(Pagine I-VI del libro.)
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L’importante testo di Enrico Maria Radaelli affronta una questione
nodale, che è senza dubbio, in prima istanza, di carattere teologico. Tuttavia, e in questo è l’originalità
e la ricchezza del libro, la teologia è vista da una prospettiva “estetica”, consapevoli che la bellezza dovrà
portare luce e sostanza, meglio illuminando il percorso. La prospettiva tomista in cui l’Autore si pone, partendo dal presupposto
che il tomismo completa con la ragione, qui e subito, ciò che il bagliore accecante del mistero nasconderebbe, rende il
fascino di questo testo godibile anche a chi ha scarse conoscenze teologiche o, più semplicemente, vuole comprendere il
significato metafisico del bello, dell’arte e dell’estetico, il senso di sacralità che in questi orizzonti
si diffonde.
Uno dei presupposti del volume di Radaelli, che ne sottolinea l’attualità,
e il suo inserirsi nel vivo dei dibattiti estetici dei nostri tempi, è il concetto di immagine, che si pone a discrimine
e passaggio tra due enti. Infatti, come si sottolinea, non vi sarebbero due enti se non vi fosse un’immagine, poiché
essa richiede un esemplare e una copia. Né vi sarebbe passaggio, perché, senza la somiglianza
data dall’immagine, non vi sarebbe quella relazione che accosta un termine a un altro. Immagine è dunque parola simbolica
che origina l’esigenza di una sua trasposizione. E il valore simbolico dell’immagine diviene il luogo teorico
su cui si gioca il senso profondo del simbolo come logos che si fa carne. In questo trasformarsi della parola in immagine
sensibile si inserisce la funzione che l’arte figurativa ha rivestito per la storia del simbolo in Occidente, il cui luogo
originario – e non a caso la parola che indica questo orizzonte è divenuta quasi un sinonimo del simbolo stesso –
è l’icona, e le dispute che la battaglia iconoclasta ha creato.
Il discorso aperto da questa disputa è dunque, in primo luogo, quello
dei limiti conoscitivi della sensibilità, di quell’aisthesis che già il pensiero filosofico della Grecia
classica osservava con quelle preclusioni di cui il platonismo è attestazione evidente. Per gli iconoclasti le immagini
non hanno un valore educativo e, di conseguenza, il loro abuso in questa direzione gnoseologica e trascendente è pericoloso
e dannoso, al punto da segnare un allontanamento dalla verità. Per i loro oppositori, invece, le immagini sensibili, enfatizzando
il ruolo che Gregorio Magno attribuiva alla pittura, quello cioè di illustrare le storie sacre agli analfabeti, di avvicinarli
mediatamente alla complessità del vero, del logos, hanno una specifica funzione educativa, che introduce il loro
valore veritativo. Radaelli mostra quindi non solo la liceità “teologica” dell’immagine, ma anche il
ruolo essenziale che essa assume quale “porta regale” per la Bellezza, divenendo in tal modo un fondamentale veicolo
gnoseologico.
L’estetico, con le sue immagini, è allora il punto di avvio per
un suo trascendimento simbolico, che può tuttavia verificarsi solo in presenza dell’immagine stessa. Questo paradigma,
che ha elementi ossimorici e paradossali, è all’origine di gran parte del pensiero occidentale e della funzione in
esso rivestita dalla presenza sensibile: una presenza che, seguendo l’insegnamento tomista qui interpretato, trasforma il
bello nello splendore di uno sposalizio dell’intelletto con la realtà. Il libro di Radaelli insegna che le singole
immagini artistiche, proprio per la loro variata complessità, paradossalmente mostrano che quel loro aspetto che ne sottolinea
il carattere rappresentativo non è sufficiente per esibire la varietà semantica dell’immagine stessa. Ciò
significa che queste immagini possono e debbono essere sottoposte ad altre forme di analisi, in questo caso teologica, che indaghino
tutte quelle dimensioni che, se descrittivamente presenti, autorizzano il riconoscimento della “forma simbolica”.
Il senso simbolico delle immagini, di conseguenza, non deriva soltanto dalla
loro capacità di costruire una base estetico-affettiva comune e fungente, tantomeno da “pregiudizi” metafisici,
ma dal fatto che, su tale fondamento estetico, possono avviarsi molteplici genesi assiologiche, che delineano i valori (e le funzioni),
possibili e reali, attribuibili agli “sfondi” su cui le rappresentazioni si offrono percettivamente. In queste analisi
descrittive, l’al di là delle immagini, in tutta la sua varietà, non è un assoluto astratto, bensì
si esibisce attraverso molteplici contenuti spirituali, individuati a partire dalle mutevoli qualità estetiche degli oggetti.
Dobbiamo essere consapevoli, come scrive Radaelli, che la vita è imperniata sulla relazione, in particolare sulla relazione
con la realtà. E, in tale relazione l’uomo, innanzi alla natura, la “interpreta”, ovvero la mette
dentro la propria mente utilizzando le imagines, trasforma queste in verba, in parole mentali, per poi riconvertere
i verba in imagines, in segni, i quali escono di nuovo in res (suoni o altre cose che siano), creando il
linguaggio.
Senza dubbio l’uomo desidera parlare attraverso la poiesis, producendo
oggetti, ma questo desiderio poietico è il segno di una sempre viva tensione al bello: ma una tensione che, come è
evidente nelle bellissime pagine dedicate a Caravaggio, parte dal “reale”, che è il “metodo”, la
strada, per conoscere sia la natura sia il suo “sopra”. Questa bellezza “reale” è come la grazia
di cui parla Schiller, un gioco serio in cui dialogano piacere e dolore, volontà e ragione, ponendosi, come traccia del
suo essere sublime, in quanto « calma nella sofferenza ». Ma una calma che non può pacificarsi in una
forma ideale: infatti, scrive Schiller, « dove grazia e dignità si uniscono, noi veniamo alternativamente
attratti e respinti, attratti come spiriti, respinti come nature sensibili ». Il loro incontro non è il momento
corale della conciliazione, che accetta la povertà, la morte, il destino: è, invece, la consapevolezza della scissione,
lo sguardo di una sensibilità che non sa più riconoscersi in un ordine cosmico, ricerca di una misura sempre minacciata.
L’arte è ciò che riesce a esibire in forme, in figure, questo dissidio, ponendo la sua forza verso la costruzione
di una forma: forza poietica che sa porre la differenza della bellezza, perché sempre ricorda la povertà da cui
è nata. Come ben ha compreso Spinoza la beatitudine che deriva dal rapporto con il bello è amore per Dio –
amore con cui Dio ama se stesso, non in quanto infinito, ma in quanto « può essere manifestato attraverso l’essenza
della mente umana, considerata sotto specie di eternità ». La beatitudine è dunque l’essenza comune
tra uomo e Dio, confronto tra il piano antropologico e quello trascendente e, al tempo stesso, consapevolezza che la conoscenza
ha “gradi”, e che la letizia di questa conoscenza passa attraverso una genesi erotica che conosce elementi bassi e
poveri, che sono il conatus verso l’accrescimento dell’essere.
In quello scritto di frate Francesco noto come “Testamento” vi
sono parole da cui ripartire: « Il Signore così diede a me, fratello Francesco, di iniziare a fare penitenza,
poiché, essendo nei peccati, mi sembrava troppo amaro vedere i lebbrosi. E lo stesso Signore mi condusse in mezzo a loro
e feci misericordia con loro. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi si trasformò in dolcezza di
animo e di corpo. E poi un poco ristetti e uscii dal secolo ».
Francesco sta qui ricordando, dopo vent’anni, quel che accadde nel 1205,
anno in cui entrò in contatto con i lebbrosi. Francesco ha bisogno, per uscire dal secolo, di essere consapevole della
povertà e della miseria del corpo, di sentire il corpo: non il corpo trionfante nella bellezza della forma, ma quei
corpi che sono per lui un segno concreto del divino. È la povertà della bellezza che gli permette di comprendere
l’Incarnazione di Cristo. Ma questa scelta corporea non è la scelta nichilista verso un’assenza né l’estetistica
opzione per una necessità ineluttabile, bensì un conformarsi alla realtà povera del mondo, quindi, come sarà
in Spinoza, l’accettazione attiva di una necessità. Una necessità che è senza dubbio “pazzia”,
ma che, nella scelta della povertà assoluta del corpo malato come proprio referente mondano, diviene un conatus
per comprendere il senso stesso del mondo là dove esso appare nel suo volto esteticamente più autentico.
È questa consapevolezza che Francesco recupera quando, nei momenti
di crisi spirituale, perde la sua letizia: sceso dalla Verna, dove nel 1224 ricevette le stimmate, Francesco ringrazia Dio per
avergli concesso un regno fatto di “infermità e tribolazione”. Ed è in questo stato d’animo che
compone quello straordinario inno alla bellezza che è il Cantico di frate Sole. La parola “bello”, nella
poesia di un uomo morente, toccato nel corpo quasi come i lebbrosi dai quali prese avvio la sua conversione, torna qui per ben
tre volte, per il sole, la luna e le stelle e per il fuoco: una tensione erotica, un conatus d’amore, che si conclude –
attraverso un’opera d’arte, ma guardando il reale in tutti i suoi aspetti e strati – ancora una volta con una
“beatitudine”. Perché beati sono quelli che lodano tale bellezza, ricordando le terzine dell’undicesimo
canto del Paradiso, che Dante dedica alle nozze tra Francesco e Povertà. Nozze, dunque, ancora una volta, ma con
ben diversa contestualizzazione simbolica – non perché sia diverso il senso del simbolo, ma perché il simbolo
ha qui conosciuto il diavolo, e con esso sa di doversi sempre confrontare: « la lor concordia e i lor lieti sembianti,
/ amore e maraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi ».
L’ingresso alla bellezza, alla sua concreta realtà, e alla divinità
di questa realtà, alla relazione Verbum-Imago che l’attraversa, ci permette di comprendere, con la lettura
del volume di Radaelli, che la bellezza non è il piacere delle forme, bensì, in quanto “grazia”, è
offerta, disponibilità nei confronti del mondo, travaglio e potenziale tragicità del finito che la attraversano
con i loro dissidi, con scale di valori tra loro in dialogo. È quindi la struttura ideale, il nome generale di un percorso
progettuale che trova i suoi specifici riempimenti nel divenire complesso di forme culturali, religiose, simboliche. Struttura,
quindi, che ha elementi storici come sue componenti costitutive e che, di conseguenza, richiede differenti disposizioni tra le
parti, differenti modi di esibire i nessi spirituali ed estetici che costituiscono l’intero. Bellezza e linguaggio sono
allora astrazioni se poste al di fuori dei processi di genesi veritativa di un senso che non può avere una sola dimensione:
sono, appunto, lo scenario di un dialogo che le forme simboliche esibiscono con i loro dissidi e la contestuale capacità
che essi hanno di ricondursi, senza perdere il senso stesso del percorso, in “forma”, in “beatitudine”.
Baudelaire scrive che « siccome ogni secolo e ogni popolo ha avuto
la propria bellezza, noi dobbiamo avere per forza la nostra ». Nell’epoca delle “folle”, in cui nelle
stesse strade circolano “tipi umani” estremamente differenziati, di cui è difficile costituire una “tipologia”,
non si può pensare che la bellezza sia un’entità astratta, da queste folle lontana. La modernità, scrive
Baudelaire, « è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra
metà è l’eterno e l’immutabile ». In questo contesto la bellezza, per riprendere Stendhal,
è una promessa di felicità, non un possesso sicuro: una promessa che si confronta con le situazioni contingenti
che la società ha costruito, con il trucco, l’artificiale, con tutti quegli elementi che fanno parte della quotidianità
e che non possono venire scotomizzati per non perdere la realtà stessa e il suo senso. Ebbene, il volume di Radaelli ci
permette di comprendere che, anche nella contingenza dei nostri tempi la bellezza può avere una sua eternità: un’eternità
che va però indagata, cercata e costruita.
Elio Franzini
Docente di Filosofia estetica
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università degli Studi di Milano
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(Pagina protetta dai diritti editoriali.)
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