TESI:
NELLO STATO DI INNOCENZA IL CORPO
DELL’UOMO ERA IMMORTALE.
(Segue) Fatte queste
premesse, esponiamo la tesi: i sentimenti che l’uomo prova verso la morte potrebbero dar luogo a uno degli argomenti più
potenti per dimostrare l’assoluta convenienza dell’anelito che egli prova all’immortalità, essendo
questo anelito lasciato da Dio a bella posta per far riconoscere all’uomo un dono da lui ricevuto (san Tommaso, abbiamo
visto, dice: « secondo quanto le fu provvisto per divina provvidenza mediante la giustizia originale »), poi
disdegnato, ma che infine sarà (dal Logos) ristabilito. Anelito precisamente all’immortalità
della stessa sua parte materiale. Intendiamo dire del corpo. E non solo è dimostrabile la fondatezza dell’anelito,
ma soprattutto la fondatezza della sua stessa immortalità, stante il ‘secondo modo’ con cui molto chiaramente
la determina san Tommaso, come visto.
In
altre parole, essendo la morte avvertita, come sempre l’avverte l’uomo vedendola
nella fissità del cadavere, fieramente estranea (anzi: avversa) al fine dell’uomo:
l’eterna beatitudine in Dio, essa non solo può dimostrare l’immortalità
dell’anima che sostanziò la carne di quel cadavere finché era carne di
un uomo vivo, ma specialmente può dimostrare che l’anelito dell’uomo all’immortalità
di questa sua carne, e l’immortalità stessa, sono cose del tutto adeguate al
suo destino finale, contro ogni attuale apparenza, per la quale si avrebbe ormai solo una
definitiva decomposizione minerale.
Noi
non si dice che non vi sarà dissoluzione, corruzione, putrefazione. Si dice che il
destino finale di quella carne, di quel corpo che prima era vivente e animato e ora, cambiando
di specie, è cadavere, è destino metafisicamente immortale, perché
il sentimento provato per la privazione della continuità del suo atto, di essere vivente,
in vita, ne dimostra la necessità secondo natura. Il cambiamento da vivente a morto
cadavere, da essere razionale a minerale, è un accidente, un intralcio,
un male contingente. Radicale, sì, ma non adeguato all’uomo sia se ci si riferisce
all’integrità della sua natura primigenia (come l’hanno vista i Dottori
della Chiesa studiando le sue Scritture), sia tanto meno se ci si riferisce alla natura umana
perfezionata dal Cristo non solo nell’integrità del suo ordine naturale, ma anche
nella facoltà di perseguire il suo fine soprannaturale.
Infatti
la natura umana inverata dal Cristo dopo la sua gloriosa risurrezione è di gran lunga
superiore a quella di cui beneficiava Adamo, ed è natura cui, per partecipazione, tutti
gli uomini possono (anzi: liberamente debbono!) adeguarsi, Adamo compreso, attraverso
la fede in Cristo. Dal male di Adamo Dio trasse immediatamente un bene infinitamente maggiore,
da far usufruire anche ad Adamo, essendo tutti gli uomini peccatori e potendo però
tutti salvarsi solo rimettendo la loro fede in Cristo, come alla fine fece anche Adamo. 1
Che è il medesimo che dire piegando il loro intelletto all’Intelletto del
Verbum divino, ovvero tornando alla condizione di umile obbedienza esposta dai Dottori
della Chiesa.
Come
e quando questo destino d’immortalità poi si avveri, o non si avveri, esula da
queste considerazioni, ed è pochezza, in quanto la tesi dice che il corpo dell’essere
razionale uomo, una volta reinnestata la sua natura nell’ordine soprannaturale attraverso
la passione, morte e risurrezione di Cristo, è corpo intrinsecamente immortale, potenzialmente
immortale, e non dice che i corpi degli uomini siano attualmente immortali.
Per
fare un esempio: quando Abramo fu pronto a sacrificare il proprio unico figlio Isacco, figlio
della promessa, figlio dal quale precisamente Dio gli aveva garantito una progenie sterminata,
figlio da cui (gli era stato detto) sarebbe nato il Redentore dell’intero genere umano,
egli non mise affatto in dubbio che tale progenie e tale Redentore non sarebbero discesi proprio
da quel suo figlio lì, che egli stava per immolare, poiché egli credeva assolutamente
che, prima o poi, sùbito o dopo mille anni, Dio avrebbe risuscitato il morituro Isacco,
nei cui lombi comunque era il Cristo. Abramo quindi riponeva in Dio la fede sia riguardo
al modo della risurrezione, sia riguardo al tempo, per cui in tutti i casi egli aveva fede
che il cadavere di Isacco (e non solo la sua anima, incapace di per sé a dare progenie)
sarebbe risorto. Questo esempio è notevole, riteniamo, anche per chi non crede che
nelle Scritture vi siano prove sufficienti alla risorgibilità dei corpi (degli esseri
razionali).
Quindi,
una volta stabilito che tale destino non può per l’uomo non compiersi, per necessità
metafisica (cioè intrinseca), esso potrebbe non compiersi, ma potrebbe anche
compiersi: in questo caso soddisfacendo la sua natura, anche se tale soddisfazione dovesse
avvenire successivamente a processi di decomposizione.
Così.
un uomo orbato di un occhio potrebbe non recuperare più il suo occhio, ma potrebbe
anche recuperarlo; il fatto è che prima della perdita dell’occhio quell’uomo
corrispondeva perfettamente alla sua natura di uomo, mentre senza un occhio l’integrità
della corrispondenza è decaduta; ma ciò non toglie che il destino di quell’uomo
è quello di avere due occhi, trovi o non trovi il modo per riaverli.
Allo
stesso modo: era pertinente all’uomo non morire né nell’anima né
nel corpo, come dice san Tommaso nei luoghi riportati, e che l’intrinseca, e, in questo
senso, naturale immortalità del corpo, si può dimostrare attraverso i sentimenti
che l’uomo prova per la morte del proprio corpo, ovvero per i pensieri in lui mossi
al vedere il decadere dei processi che ne garantivano l’immortalità.
Quindi
vogliamo provare la fondatezza di quanto san Tommaso già abbia dimostrato per via logica,
con un’argomentazione che passa per gli affecta, i sentimenti, quindi per una
via che si può definire antropologica.
Si
può obiettare che san Tommaso ha già comprovato l’immortalità
del corpo nello stato di natura innocente dell’uomo.
La
risposta considera che, come a una via per dimostrare l’esistenza di Dio è più
ragionevole affiancarne altre quattro, così anche a una via logica per dimostrare
l’immortalità intrinseca della carne è ragionevole trovarne altre, che
impiantino certezze benefiche e che sommuovano l’uomo a piangere sul male fatto e a
glorificare Dio per la misericordia smisurata che gli usa.
Inoltre,
considerare gli affecta è considerare quella parte della natura umana attraverso
la quale il Signore opera particolarmente per far riemergere nell’uomo il pentimento
e il ricordo delle grazie di cui era stato immeritatamente, cioè del tutto liberamente
e gratuitamente, inaspettato oggetto da parte del suo Creatore. La via degli affecta,
dei sentimenti, infine, può attrarre coloro che le difficoltà della via logica
respinge.
L’uomo,
si diceva, nello stato di natura integra in cui si trovava Adamo prima della colpa d’origine
sviluppava veramente la sua perfezione anche nel possesso dell’immortalità corporale.
Come se, per restare all’esempio, Adamo, nel pieno possesso di tutte le facoltà
e le potenze in atto che lo facevano uomo, possedesse tutti e due gli occhi, e in conseguenza
del peccato perdesse l’integrità di certe sue facoltà, tra le quali quella
di un occhio. Abbiamo già visto che, al contrario degli occhi, l’immortalità
corporale era dono aggiuntivo dato per la convenienza ad accompagnare l’immortalità
dell’anima, ma, messa da parte la causa diversa del loro essere, l’esempio vale.
Successivamente
si potranno arguire anche altre conseguenze, che per ora mettiamo in un canto.
Tornando alla tesi, è
facile riconoscere che la natura dei sentimenti suscitati dal male della morte, utili a compiere la nostra dimostrazione, è
ampiamente facoltativa, nel senso che si può scegliere il sentimento del dolore, ma viceversa si può scegliere quello
di vergogna, oppure quello di repulsione. Si potrà verificare come la scelta, nell’ambito del vasto registro di affecta
suscitati dalla visione della morte, è del tutto accidentale, ovvero non corregge la dimostrazione. Qui, tra tutti, è
stato scelto il sentimento del dolore: è sentimento universale, immediato, irrefutabile. (Segue)
1 Vedi Summa
Theol., II-II, q. 2, a. 7: Se per tutti sia necessario alla salvezza [cioè
alla risurrezione; n. d. A.] credere esplicitamente il mistero di Cristo.
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