(Vai alla pagina 2.) È
morto recentemente Jean Guitton, famoso nel mondo per essere filosofo cattolico, all’età veneranda di 98 anni. Noi
offriamo qui alcuni suoi pensieri che certo possono consigliare, sulla sua professata ortodossia, delle valutazioni più
prudenti, più acconce al vero aspetto del pensiero guittoniano; di modo che i buoni fedeli, meglio ammaestrati, non raccolgano
da lui il mal seminato.
Per far questo, consideriamo
insieme uno dei suoi più celebrati e apprezzati aforismi, che ha la peculiarità di concernere la fede al suo vertice:
« In me ci sono due esseri: il credente e il non credente, che dialogano costantemente ». Aforisma successivamente
ripreso e propalato anche dal Cardinale Martini, che non si è lasciato sfuggire l’occasione di contribuire direttamente
a seminare il loglio del dubbio di mezzo a quel vastissimo gregge, che di lui raccoglie ogni goccia di sapere con una venerazione
davvero idolatrica: « Nel cuore di noi cristiani convivono insieme due uomini: l’uomo che ha la fede e l’uomo
che non ce l’ ha ».
Tutto questo in ode al
dubbio, che a parere di questi due incensati e ancora incensurati maestri sarebbe principio di un sano pensare perché metterebbe
il cristiano sul piano del laico, sul piano dell’illuminista: tutto dubitando, costui pensa tutto, valuta tutto e di tutto
si forma un’idea razionale, ben formata in quanto ben pensata.
Difatti la spiegazione
di Guitton rispecchia i più classici parametri razionalistici: « Il Guitton qui presente ha qualche merito
- si compiace di dire il filosofo di se stesso - perché dubita, e perché è obbligato a ogni istante a
vincere il dubbio del Guitton non credente [...] con un atto di libertà fondato con ottant'anni di studio della religione
cristiana con degli esperti ». Il dubbio perenne è superato perennemente. Questo è bene. Ma da cosa? forse
da un atto di fede cieca, onnicomprensiva, nell’autorità di Dio? No, ma da un atto derivato dallo studio della religione
e delle sue ragioni, per cui essa religione, per via di questo studio previo, risulta più convincente, più ragionevole,
che non, per esempio, le opinioni atee di Sartre.
Sartre e Guitton: due filosofi,
due teorie: « Le nostre sono esattamente due teorie opposte ». Non due fedi, ma due filosofie. E che la sua
sia prima che una fede una filosofia, Guitton lo afferma costantemente: è una cosa a cui tiene molto.
Su quale autorità,
su quali « esperti » si fonda il cattolico Guitton, se non su quella di Dio? « Io aderisco alla filosofia
di Heidegger ». Insomma: quella di Guitton, più che una fede, sembrerebbe piuttosto un’opinione, in questo
somigliando a quei suoi amici protestanti e atei che tanto apprezza. D’altra parte, l’amicizia accomuna bene gli amici
in qualcosa, per non essere arida.
Tutto nasce da quella chiave
del dubbio sistematico presentato in apertura: « Il Guitton credente - dice di sé il filosofo - è
un Guitton che, a ogni istante, fa un atto di libertà strozzando il Guitton che dubita ».
Non riusciamo a immaginarci
Padri e Dottori della Chiesa come Agostino, Tommaso, Atanasio, Caterina, Ignazio, Leone Magno, o quant’altri che, nella
dubitativa perenne, superata perennemente dall’atto meritorio, strozzino quei cattivi e petulanti alter ego che tutta
la vita li assillano: nessun santo ha mai detto di sé di acquistare meriti su meriti, sistematicamente, utilizzando questo
ingegnoso meccanismo di sfruttamento fino al midollo del dubbio. Anzi, risulta da ogni loro scritto, nei secoli, l’incitamento
a rafforzare la fede tralasciando le questioni più spinose, fino a formulare col Manzoni l’agostiniano consiglio
dell’“ignoranza utile”: utile alla propria anima. Certezza poi, questa, basata sul classico detto di Papa Gregorio
IX: « Dubius in fide infidelis est ».
Sulla dubitativa, difatti,
va tenuto un atteggiamento mentale di prudenza: meglio un fedele ignorante sulle cose di fede, ma tutto adorante il suo Dio (prima
di tutto, appunto, con la donazione del proprio intelletto, che si sacrifica specialmente quando riconosce davanti
a Dio la propria incapacità di chiarire tutti i misteri), che un fedele filosofeggiante su tutto, su tutto chiarificatore
ed esplicatore: costui preferirà presto all’insegnamento divino il proprio; diverrà presto “fedele”,
sì, ma non ad altri che al proprio io.
Il dubbio, certo, può
nascere dalle interiori interrogazioni, quando i cristiani vogliono rettamente dirimere le questioni spinose che stringono da
presso il dogma. Nel caso che Vescovi, teologi e fedeli fossero attaccati interiormente da proposizioni avverse alla Rivelazione,
proposizioni ammantellate da vesti che ne darebbero sembianze ragionevoli, essi non tanto e non solo debbono pensare di trovare
nella Rivelazione argomenti per difendersene, quasi che la Rivelazione sia qualcosa di espugnabile, quasi che sia sufficiente
un buon argomentare per scuoterne le fondamenta e farla crollare.
No: piuttosto è
bene convincersi del contrario, convincersi cioè di poter trovare nella Rivelazione gli argomenti più adatti per
espugnare i paralogismi da cui è attaccata, mortificandoli e mostrandone l’inconsistenza nella certezza che le
ragioni degli irreligiosi e degli eretici non hanno nemmeno fondo razionale: Cristo, Ragione ultima di ogni ragione, non solo
arma ogni argomento per spuntare gli avversari, ma dimostra che le armi avversarie sono già di per sé spuntate:
fittizie, false, inconsistenti. La debolezza sostanziale delle sillogi irreligiose è verità di fede tanto quanto
lo è la fortezza intrinseca delle verità della Rivelazione, come ricorda san Tommaso fin dai primi articoli della
Summa: « Le prove che si portano contro la fede non sono delle vere dimostrazioni, ma degli argomenti solubili »
(Summa Theol., I, q.1, a.8). Queste sono le vere colonne a sani convincimenti!
Ben lontano da questo atteggiamento
di castità di pensiero, e di purezza di intenzioni, il nostro forse troppo acriticamente riverito “tomista”
Guitton ha concepito, formulato e propagato un pensiero che, per la verità, meno tomista non poteva concepirsi, formularsi
e propagarsi. Nemmeno nel genere letterario del paradosso. E nemmeno, come abbiamo sopra fatto, “contestualizzando”,
perché le parole ricevono il senso che hanno dal loro predicato, e il contesto solitamente non è necessario,
ma contingente, solo utile a precisare la direzione di un senso già dato. La formula guittoniana quindi è
valida solo per il parossismo della sua sconvenienza, solo per lo scuotimento che ottiene a causa della sua prevista indecenza.Vai alla pagina 2 di 4.
(Pagina protetta dai diritti editoriali).
* * *
|