(Torna a pag. 3) Nel gran libro della natura riposa l’estetica
umana; da quel libro emerge l’immagine di Dio, quindi l’estetica umana deve tendere a Dio attraverso quell’immagine.
Gli iconoclasti (ma poi anche i Luterani) non afferrano la sineddoche implicita all’Incarnazione.
L’iconoclastia, eresia
inferente il Logos, lo ferisce precisamente nella sua operazione ad extra più peculiare: di un Dio veniente
nel mondo (non dimentichiamoci che Egli da sé si definisce Figlio dell’uomo. Conclude perciò Amerio: «
Così per esempio le figurazioni del Cristo, dalla natività alla risurrezione, non hanno propriamente da condurre
a un soprasensibile perché Cristo è un sensibile. Salva l’imperfezione inerente all’arte, l’animo
di chi contempla una figurazione sacra è costituito in uno stato non diverso da quello in cui si trovavano gli uomini sotto
gli occhi dei quali cadevano gli atti dell’uomo-Dio. Senza il gran principio della carne il cristianesimo, dal dogma trinitario
al dogma eucaristico, diviene inintellegibile, perché tutto il divino è fatto carne nell’uomo-Dio e rivestito
di corporeità. Perciò il rimando dal sensibile al divino è l’operazione propria all’arte religiosa
».
6.
GLI ORI E I NERI.
Vi sono spiriti che si lasciano appagare e trasportare nel divino a partire da dati tutt’affatto
umani e altri che sbigottiscono dinanzi a un Caravaggio per via della convinzione già vista che all’ascesi si giunga
spogliandosi della natura. Certo i fondi in oro laminato e rilucente sprofondano nel divino e le figure sante e
chi le vede, e non si trova nella storia dell’arte religiosa un segno più direttamente trascendente della lamina
o della tessera musiva aurea, ricche come sono queste di regalità. Inoltre, astrarre e snaturare l’uomo privandolo
della dimensione corporea della profondità, e anche stirandolo in quella delle due dimensioni rimaste che tende al Cielo,
non lascia modo di equivocare in quanto al nome del luogo in cui immagini e spettatori si trovano: non in sant’Apollinare,
ma nella Ierusalem celeste promessa dopo la Parusia, la Gerusalemme discendente quel giorno dai Cieli.
Non si vuol certo dire
che le caravaggesche tenebre « nigre » da cui emergono le luci delle carni e delle vesti delle figure nel Martirio
di sant’Orsola, nella Cattura di Cristo, nei quadri della Cappella Contarelli o di santa Maria del Popolo, o
nelle Sette opere di misericordia, eccetera, siano tenebre di Paradiso, perché si mancherebbe al principio d’identità.
C’è però una continuità tra gli ori e i neri che nulla toglie alla trascendenza percepibile nei primi
e all’immanenza palpabile nei secondi. E la continuità è questa: i secoli che trascorrono da sant’Apollinare
Nuovo o dal Battistero degli Ariani a Michelangelo Merisi, per la latinità, sono tutti discendenti. Il V e VI secolo costituiscono
un acme, un colmo: quello della parabola ascendente percorsa dalla ricerca artistica religiosa per staccarsi dal naturalimo pagano,
come abbiamo visto, da cui aveva dovuto reperire il sistema di segni più immediato per poter dire almeno le cose più
importanti che aveva da dire sul Volto di Dio.
Le tessere musive laminate
d’oro danno i mezzi alla Chiesa di esprimere la solennità, e la solennità permea della sua sostanza l’arte
costantiniana e bizantina. Da questo topos teologico altissimo, mai più raggiunto fin’ora nei sistemi semantici
con cui la Koinè religiosa si è incrociata, l’arte sacra discende lentamente scorrendo le tante e tante
stazioni che, nel Cristo, uniscono Dio all’uomo, ma che anche, ancora nel Cristo, lo distanziano. Ritengo
che sia, questa, una discesa provvidenziale, che con la sua larga curva ci permette di abbracciare il vasto orizzonte della rappresentazione
del discorso teologico, della theo-logia che, nelle parole proferite dal Logos, lega il Creatore alla creatura nella
vastità digradante dell’arte sacra.
Il mondo, di cui avevamo
colto l’aspetto benevolo e putativo, ha sempre presentato nei secoli verso il Cristo anche l’aspetto furioso e offensivo.
Esso si è servito ostinatamente della cultura per tirar la Chiesa giù dal divino prima con i denti dissimulati dell’Umanesimo
rinascimentale venato di platonismo, poi apertamente scoperti nel Razionalismo, nel Naturalismo, nell’Immanentismo. La cosiddetta
Riforma protestante porta il peccato in primo piano come stato assoluto dell’uomo. Anche il Sarpi, affiancandosi
ai riformatori, nella sua Istoria del concilio tridentino sottolinea la peccaminosità della Chiesa in tutta la sua
parte mondana e carnale, e lotta per ricondurre l’albero della Chiesa nel seme originario, unica condizione, a parer suo,
per preservarne la virginale spiritualità, quasi che nel secolo apostolico la Chiesa fosse stata formata da angeli.
La glorificazione dell’uomo
“centro dell'universo” stride con la contemporanea propaganda della sua prigionia nell’ignominia irredimibile,
stride con la divulgazione della lebbra morale come stato imperituro persino all’interno del Corpo mistico: ma quegli infausti
predicatori usciti dalle file cattoliche, antesignani degli odierni ancora non tirati fuori dalla cattolicità, non sfuggono
alla contraddizione pur di trascinare la Chiesa nella mota. Ed è proprio qui che vanno collocati i neri caravaggeschi.
Infatti è dall’invenzione del nero che affiorano potenti nei tagli di luce le figure toccate o non toccate dalla
Grazia, in cattolica e pronta risposta all’antistorica retorica riformata. Il nero, patria del non-colore, diviene patria
della Redenzione pietosamente elargita dal Deus absconditus.
L’emersione dalle
tenebre del peccato rimane possibile all’uomo per l’intervento luminoso e vibrante della Grazia. Gli estesi nerissimi
erano stati concepiti dall’artista della controriforma cattolica solo come macchina ingegnosa per studiare iperrealisticamente,
come all’interno di una grandiosa camera oscura, le luminosità rotonde delle sue figure. Ed effettivamente lo scandalo
del sembrare quelle figure assolutamente veridiche è violento, diretto, inequivoco. Ma, anche, quel « lumeggiar
con lume unito che venghi d’alto senza riflessi » permette a Caravaggio di operare sui cristiani col necessario
impeto per far cadere l’obliqua luce ultraterrena tra loro e la scena: noi ci troviamo al di qua di Dio e ne ammiriamo l’intervento
potente sull’uomo peccatore, la sua luce accarezzarne e suscitarne le carni con tocco robusto ed efficace. Con tocco, appunto,
redentivo. (Vai a pag. 5 di 5) |