia è piuttosto « comandata e non comandante, soggetta all’oratione ».
2 [IBIDEM.] Viene ribaltato il secolare regime in cui la poesia soggiace
all’inflessibile imperio delle leggi melodiche; vengono rotte sulla pietra aspra e di nuova esigenza del discorso
le tavole della scansione ritmica, della modulazione, del contrappunto, delle aperture e delle chiusure, di tutte insomma le infrangibili
esigenze della melodia. Il discorso, infatti, o parola, per Monteverdi non è puro detto, ma vibrante « oratione
» carica di sentimenti e di affecta: va dunque fatto uscire alla vita.
Il Cremonese sente inturgidita
la parola di un significato che germina e gonfia da dentro l’armonia come mai prima, e il suo cuore, inclinato di suo alla
freschezza della verità, cioè all’evidenza della cosa, non resiste a stillare da quel turgore il pathos
che la impregna: sicché, quando pone mano all’Orfeo, lo fa quale primo vero melodramma della storia
della musica, trascinando sulle scene – finalmente! – veri sentimentalismi musicali consonanti e dissonanti, peraltro
senza rifiutare i « concetti antichi », ma anzi facendosi alto mediatore tra le venerande regole ora
così sregolate e le audacie ardenti dell’innovazione. 3 [Dal III
Libro di madrigali in poi, tutta la musica del Maestro è innovazione, ma l’esempio che fa l’Abbiati mi
pare il più congruo: « Monteverdi sa comunicare all’ascoltatore l’impressione dello strazio e dell’orrore
[dovuti all’annuncio della morte di Euridice, dato da Silvia, la messaggera, a Orfeo,] con l’improvviso trapasso modulante
dalla tonalità di mi a quella di mi bemolle maggiore » (FRANCO ABBIATI, Storia della musica, cit., p.
100). Tale trapasso tutto innovativo, mi dice il maestro Andrea Fossà, che osa accostare in senso discendente due tonalità
maggiori distanti tra loro di un semitono, era per ragioni eufoniche cosa formalmente vietata dalle auree regole della composizione,
ma fu di fortissimo effetto drammatico, ispirando l’idea che qualcosa, lì, si arresti, si giri indietro, si spenga.]
Qui si pone dunque un nuovo
approccio alla verità, e va fatto emergere il vincolo spesso inquieto e guerresco tra splendore e armonia,
se in splendore coinvolgiamo anche le esigenze spesso impellenti dell’efficacia espressiva, a fronte di ciò
che con armonia sono dette le esigenze della idealità. Gregorio musicava le lunghe filiere di santi, procedenti
in ori e lapislazzuli fino a Simone e a Duccio, in altrettanti ori e lapislazzuli vocali quasi come distillati dalla bocca della
divina Maestà nei triplici cori contemplati da Dionigi l’Areopagita; il Cremonese invece, colpito dal dramma
palpitante in ogni parola, emozionato dalla vita fremente ai bordi di ogni più piccolo vocabolo, mette in musica la sacra
e tremula verità di quella parola lì, di quella vita lì.
Fino a lui comandava la
verità ideale, la verità discesa dai cieli; da lui in poi entra in musica anche la verità della realtà
sensibile, perché egli, spirito religiosissimo, intuisce che la verità degli affetti può armonizzarsi con
la verità della Ragione increata, per via dell’Incarnazione e della Grazia, molto sentiti nel ’600, come visto
(e come ancora vedremo alla XIX Lectio).
In musica poi avverranno
altre rivoluzioni, ma nessuna così tale e primigenia come questa, che porta in proscenio la parola e ad essa,
alla sua intimità, alla sua poesia, fa chinar la melodia, fino allora regina. È qui che nasce infatti, nell’armonia,
anche il fracasso (come richiede il Cremonese ai suoi tromboni).
Quindi bisogna fare attenzione:
come nella musica, anche in tutte le altre Muse si stendono due grandi teorie armoniche: una dove ogni tensione e forza viene
accuratamente nascosta nell’intimo della superiore bellezza della idealità (l’idealità ordinata
e definita dal Logos, e null’affatto platonica); l’altra, dove tensioni e forze trasudano, da quella santa
idealità, nell’altra e altrettanto densa verità di bellezza che è la nostra naturalità.
La prima teoria evidenzia potentemente la sovranità della metafisica, dell’aurea legge che dà vita al creato,
ovvero della Maestà di Dio; la seconda manifesta l’emersione, da essa e solo da essa, cioè dalla Trinità,
delle fragilissime speranze della creatura: è la giustizia opima dell’Incarnazione, con la quale il Logos
sempiterno si fa creato, squarcia la morte dalle sue stesse interiora e con la Grazia avvalora non solo l’umanità
come natura, ma anche l’umanità di quell’uomo lì, di quella carne lì: Monteverdi
(e con lui Caravaggio e tutto il Barocco) opera la mediazione tra le regole auree del sublime e le speranze audaci dell’imo,
in virtù di quella dirompente massima, ben formulata dallo scrittore Aldo Tanchis, per la quale « la storia
dell’arte è fatta di disobbedienze ». In tal modo la recitazione sublimata nel canto (il recitar cantando),
giunta a una parola più di altre onusta di passione, di poesia e di affecta, tralascia la regola armonica, si stacca
veloce dalla legge e si contrappunta tutt’intorno alla passione, agli affecta e alla poesia di quella parola lì,
in ossequio alla Scrittura: « La tua parola, nel rivelarsi, illumina ». 4 [Psal.
CVIII, 129c.]
Si potrebbe obiettare che
un certo squarcio dell’armonia si aveva già nei canti alleluiatici, o negli infiniti amen ambrosiani,
ma non è così: quelle sono particolari insistenze melodiche con le quali viene enfatizzata l’esclusiva pregnanza
eterna del divino intrinseca al giubilo degli halleluia e all’uscita degli amen nell’eternità.
Siamo dunque ancora nello sforzo di mostrare la sostanza sacra di ciò che si canta, lungi dal rilevarne le particolari
valenze affettive, i passaggi emotivi che la Grazia suscita scorrendo su un cuore (delicatamente? ruvidamente? Chissà…),
cosa che avverrà solo con l’invadenza tutta barocca dei drammatici quesiti della teodicea: lo vedremo alla XIX
Lectio.
Sta il fatto che a contrastare
l’armonia ideale – in musica come in qualsiasi altra arte – si alza lo splendore: far rilucere
il significato emotivo di una parola può costare all’armonia un certo pedaggio di proporzione, ma non è affatto
detto che l’arte, nella somma dei suoi tre costitutivi di armonia, unità e splendore, perda
bellezza: può succedere solo che, alla bellezza sublime dove si vagheggiano le essenze, subentri a volte quella
mozzafiato dove lottano le tensioni degli accidenti. Con la caduta delle leggi armoniche, con una loro piegatura, o una loro pressione
all’ardimento, decade per così dire l’aspetto aulico, classico, della pulchritudo, per far posto, almeno
in parte, all’incanto del fascino (il fascino, per esempio, del Magnificat a 6 voci): lo chiamiamo ancora
bello, perché è bello, anche se, a rigore, sappiamo che del bello ne ha stravolte le leggi, ne ha squarciate, nell’abbaglio
dello ‘splendido’, le più intime armonie.
Armonia di riposo,
dunque, aut armonia di guerra, allacciate in ogni caso entrambe nel gioco del detto e del non detto, dell’evidente
e del velato, dove vince ora la dirompenza tensioattiva delle energie messe in tutta mostra, ora la pace sovrana del governo di
quelle stesse immani energie: immani, sì, ma domate.
[...].
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