Vorrei prendere spunto da un caso che ha avuto molta eco sulla stampa e tra gli addetti ai lavori.
Nel mese di maggio del 2008 è stato presentato alla LUISS il volume edito dall’Associazione Treelle “Latino Perché? Latino per chi?”. I contributi all’interno del volume girano attorno ad una ricerca curata da Treelle sullo studio del latino in Italia e in altri Paesi.
Viene data molta enfasi al fatto che soltanto in Italia lo studio del latino è rimasto obbligatorio, essendo divenuto opzionale nel resto del mondo. Da qui, la conclusione che anche in Italia – per esigenze di modernizzazione – sarebbe ormai necessario abolirne l’obbligatorietà.
Proprio in relazione agli esiti di questa ricerca, si era parlato, nei mesi scorsi, di rendere facoltativo lo studio del latino nel Liceo scientifico.
Intanto, a ben guardare, notiamo che lo studio del greco è obbligatorio in Grecia, e non già nei soli licei (o meglio, solo in alcuni licei), come avviene in Italia, bensì in tutte le scuole superiori !
Basterebbe già questo a rasserenare i nuovamente infervorati avversari del latino: la Grecia e l’Italia – l’una patria dell’antica lingua greca l’altra del latino – mantengono lo studio delle lingue classiche nel corso degli studi superiori; altri Paesi, che vantano tradizioni altrettanto illustri ma in altri campi del sapere, lo rendono opzionale.
Inoltre, l’argomentazione non è solida dal punto di vista logico: potrebbe anzi essere ribaltata. Sa un po’ delle proteste dei bambini quando dicono “perché lui no e io sì”. Volendo essere molto benevoli, si potrebbe pensare ad un uso dell’analogia. Ma saremmo davvero troppo benevoli, non essendovi i presupposti.
È un errore tipicamente italico quello di guardare fuori del nostro Paese per conformarsi a modi, usi e sistemi che si adattano benissimo altrove ma non da noi, con la conseguenza di perdere patrimoni preziosi di cultura accumulati nel corso di secoli.
Prendiamo l’esempio dell’università: nasce in Italia, convenzionalmente si dice nel 1088. Il curriculum studiorum si articola in due cicli. Il primo è il Baccalaureato, durante il quale lo studente apprende la disciplina; il secondo è la Licenza, durante la quale lo studente impara ad insegnare e diviene Magister artium. Il Dottorato, che troviamo nei Paesi di lingua tedesca a partire dal XIV secolo, viene conferito a chi dimostra di arricchire la disciplina con un suo originale contributo.
È curioso notare come i titoli accademici dei Paesi anglofoni ancora mantengano quelle definizioni. Abbiamo, infatti, il Bachelor, il Master e il PhD, ossia il Philosophy Doctor.
L’Italia, che fino agli anni ’90 manteneva una posizione di prestigio nella formazione accademica in campo internazionale, dopo la riforma voluta dal ministro Zecchino ha visto introdurre il percorso triennale, della cosiddetta “laurea breve” (nomen omen!).
Ora, la laurea triennale è criticata quasi unanimemente da esperti e docenti universitari.
Quando si commettono errori di tal genere, è poi difficile tornare indietro.
Meglio aggiungere e poi sostituire, che distruggere ciò che funziona. Per lo studio del latino si presenta ora una situazione analoga, anche se non si è ancora definita una linea unanime.
Infatti, Attilio Oliva, presidente di Treelle, ammette onestamente nell’introduzione al libro che non tutti gli studiosi sono d’accordo con la tesi dell’opzionalità del latino; e rivela, tra l’altro, che negli ultimi 15 anni gli studenti iscritti ai licei sono aumentati dal 32 al 41 % sul totale.
È particolarmente interessante – per le nostre considerazioni - l’articolo di apertura, di François Waquet, la quale passa in rassegna le argomentazioni che dalla metà del XVIII secolo cominciarono ad essere enunciate a favore del latino.
Mi piacerebbe confutarlo con il metodo scolastico, ma in realtà c’è poco da confutare, anzi le tesi sono invero da confermare, essendo anche grato all’autrice per averle messe in buon ordine.
Comunque…ad primum sic proceditur…
1) Apprendere il latino facilita l'apprendimento delle altre lingue. Fornisce l'etimologia del vocabolario e ovunque aiuta a comprendere una buona parte dei termini tecnici e scientifici.
2) Il latino è estremamente benefico per lo sviluppo delle facoltà intellettuali del giovane, della memoria come pure della capacità logica; insomma, per "l'educazione generale dello spirito". La versione mette in opera capacità di analisi e di sintesi e, in generale, il latino porta il giovane a pensare con precisione ed esattezza.
Le prime due tesi, ampliate, sono state chiaramente argomentate e validate dagli interventi della Professoressa Orestano e dell’Ingegner Orsi. Pertanto, non mi soffermo.
3) Il latino è di difficile apprendimento, e quindi produce intelligenze robuste e caratteri solidi. Nella "lotta" intrapresa contro il testo latino, il giovane si fortifica e si arma per combattere le difficoltà che incontrerà nella sua vita di adulto. La Waquet ricorda che negli anni 1950-60, in Francia e in Inghilterra alcuni pedagogisti presentarono l'apprendimento di questa difficile lingua come "il mezzo per fare acquisire carattere, coraggio e tenacia".
Il latino presenta certamente una sua complessità che tuttavia va misurata in rapporto al metodo di insegnamento e al livello di approfondimento. È senza dubbio complicato - da cum e plicatus – è quindi va ben spiegato.
Vi è comunque una peculiarità che vorrei caratterizzare piuttosto che definire, per non ingenerare la supposizione che qui si voglia introdurre una gerarchia tra discipline.
Consideriamo, ad esempio, gli errori nelle citazioni latine.
Divìde et impèra o Dìvide et ìmpera ?
Il latino è forse l’unica disciplina che impone rispetto del suo corretto farne uso.
Chi non ne è assolutamente padrone, può temere di sbagliare.
Ma portato a coscienza, questo timore di sbagliare, non è altro che aderenza allo spirito veramente scientifico: in altre parole, è amore per la verità.
Sentite invece come lo spiega la nostra Waquet: «Citare in latino era un marchio di distinzione, la prova dell’appartenenza al mondo della gente colta. Per contro, un errore in una citazione era fatale e non comprenderla significava l’esclusione». Ovvero: sociologia del latino secondo l’interpretazione classista della storia.
4) Il latino forma anche il cuore. Infatti, il latino fu presentato come un antidoto contro i gli effetti delle scienze "che inaridiscono".
Per controbilanciare, i difensori del latino si appellarono alla conciliazione di latino e matematica. Lo studio del latino, sviluppando certe facoltà intellettuali, favorisce quello delle scienze matematiche.
5) Più che contro gli effetti perniciosi delle scienze, il latino proteggeva dai pericoli del mondo moderno e di certe ideologie, come ad esempio i materialismi. Fu anche percepito come una protezione contro un altro materialismo, quello dell"'americanizzazione", della "tecnomania", e utilitarismo".
La seconda parte della tesi n. 4 rimanda alla n. 2, e si è già detto in proposito.
Quanto alla n. 5, sarebbe interessante disquisire sulla ricchezza concettuale del latino, ed esaminare, nello specifico, alcuni termini come animus, anima e spiritus. La discussione ci porterebbe lontano e dovrei ammettere alla fine che la lingua greca conserva un’eco ancora più profonda della spiritualità dell’uomo antico (penso al “μετανοε?τε” del Vangelo di Marco [Marco I, 15] tradotto con il “pænitemini” latino!).
6) Il valore intellettuale, estetico e morale riconosciuto al latino. Tale valore deriva anche dal contatto che, attraverso la lingua antica, i giovani hanno con i ‘capolavori dell’umanità” Si arriva dunque a quello che viene presentato come l'argomento più importante nello studio del latino: serve alla “formazione dell’uomo”.
7) Teoria dell'eredità Lo studio delle lingue antiche portava a un'unione ideale con l'antichità, con una civiltà che aveva raggiunto un alto grado di eccellenza e da cui aveva tratto origine l'Europa. Si è molto insistito su questa preziosa eredità che bisognava non solo conoscere e conservare, ma anche fare fruttificare. Sopprimere il latino sarebbe stato rompere con una tradizione e al tempo stesso tagliare fuori una fonte feconda.
Sottoscrivo anche queste, senza aggiungere null’altro.
In conclusione, mi piace riportare il giudizio della Waquet, che rispecchia non la consequenzialità logica, quanto un’avversione di fondo che qui si manifesta piuttosto chiaramente.
«La ripetizione secolare degli stessi argomenti li ha trasformati in verità di fatto, tanto più che sono stati enunciati in modo identico in tutto il mondo occidentale. Poco importa che non fossero mai dimostrati e che fossero indimostrabili. Si fondavano su una molla molto potente: l'intima convinzione. Le argomentazioni a favore del latino attenevano innanzitutto alla fede.
Ripetuto senza posa, questo discorso divenne un credo pienamente interiorizzato. Si trasformò in una tradizione che finì per essere considerata "sacra". Da cui le predizioni estremamente cupe, se non apocalittiche, sulle conseguenze che ogni riduzione del latino e, a fortiori, la sua soppressione avrebbero comportato: crisi della lingua madre, avvento del regno della pigrizia, perdita del senso morale, sradicamento dell’individuo, rovina della società, eccetera».
Siamo al Respondeo dicendum.
Vorrei aggiungere, allora, alcune altre argomentazioni, per me centrali.
La prima: il valore formativo della lingua.
Le lingue hanno un’importanza fondamentale per la formazione della persona.
La genesi di una lingua all’interno di un popolo e i processi che ne determinano nascita e sviluppo nell’essere umano hanno da sempre destato grande interesse. Ricordiamo il Cratilo di Platone, gli scritti di Agostino sul linguaggio (citati dal Wittgenstein) e persino il tragico esperimento di Federico II, per sapere se la lingua sia qualcosa di innato oppure un risultato del vivere insieme…
Emblematico è il caso di Kaspar Hauser, narrato da Anselm von Feuerbach o quello dei bambini-lupo di Midnapore. …
Ma guardiamo a ciò che può essere verificato con immediatezza da ciascuno di noi.
Nel tedesco, la struttura della lingua (o meglio, la composizione della frase) è tale che nel parlarlo si sviluppa acume logico e ordine mentale.
La lingua tedesca presenta, infatti, una capacita di precisione nell’espressione che è davvero eccellente.
Prendiamo, ad esempio, la parola italiana “prestare”: in tedesco si ha il verbo “leihen”. Ora, per indicare in che direzione va l’azione si utilizzano vari prefissi: aus-leihen se ci riferiamo a colui che dà in prestito, ent-leihen per colui che riceve in prestito ( anche in lingua italiana è possibile specificare le circostanze dell’azione, ma facendo ricorso a locuzioni e perifrasi).
Oppure: esiste in lingua tedesca una parola per indicare la nipote dello zio ed una per indicare il nipote del nonno, mentre in Italia la stessa parola viene utilizzata per entrambi.
Vi è dunque nella lingua tedesca una estrema precisione soprattutto in riferimento all’elemento spaziale; nell’italiano, soprattutto per l’elemento temporale.
Ciò è evidente se si guarda al numero delle forme verbali nelle due lingue: in lingua italiana esistono 16 tempi verbali nei modi finiti, 1 [Il tedesco conosce solo due forme di passato: il Präteritum, che è un tempo semplice molto simile al "passato remoto" italiano, e il Perfekt che è un tempo composto e che spesso viene utilitzzato per riportare un "imperfetto" italiano. Il Plusquamperfekt (= piuccheperfetto) è l'unico tempo trapassato del tedesco e corrisponde sia al "trapassato prossimo" che al "trapassato remoto". Quindi, i tempi al passato in italiano sono cinque: passato prossimo, imperfetto, passato remoto, trapassato prossimo, trapassato remoto. Il tedesco ha invece solo tre tempi al passato: Perfekt, Präteritum, Plusquamperfekt . Inoltre, non vi è nessuna differenza tra il condizionale e il congiuntivo imperfetto, non esiste la forma grammaticale del gerundio né l’imperativo futuro.] una eredità ben conservata della lingua latina in cui, ad esempio, nello stile epistolare, ci si esprimeva pensando al tempo in cui la lettera sarebbe stata realmente letta dal suo destinatario.
Dunque: precisione temporale contro maggior precisione spaziale.
Pensate che in alcune lingue asiatiche si usa un solo tempo verbale, ricorrendo poi ad avverbi per dare la collocazione temporale.
La lingua tedesca possiede molta precisione nell’indicare e definire lo spazio.
Gottlob Frege e Rudolf Carnap, esponente di spicco del Wiener Kreis – io dico affascinati dalla precisione della lingua tedesca che entrambi parlavano – cercarono in modi diversi di realizzare uno strumento linguistico adatto all’espressione scientifica: Frege con la sua ‘Ideografia’, e Carnap nella sua ‘costruzione logica del mondo’ (significativo l’esempio della piantina ferrovia – appunto un’immagine spaziale – quale modello di struttura, dove la linea ferrata disegnata dà la collocazione ma non dice i caratteri delle stazioni).
Il tedesco dà ordine.
Il verbo messo alla fine crea ogni volta una sorta di ascesi mentale, di esercizio logico, dovendo mantenere a mente, in maniera adialettica, sospeso un significato.
Qualcosa di molto simile accade con il latino, che però è più ricco, avendo una complessità, soprattutto nei tempi e nelle forme verbali, ben superiore.
Il tedesco dà ordine, il latino di più: dà ordine e armonia.
Lingua, dialetto, istintualità.
Il dialetto è invece l’espressione dell’istintualità. Quando si è interiormente alterati, spesso ci si esprime in dialetto, mentre l’espressione linguistica corretta, sempre, richiede un elevato grado di consapevolezza.
Contemporaneamente, nel parlare ci si ascolta e ci si autopercepisce.
Esercitarsi nella corretta espressione linguistica, anzitutto orale, è importantissimo nell’età dello sviluppo.
Nella fase prepuberale e puberale si abbandona lo stato della spontaneità per incamminarsi verso l’autocoscienza.
È interessante, a tal proposito, osservare un ragazzo di 12 – 13 anni camminare: è goffo, non ha più il passo agile e armonioso di un bambino, ma è alla ricerca della “sua” andatura. È l’età in cui si è alla ricerca di esempi cui ispirarsi, in cui si cercano modelli da imitare, in cui si definisce uno “stile”, anche e soprattutto nel modo di esprimersi.
Lo studio del latino, in questa età, può avere una valenza estremamente positiva. È un’età in cui si giunge ad apprezzare la musicalità dell’espressione, la precisione geometrica nella costruzione della frase. In questa ricerca di modelli cui conformarsi, ecco che l’uso del latino può divenire un’opportunità preziosa per dare un’impronta ‘scultorea’ al proprio eloquio.
Sono convinto che il latino andrebbe parlato. Bisognerebbe iniziarne lo studio sin dalle medie (ad esempio, con brani di Cesare o del Vangelo tradotto da San Gerolamo), per arrivare a leggere correntemente i classici dopo il ginnasio.
Nella mia esperienza di docente, ho insegnato due anni alle medie.
Proposi ai miei ragazzi una recita in latino. E fu un successo.
Forse, inizialmente bisognerebbe essere più indulgenti verso gli errori, così come avviene nello studio delle lingue straniere. Poi, gradatamente, applicare il rigore metodologico accostandosi allo studio dei classici.
Classici che andranno letti non per brevi brani, ma estesamente.
Del resto, la traduzione è sempre un’interpretazione e per questo, i testi vanno letti nella loro lingua originale. Se vale per le lingue moderne, a fortiori deve valere per quelle classiche. Questa è una regola scientifica.
Ma soprattutto, la lettura fluente e la comprensione del testo senza l’uso frequente del vocabolario porteranno certamente quei buoni frutti nella formazione della persona che abbiamo indicato.
Vorrei concludere tornando alle tabelle di Treelle, ai dati e alla loro interpretazione.
È il pensiero dell’uomo che produce tabelle per obiettivare davanti a sé le sue percezioni.
Non possono esse destituire di fondamento il pensiero che le ha create.
La scuola e la cultura dovrebbero affondare le loro radici in una concezione dell’uomo.
Osserviamo, invece, quanti sono pronti a farsi prendere dall’ansia del cambiamento e della modernizzazione.
Ma in profondità, l’uomo è uguale da sempre. In profondità, il tempo scorre lento.
È in superficie che avvengono i cambiamenti.
Un discepolo di Aristotele o di Quintiliano avrebbe lo stesso animo di un ragazzo di oggi, la stessa meraviglia per la conoscenza, lo stesso amore per la verità, nel profondo.
Soltanto nell’esteriorità sarebbero diversi.
I sostenitori della modernizzazione vogliono cambiare, cancellare tutto, lasciando solo ciò che è in superficie.
Ho organizzato nel 2004 il “Campus degli Studenti d’Europa”, al quale hanno partecipato studenti di 25 nazioni.
Ciò che più mi colpì fu l’affermazione di un genitore europeo (c’erano anche rappresentanti dei genitori di 10 Paesi. La signora di cui parlo era la figlia del ministro islandese dell’istruzione, che aveva vissuto per anni nel nord Europa).
Disse: «Sogno per i miei figli una scuola italiana. Ho sentito parlare ragazzi di tanti Paesi, ma la profondità di pensiero dei giovani italiani mi ha commosso».
Ecco la nostra scuola: la miglior tradizione porta frutti eccellenti.
Non è da distruggere, ma da migliorare.