ARGOMENTO:
‘ MANCANZA’ COME PRIVAZIONE DI UN
BENE POSSEDUTO
O COME ASSENZA DI UN BENE MAI AVUTO?
(Segue) Infatti
il senso di dolore (ma poteva essere di repulsione), che l’uomo prova di fronte alla morte, è lo stesso senso di
dolore (di repulsione) che, certo in grado infinitamente minore, egli prova per qualsiasi privazione cui deve andare incontro
necessariamente nel corso della sua vita: l’amputazione di una gamba, la caduta della vista, la perdita della memoria, e
tutte le altre cose analoghe. Dolore, sgomento, annichilimento (repulsione) di fronte alla perdita di tali cose sono dello stesso
genere di sentimenti che si provano di fronte alla morte, al Thanatos, che è la perdita del tutto. L’intensità
è diversa, la gradazione varia, ma il genere è il medesimo.
La
costernazione che l’uomo prova per ognuna delle perdite di cui è soggetto è
adeguata alla gravità che egli in esse individua. È palese che alla radicalità
della privazione data dall’inerzia totale corrisponde un dolore egualmente assoluto:
Epicuro, che tuttavia si studiava di spegnere nell’uomo l’orrore della morte,
parla dell’indignazione dell’uomo per essere nato mortale (De rer. Nat.,
III, 884). Orazio sa che di fronte alla morte l’uomo prova paura e collera, perché
la sente come contraddizione alla propria natura: « mortis formidine et ira »
1 (Epist., II, II, 207). L’antico poeta greco Mimnermo, per il quale il fuggire
della giovinezza dinanzi alla vecchiezza era manovra disperata, aborre la decrepitezza e la
morte.
Al
contrario, l’uomo non prova nessuno di tutti questi generi di terrificante stordimento
per la mancanza di cose che non ha mai avuto, per cose che, non dico lo abbiano mai sostanziato,
ma nemmeno mai abbiano costituito di lui aspetti contingenti, occasionali, fortuiti. L’uomo
non prova dolore per l’assenza di cose che non lo determinano, non lo sostanziano, non
contribuiscono a farlo uomo: ma solo per quelle che lo fanno.
L’uomo
non si impietrisce nel dolore per non avere le ali, o per non avere la capacità di
leggere nella mente degli altri uomini, o per non saper creare dal nulla alcunché,
nemmeno un capello. Ovverosia, anche qui: per quest’ultima mancanza, di non saper creare,
il dolore è ben avvertito, ma solo in ordine alla mancanza più generale di non
potersi autodeterminare per sfuggire alla morte. Però il fatto, di per sé,
di non creare dal nulla, non procura all’uomo dolore, né repellenza, né
disgusto, né angoscia. Casomai rabbia. Ma la rabbia è solo eccesso d’ira
esorbitata da ragionevole alveo.
L’uomo
si addolora nel cuore, si sgomenta, si ribella intimamente, e con tutto il suo essere grida
in alto: “Perché?”, solo dinanzi a cose la cui privazione, a diverso
titolo e grado, contribuisce a farlo meno uomo, anzi a non farlo uomo, a disfarlo
da uomo. Egli si annichilisce solo dinanzi a cose che, inerendogli accidentalmente, a sostanziare
a diverso titolo (quindi più o meno profondamente) il suo essere con la loro
presenza e per la loro presenza, poi gli difettano. L’uomo sente la differenza
profonda tra il significato del termine mancanza usato nel senso di assenza
e mancanza nel senso di privazione. Egli non è privato delle ali,
ma manca di ali. Viceversa: egli non è mancante di un occhio, ma è
privato di un occhio. Disfatta di un occhio, la sua umanità viene disfatta di
sottrazione in sottrazione.
San
Tommaso definisce la privazione come « mancanza di una forma in chi è in potenza
a riceverla » (Summa Theol., I, q. 66, a. 2). Per cui un uomo privo di una
gamba, o della vista, o di memoria, si sente, anzi si riconosce ed è riconosciuto menomato,
essendo effettivamente menomato (menomato: diminuito nell’integrità o
nell’efficacia). Un uomo con due occhi, al contrario, non si sente menomato, perché
un uomo con due occhi è integro, è conforme alla natura.
Se
quindi l’orrore doloroso nasce a causa del riconoscimento, della consapevolezza di non
essere più integro se non c’è un’occhio, o una gamba, ma
non di non essere integro se non ci sono due ali, non se non crea qualcosa dal nulla, o non
legge telepaticamente il pensiero, per analogia bisogna riconoscere che l’orrore che
si prova dinanzi a un corpo morto è un giusto orrore, è orrore adeguato alla
privazione totale della vita. Si dice correttamente che quel corpo è privo di vita,
perché è stato privato della vita. Al cadavere invece manca la
vita, perché la vita non è propria a un cadavere in quanto cadavere, ma solo
all’uomo che era prima quel cadavere. L’annichilimento è assoluto,
in quanto la privazione che si è costretti a constatare è assoluta. Non è
solo la perdita di un’occhio, cioè di un accidente utile, conforme alla natura,
ma non strettamente necessario. Né è la mancanza di due ali, per le quali si
può avere desiderio di possesso come per qualsiasi ricchezza, ma che si riconosce mancanza
di natura, non di accidenti confacenti la natura.
La
totale e definitiva privazione del moto (la rigidità) data dalla morte è la
perdita della vita, perdita di tutta la forma dell’uomo: l’uomo constata allora
che la sua anima non trova più materia da muovere, da animare, e in questa constatazione
consiste il senso di angoscia, di insostenibile tragedia che egli prova per la morte.
Questo
vuol dire pertanto che, come c’era l’occhio, come c’erano le gambe, come
c’era la memoria, l’intelletto, o altro, c’era anche quella vita immortale,
quel moto, e la morte priva l’uomo dell’immortalità in quanto bene appropriato
all’uomo, a lui conveniente: bene che in un dato tempo era dato all’uomo, gli
si confaceva, e di cui l’uomo in un momento successivo è stato spogliato.
Gamba,
occhi, memoria, persino intelligenza, sono accidenti di cui si può rimanere privi,
ma che prima di mancare contribuiscono, ciascuno nel suo grado, a costituire l’uomo
nell’integrità della sua natura primigenia. Così come la sua anche corporale
immortalità.
Infatti allo stesso genere
di dolore corrisponde lo stesso genere di riconoscimento di cose evidenti: all’integrità della natura dell’uomo
manca un occhio, e lo stordimento doloroso provato è di una qualche misura; all’integrità della natura dell’uomo
manca la perennità della vita, evidente nella morte corporale, e lo stordimento è immisurabile. (Segue)
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