1. Teodicea: un problema disatteso.
Cristianesimo senza
teodicea? Con questo tema generale, il comitato scientifico del v corso dei “Simposi Rosminiani” desidera contribuire
a ravvivare un dialogo su quello che oggi sembra uno dei problemi più disattesi e più inattuali del nostro tempo.
Sembra infatti una questione oziosa riaprire oggi, almeno in sede filosofica, interrogativi riguardanti il governo di Dio sul
mondo, l’origine e la distribuzione del bene e del male lungo la storia umana, il senso della morte e della malattia,
la sofferenza del giusto e dell’innocente, gli orrori della guerra, la miseria, le catasrtrofi ecologiche.
La disattenzione odierna
a problemi di questo genere non viene dal fatto che siamo riusciti a trovare soluzioni definitive, capaci di completare le risposte
classiche. Neppure viene dal fatto che abbiamo aletrnative soddisfacenti. Ma semplicemente perché – almeno così
sembra a me – ci siamo stancati di porre domande di un certo spessore, e si va facendo più forte la rassegnazione
a vivere il proprio quotidiano senza volere più risposte di senso. Un atteggiamento, questo, sul quale influiscono sia
una certa mentalità nichilista, 1 [Vedi, a questo proposito, AA. VV.,
La filosofia dopo il nichilismo, Atti del I corso dei Simposi Rosminiani, Edizioni Rosminiane, Stresa 2001.] che
non ha più il coraggio di affrontare domande forti; sia un certo materialismo, frutto della globalizzazione economica
delle democrazie occidentali, 2 [Vedi AA. VV., Umanità globalizzata?,
Atti del IV corso dei Simposi Rosminiani, Edizioni Rosminiane, Stresa 2004.] che ci rende distratti verso problemi attinenti
allo spirito, quasi venissimo – coll’inseguire certi temi – a sottrarre tempo prezioso alla ricerca del profitto
e del benessere materiale.
All’interno stesso
del cristianesimo, sul tema della teodicea vanno serpeggiando soluzioni fideiste, che vorrebbero torre ogni senso alla domanda
stessa circa la distribuzione dei beni e dei mali sulla terra, ritenendola una questione da relegare interamente al regno della
fede e chiedendo di conseguenza il sacrificium rationis.
E’ per non sottovalutare
queste posizioni all’esterno ed all’interno del cristianesimo, che il comitato scientifico dei Simposi Rosminiani
ha creduto utile porre il tema di queste giornate di studio sotto forma interrogativa: Cristianesimo senza teodicea? Come chiedersi:
il cristianesimo, oggi, deve considerare il problema classico della teodicea, che nel passato si avvaleva delle forze congiunte
della ragione e della fede, come un ingombro inutile del passato, frutto di una cultura storica superata? Oppure dovrà
riappropriarsi di questo tema e non rinunciare alla ricerca delle soluzioni? Infine, dovrà affrontare il problema coi
soli dati della fede, coi soli dati della ragione, o con la ragione mista alla fede, come si faceva nel passato?
Nella presente introduzione,
più che entrare in merito alla questione, vorrei limitarmi a tracciare alcune linee generali, che ci aiutino ad inquadrare
il problema alla lontana, lasciando poi agli specialisti il compito di approfondire i vari aspetti della teodicea. E, nel fare
ciò, mi gioverò ampiamente del pensiero di Antonio Rosmini, al quale sono intitolati questi Simposi.
2. La fede dell’uomo semplice.
Bisogna anzitutto chiedersi:
è necessario che tutti gli uomini si mettano a ragionare sulle vie di Dio nel governo del mondo e nella distribuzione
dei beni e dei mali?
Rosmini direbbe di no.
Si tratta infatti di una “alta e difficile strada”, non adatta a tutti, anzi percorribile da “assai pochi”.
3 [ANTONIO ROSMINI, Teodicea, a cura di Umberto Muratore, Città
Nuova, Roma 1977, n. 25.] Il semplice credente che non incontrasse ostacoli o tentazioni razionali, soprattutto il credente
che non avesse un dovere professionale di percorrere il sentiero dell’indagine, può sempre scegliere la via della
fede e riposarsi sulla parola di Dio: “Un solo principio, quello dell’esistenza di Dio; una sola credenza, quella
della divina parola, vale per loro [i credenti] assai meglio di tutta la rumorosa scienza degli uomini”. 4
[Teodicea, cit., n. 20]
Sono tanti i cristiani
che non sentono il bisogno della ricerca speculativa, non perché non abbiano una risposta, ma perché si accontentano
della semplice rivelazione, si fidano di Dio. Non sono da condannare, né si deve credere che essi possiedano meno verità
dei filosofi. In fondo la filosofia non scopre nulla di nuovo su questo campo, perché essa non fa altro che analizzare
verità virtualmente comprese nelle vie della fede. La differenza tra il filosofo e l’uomo semplice non sta nel
fatto che il filosofo conosce più verità di quest’ultimo, ma semplicemente nel fatto che lo studioso viene
a prendere coscienza degli anelli che legano una verità all’altra. La sua conoscenza diventa “riflessa”
e “scientifica”, mentre la conoscenza popolare tiene le verità senza ordine e senza piena avvertenza.
Se la via della fede
può essere sufficiente all’uomo semplice, non è invece più sufficiente all’uomo che coltiva
la ragione, soprattutto se quest’uomo ha il dovere professionale della carità intellettuale. Talvolta non è
neppure sufficiente all’uomo semplice, quando la vita si complica e gli interrogativi salgono dal fondo della sua sofferenza
e del suo dolore. Tutti ricordiamo la figura di Giobbe, e gli strazianti interrogativi che gli sorgevano nei tempi in cui era
attanagliato dalla malattia.
La rinuncia a ragionare,
inoltre, può diventare pericolosa oggi per un altro motivo. In un’epoca come la nostra, di piena globalizzazione,
in cui le culture più disparate vengono a confronto, anche sulla teodicea il cristiano si troverebbe a non saper più
distinguere quale risposta possa essere la più soddisfacente. Egli cioè non possederebbe alcuna base universale,
sulla quale impostare un dialogo ecumenico: gli mancherebbero gli strumenti per stabilire i criteri di credibilità e
di scelta della sua religione rispetto alle altre.
3. La ragione a servizio della passione.
Quando la via della fede
non è più sufficiente, bisogna accompagnarsi con la ragione.
Per prendere correttamente
questa seconda via, bisogna anzitutto stare attenti all’animo col quale si intende percorrerla. Vi sono alcuni, infatti,
i quali si mettono a cercare con animo malevolo, quasi col desiderio di trovare Dio colpevole. Le cause per cui alcuni pensatori
prendono questa strada possono essere molte, ma si possono ridurre principalmente a due: le passioni o vizi umani e la superbia
intellettuale. La passione che vive in ogni uomo, se non è regolata tende a trasformarsi in vizio. Il vizio, a sua volta,
non si limita a imporre alla libertà dell’uomo ciò che esso vuole, ma cerca di attirare al suo servizio,
con sottilissimi sofismi, anche l’intelligenza o ragione. Moltissime teorie filosofiche o scuole di pensiero, se si va
a fondo, hanno come origine un desiderio malevolo, una recondita volontà malata che chiede di essere soddisfatta.
Tutti i ragionamenti
degli uomini posseduti da una passione viziata, sebbene talvolta ingegnosissimi, si riducono al seguente sofisma: Dio non esiste,
o se esiste non bada allo scorrere delle minute vicende umane; non c’è alcuna legge cui dobbiamo attenerci nella
distribuzione dei beni e dei mali, quindi non c’è alcuna ragione morale oggettiva cui attenersi; di conseguenza,
del mio comportamento non devo rendere conto a nessuno tranne che a me stesso; e se sono legge a me stesso, posso fare ciò
che mi piace”. E’ il ragionamento di quegli spiriti che talvolta si autodefiniscono addirittura “forti”,
nel senso che avvertono in loro la fierezza di resistere a Dio. In realtà, direbbe Rosmini, si tratta di spiriti posseduti
da una “vanità pari alla debolezza”, 5 [Teodicea,
cit., n. 20] “saputi orgogliosi”, 6 [Teodicea, cit.,
n. 25] accecati dal loro morboso attaccamento a qualche passione.
Se poi andiamo a scoprire
la ragione psicologica di questo loro attaccamento all’errore, scopriamo perché simile errore si può nascondere
anche nei cosidetti “uomini grandi”, quali possono essere “scienziati, filosofi, ma anche condottieri, campioni,
ecc.”. 7 [Teodicea, cit., n. 874] Rosmini la spiega così:
“Quando uno spirito intelligente ha dei beni oltre al suo stato ordinario, è tentato di accecarsi a ciò
che è fuori di quelli, a ciò che è sopra di lui, insomma di non badare più alla grandezza del Creatore,
onde tutto gli viene”. 8 [Teodicea, cit., n. 876] Chi cioè
si trova a sviluppare doti al di fuori della media, può essere preso dalla tentazione dell’orgoglio dell’autosufficienza,
e di credersi in grado di giudicare su tutto. Si spiega così perché il “famoso” scienziato, astronomo,
filosofo, ma anche il “famoso” ciclista o stella della canzone o del cinema confessano pubblicamente di non credere
in Dio; e perché l’intervistatore stesso, e talvolta il pubblico, prendano sul serio tali confessioni. Il successo
e il riconoscimento della loro singola dote umana li ha chiusi in un bozzolo che non comunica, la loro grandezza parziale è
divenuta la loro prigione intellettuale, la loro gloria è un regno senza finestre: la parte si crede così importante
da rinnegare il tutto da cui dipende. L’uomo è talmente vanitoso, che basta assapori un poco l’eco della
grandezza del Creatore, per credersi in diritto di sostituirsi a Lui.
Dalla tentazione della
passione e dell’orgoglio ci si difende coltivando in noi un amore disinteressato per la verità, per tutta la verità.
Dico “tutta” la verità, perché essa può essere naturale e soprannaturale. La stessa verità
naturale, a sua volta, nel suo principio non è di produzione umana, ma viene da Dio. Per cui la verità naturale
è “crepuscolo del Verbo”, 9 [Nuovo Saggio sull’origine
delle idee. Prefazione, a cura di Gaetano Messina, Città Nuova, Roma 2003, vol. 1, n. 13] quella soprannaturale
è il Verbo stesso nella sua persona reale. La prima viene accolta dall’uomo con un originario atto di fede, la
seconda con un altro atto di fede. Per cui l’attaccamento alla verità tutta intera, in qualsiasi piano, è
già di per se stesso un atteggiamento religioso: la ragione individuale esce da se stessa, ed entra nel mondo metafisico,
il mondo impersonale dell’oggetto che conduce verso il Dio uno e trino.
4. I limiti della ragione naturale.
Una via che rivela la
mancanza di apertura a tutta la verità è la convinzione di poter percorrere l’indagine sulla provvidenza
di Dio col solo uso della ragione.
Affidarsi alla propria
sola ragione, come fanno tutti i pensatori che negano per principio l’utilità della rivelazione, è un gioco
al lotto. Qui l’uomo “rischia di perdere tutto”. 10 [Teodicea,
cit., n. 29]
E’ la via tentata
dalla filosofia moderna, della quale Rosmini prende in considerazione solo qualche pensatore, per poi giungere alla conclusione
che la filosofia moderna “distrugge la teodicea”. 11 [Teodicea,
cit., nn. 156-163]
Bayle, ad esempio, pretende
di “porre in contraddizione la ragione con la fede”. 12 [Teodicea,
cit., n. 12] Rousseau ammette la sola Provvidenza degli universali, cioè dei grandi eventi e del genere umano,
mentre nega la Provvidenza degli individui. 13 [Teodicea, cit., n. 27]
Hume nega una causa intelligente che dia senso all’origine, al governo ed alla causa finale del mondo. 14
[Teodicea, cit., n. 157] Kant fa della teodicea non una questione di ragione oggettiva, ma
una pura spinta emotiva del cuore umano, la quale non ha riscontro nella realtà intima delle cose. 15
[Teodicea, cit., n. 159]
La pericolosità
di tale via consiste nel fatto che la ragione individuale, sebbene sia illuminata da una luce di origine divina, rimane un “lumicino”,
a confronto col mare della conoscenza aperto davanti all’uomo. Essa, senza altri aiuti, può anche giungere alla
conoscenza del Dio potente sapiente e santo che governa il mondo; ma i pericoli che incontra sono tanti, che può anche
giungere al risultato opposto, alla negazione di Dio o di qualche suo attributo. Infatti la ragione individuale è troppo
debole e limitata per spaziare sull’immenso campo dei consigli di Dio, essa va avanti per conoscenze, i cui materiali
vengono per lo più offerti da cause a lei straniere. E’ il succedersi delle esperienze esterne a farci ragionare,
e l’ordine col quale gli oggetti e gli eventi esterni si offrono alla nostra esperienza non dipende da noi, ma dal flusso
delle circostanze. Inoltre, le obiezioni contro la Provvidenza di Dio sono talvolta troppo forti, e la ragione umana può
trovarsi troppo debole per sopportarne l’urto. Pensiamo a certe malattie, a certi eventi luttuosi, a certi drammi improvvisi,
capaci di sconvolgere tutti i nostri ragionamenti; ma anche all’orrore dei campi di concentramento, delle carestie, delle
alluvioni, delle guerre: eventi per i quali è stata coniata l’invocazione: a peste fame et bello libera nos Domine
(dalla peste, dalla fame e dalla guerra, liberaci o Signore).
E’ vero che a tutti
gli uomini viene data la verità oggettiva, tutta la verità, ma si tratta di una verità virtuale, potenziale,
un seme da sviluppare. Il seme di verità di cui siamo portatori contiene tutto l’albero della verità, ma
perché l’albero intero si possa contemplare bisogna che si sviluppi. Ora lo sviluppo della ragione sta nelle nostre
conoscenze particolari, che sono sempre parziali, accidentali, e comunque non giungeranno mai a sviluppare tutta la verità
che è in noi. Noi dunque saremo condannati a giudicare sul governo di Dio e nel mondo senza conoscere tutte le connessioni
del mondo intero. Il nostro giudizio sarà sempre basato su dati parziali, incompleti.
La nostra conoscenza
è come sospesa tra due abissi: il finito delle conoscenze particolari, che cresce lentamente e in modo definito; l’infinito
presente all’intelletto, ma in modo virtuale e comunque mai pienamente realizzato dalla mente umana. Il primo è
“troppo poco” per l’uomo, il secondo è troppo “soverchio”, e la mente umana è “collocata
media” fra questi due punti, cioè “fra lo scarso e il soverchio: fra ciò che non la sazia e ciò
che la vince: fra ciò di cui essa è infinitamente maggiore, e ciò che è infinitamente maggiore di
essa”. 16 [Teodicea, cit., n. 53]
Da qui l’azzardo
delle conclusioni. Se la somma limitata delle nostre conoscenze individuali attuali è favorevole alle vie della Provvidenza,
allora le riconosciamo e le lodiamo. Ma se questa somma è momentaneamente insufficiente a giudicare della Provvidenza,
allora negheremo le vie di Dio. C’è qui tutta la storia della filosofia, soprattutto di quella moderna, oscillante
fra la presunzione di voler sciogliere tutti i nodi e lo scetticismo che si rasegna a non trattare il tema; fra l’orgoglio
critico o dogmatismo della ragione umana che si illude di poter competere con le ragioni di Dio, e la disillusione di chi si
trova ad aver sbagliato tutti i calcoli. 17 [Teodicea, cit., n. 133]
Non c’è quindi da stupirsi, se troviamo che alcuni grossi pensatori concludono per il riconoscimento della giustizia
di Dio, altri per la sua negazione.
Una seconda causa dell’incapacità
della ragione a sciogliere certi nodi viene dal fatto che l’intelligenza naturale dell’uomo non vede il mondo ed
il suo svolgimento dall’interno, cioè nell’atto primo della creazione, ma dall’esterno, cioè
dai suoi effetti. Infatti l’universo, visto nella sua sorgente originaria che è l’atto creativo, si trova
come un esemplare, un archetipo, nella mente di Dio. 18 [Per Rosmini “l’esemplare
in cui Iddio vide ab aeterno il mondo creato nel tempo” è il Verbo, o seconda persona della Trinità. Teodicea,
cit., n. 665.] A noi non è dato vedere l’atto creativo ab intra (come dicono i teologi), cioè come
si trova in Dio, ma ab extra, come si trova fuori di Dio. Noi sappiamo del mondo e delle sue vicende solo quel tanto che ci
conquistiamo con l’esperienza individuale, ed anche questo poco senza poterlo collegare intimamente alla sorgente che
dà vero senso al tutto.
Quindi, non solo la nostra
indagine è simile a chi pretende di esplorare un’immensa foresta buia con una piccola pila elettrica, ma la stessa
luce con cui contempliamo l’insieme non viene dall’essere stesso delle cose, bensì dalla luce dell’essere
che è in noi e con la quale rivestiamo le cose che conosciamo. Le cose, mostrate a noi senza l’atto creativo che
le sostiene, non sono essere, ma hanno l’essere: quello a noi nascosto che dà loro Dio, quello con cui noi le rivestiamo
con l’idea dell’essere.
Non potendo noi vedere
il mondo come è uscito dall’atto creatore, siamo come i prigionieri del mito platonico della caverna. Di ogni cosa
che noi conosciamo, è come se conoscessimo l’ombra, l’eco, il segno più che il suo essere vero e proprio.
19 [“Le creature sono per noi come un linguaggio che Iddio usa a farsi
intendere dalle sue creature d’intelletto dotate: non sono le creature stesse la verità, niente hanno in sé
di finale; ma sono […] altrettante espressioni ed indicazioni di ciò che è finale e divino”. Teodicea,
cit., n. 673.] Solo nell’aldilà, quando ci sarà concessa la visione del mondo quale era nella mente
di Dio, cioè nel suo archetipo originario o esemplare, unito all’atto creativo, allora potremo giudicare del mondo
e di tutte le sue vicende con sicura scienza. Ma finché vivremo quaggiù, colle sole nostre forze, non possiamo
presumere di saltare questo muro: “Né pure Dio potrebbe creare un’intelligenza, la quale colle forze sue
naturali si elevasse da sé alla visione di Dio”. 20 [Teodicea,
cit., n. 245.] Come potrebbe dunque una ragione umana, senza l’aiuto della rivelazione, addentrarsi sulle vie di
Dio, e sperare di venirne a capo?
5. Le due luci della ragione e della fede.
Se
la fede da sola è sufficiente per accettare le vie di Dio, ma non a comprenderle con scienza riflessa; se la ragione
da sola è un azzardo su questo campo, una via minata da limiti individuali e creaturali; non rimane che la terza via,
quella che nell’indagine del modo di comportarsi della Provvidenza usa la ragione congiunta alla fede, la scienza unita
alla rivelazione, il lume naturale congiunto al lume soprannaturale.
Il lume naturale troverà
nella rivelazione una “generatrice d’intelligenza”, 21 [Teodicea,
cit., n. 45.] che gli gioverà per orientarsi e rafforzarsi nello stesso cammino naturale; ma soprattutto troverà
nella rivelazione quella “pace” 22 [Teodicea, cit., n. 121.]
che le viene da una risposta esauriente, e che cercherebbe invano con la sola ragione, perché ci sarà sempre nell’umana
ricerca “un’ultima sua linea, la quale di trapassare con inutile fatica travaglierà”. 23[Teodicea,
cit., n. 51.]
L’intervento della
fede, a sua volta, pur donando nuova luce alla ragione, non le scioglierà tutti i nodi. La realtà di Dio, infatti,
è talmente vasta, che non diventerà mai pienamente comprensibile, neppure nell’aldilà. Con la grazia
della rivelazione vediamo “tutto” Dio, ma non “totalmente”. Persino i comprensori celesti, che hanno
il lume di gloria, non riusciranno a penetrare sino in fondo l’immenso essere di Dio. 24
[“Ma poiché ogni essere creato e reale è finito, quindi non può esergli comunicata
giammai la realità di Dio. Onde giustamente si dice che i comprensori celesti veggono tutto Dio, ma non totalmente; e
ancora si dice che non lo comprendono, e di Dio si dice che è incomprensibile e che abita una luce inaccessibile”.
Teodicea, cit., n. 487; vedi anche nn. 614, 677.] Rimarrà sempre qualcosa di impenetrabile, di ineffabile,
e di fronte alla bontà di Dio la creatura intelligente e pia conserverà sempre un fondo di ignoranza. Bisogna
tenerlo presente, perché molte obiezioni alla provvidenza di Dio vengono da ignoranza, e “l’ignoranza non
può essere fondamento ad una obiezione; né sarà mai provato che un sapiente non sia sapiente perché
v’ha un ignorante, in cui non cape la sua sapienza”. 25 [Teodicea,
cit., n. 382.]
6. La pedagogia di Dio.
Se
dunque la sapienza di Dio non è sondabile sino in fondo nemmeno con l’aiuto della rivelazione, se Dio rimarrà
sempre in qualche misura un Dio nascosto ed inaccessibile, che senso ha avviare una ricerca sulla teodicea? Perché farne,
come Rosmini che vi scrisse un voluminoso trattato, “la nostra questione, sulla quale discorrono tutti gli uomini più
mediocri, mormorano i deboli cristiani, e bestemmiano gli empi”? 26 [Teodicea,
cit., n. 239.] Non sarebbe meglio, come sostengono alcuni, abbandonare il campo, o tutt’al più affidarlo
alla teologia rivelata, tenendone lontana la filosofia e la teologia naturale?
Rosmini, pur ammirando
come abbiamo visto quelle anime semplici che si accontentano della parola di Dio e non sentono il bisogno di una conoscenza
riflessa e scientifica, tuttavia ritiene che valga la pena, per qualunque uomo, avventurarsi nella meditazione riflessa delle
vie di Dio. Purché si abbia coscienza dei propri limiti creaturali, quindi della propria fallibilità e dell’impossibilità
di raggiungere il fondo della questione. Nel mistero di queste vie, infatti, si possono cogliere degli squarci bellissimi di
luce, 27 [La rivelazione, scrive Rosmini, ci offre “dell’oscurità
da adorare, e nello stesso tempo immensi campi di luce pe’ quali spaziare liberamente quasi a delizia l’umana ntelligenza”.
Teodicea.prefazione, cit., n. 3, in nota.] che rafforzano l’intelligenza e scaldano il cuore. E dove la
ragione si eserciti correttamente e accompagnata dalla luce della rivelazione, essa intenderà la sapienza di Dio almeno
a sufficienza per affidarsi pienamente a Dio e riposare in Lui. 28 [Teodicea,
cit., n. 614.]
L’intelligenza
inoltre è un dono di Dio che chiedere di essere sviluppato, la volontà umana ama ciò che l’intelletto
scopre. Sarebbe un peccato che queste due nobili facoltà umane, nelle quali giace il tesoro più grande di cui
l’uomo è portatore, cioè la sua persona, rimanessero inerti ed inutilizzate sul tema più affascinante
dell’esistenza, qual è il senso globale dell’universo e della storia dei popoli e degli individui.
Proprio perché la creatura intelligente avesse la possibilità di sviluppare questi suoi doni, Dio ha creato il
ondo come un libro bellissimo, ma pieno di “enigmi”. 29 [Teodicea,
cit., n. 9.] Non ha svelato alla sua creatura l’esemplare del mondo, quale l’immaginazione divina lo concepì
e realizzò nel suo Verbo, ma le diede alcune chiavi, “alcuni generali principi”, applicando i quali l’uomo
potesse “trovare le risposte alle comunicate questioni”. 30 [Teodicea,
cit., n. 9.]
Il dubbio, in questa
prospettiva, diventa per l’intelligenza un pungolo che la spinge a scavare, a non fermarsi; l’enigma è una
sana provocazione. Di fronte alle contraddizioni momentanee le intelligenze più ardite, lontano dallo scoraggiarsi, si
affinano e si rafforzano, si sentono sfidate, avvertono in se stesse il brivido della lotta che porta alla vittoria.
Giungere poi, dopo la
fatica, a conquistare da sé le verità di Dio, è come riscoprire il mondo e l’esistenza una seconda
volta, un assaporare l’eco della gioia di una nuova creazione. “Più volte, scrive Rosmini, eccitò
in me stesso un sentimento sublime la considerazione del modo, onde Iddio viene ammaestrando il genere umano”. 31
[Teodicea, cit., n. 9.]
Farci trovare da soli
le vie della Provvidenza dopo averci dato gli elementi necessari a trovarle, è tipico della pedagogia di Dio, il quale
non dà mai alla creatura intelligente tutto il bene, ma solo un inizio di bene, quel tanto necessario affinché
l’uomo diventi egli stesso autore del proprio bene. Così l’uomo nasce con un germe di intelligenza-volontà-libertà;
l’universo intero poi è come una immensa primavera, nella quale sono depositati miriadi di germi o potenzialità
di beni materiali-intellettuali-morali. La creatura intelligente, con la ricerca e l’attività, è come un
poliziotto che dagli indizi risale alle prove, un esploratore nella foresta delle bellezze depositate da Dio, e la vita diventa
come una ininterrotta caccia la tesoro della sapienza-bontà-potenza del Creatore. Dio dunque deposita i semi di bene,
dà anche alcuni segnali per poter individuare il bene sparso, quindi lascia all’uomo stesso il compito di scoprirli,
proteggerli, farli fiorire, portare a maturazione. Il fatto poi che l’uomo sia chiamato a collaborare alla completezza
della creazione è un bene esso stesso, perché stimola la creatura intelligente a darsi da fare, a sviluppare intelligenza
e volontà; e l’azione, a sua volta, è più nobile dell’inerzia, perché perfeziona la
persona. 32 [“Appartiene alla perfezione di un ente, l’essere egli
autore del proprio bene”. Teodicea, cit. n. 359. “L’uomo è una potenza, e il suo perfezionamento
sta nell’atto, e l’atto è tanto maggiore quant’ha più di estensione” e di intensità,
“e si fa intenso pel vivo combattimento”. Ivi, n. 741.]
6. Una lunga catena di anelli.
Un’altra delle
verità che l’intelligenza umana è in grado di comprendere è la connessione tra la causa prima creatrice
e tutte le cause seconde che determinano le varie fasi dell’evoluzione dell’universo. Dal momento in cui Dio creò
l’universo come un uovo gravido di vita, memento a noi ignoto, sino alla fine dei secoli, tutto si muove e tutto va avanti
senza sosta, in una catena lunghissima di anelli, nella quale tutto si tiene. Più ci si addentra in questa serie complicatissima
di eventi, più si rimane ammirati della connessione del tutto con le parti, dell’unità colla molteplicità,
della vita naturale e di quella soprannaturale.
Rosmini scrive che quei
santi, i quali hanno maggiormente esercitato la ragione riflettente, rimangono talmente convinti della bontà della connessione
degli aventi, che quasi non sono più spinti a chiedere miracoli, cioè a chiedere la sospensione delle leggi della
natura: a loro va bene il mondo così come è, accettano con gratitudine dalle mani di Dio sia l’infermità
che la salute, sia la povertà che la ricchezza, sia la gloria che l’infamia.
7. Il fine morale: tutto serve al bene.
Allora
non esiste il male? Ha forse ragione Leibniz nel vedere in quest’universo il migliore dei mondi possibili? Hanno ragione
Alexander Pope Shaftesbury (Ashley Cooper, Lord di S. Shaftesbury) e Bolingbroke (Henry St. John, Lord Viscount Bolingbroke)
nel dire che tutto è bene, perché governato da leggi naturali generali e costanti? 33
[Teodicea, cit., n. 242, nota.]
Rosmini non pensa proprio
così. Egli non condivide la soluzione lebniziana. Dio non crea il migliore dei mondi possibili, ma un determinato mondo,
nel quale i mali, sebbene in modo infinitesimo rispetto ai beni, sono presenti. Il perché abbia voluto questo mondo piuttosto
che altri sta nella sua sapiente bontà, la quale non si rivela nel volere il migliore dei mondi possibili, ma nel voler
ricavare da questo mondo limitato il maggior bene morale di cui esso è gravido.
Non condivide neppure
la soluzione del tutto è bene, ricavata dalla constatazione che le leggi naturali sono buone. Infatti “che importa
all’uomo la conservazione delle leggi dell’universo […] se queste leggi, se quest’ordine non è
volto alla sua felicità?”. 34 [Teodicea, cit., n. 242, nota.]
Per Rosmini non tutto è bene, bensì “tutto serve al bene”. 35 [Teodicea,
cit., n. 242, nota.] La teodicea non è un problema di ordine fisico, ma di ordine morale. Nell’universo
sono presenti il male, il peccato, la sofferenza, il dolore, l’imperfezione. Né ci si può consolare con
la formula astratta che in generale ogni evento è un bene. Il vero interrogativo è se quel male particolare, frutto
inevitabile delle limitazioni ontologiche delle creature, possa “servire”, possa “concorrere” alla virtù
ed alla piena felicità dell’uomo.
Forse sta qui uno dei
grandi meriti del Rosmini scrittore di teodicea: far riflettere sul modo come Dio educa l’uomo a fare della presenza del
male (fisico, intellettuale, morale) uno strumento di stimolo e di provocazione per un aumento di perfezione morale, di redenzione.
Quando l’uomo ha
capito questa pedagogia di Dio, allora può succedergli addirittura di essere lieto nella sofferenza: “Geme il vero
giusto nei patimenti, e di questo suo gemito non che si lamenti, anzi si fa tutto lieto per una vita che si ritrova nascosta:
e quanto è più giusto, fassi più lieto”. 36 [Teodicea,
cit., n. 301. Questa gioia viene dal sapere che con la sofferenza si può partecipare all’opera della redenzione,
e costituisce “l’ineffabile segreto dei santi”. Ivi, 324.]
Se tutto serve al bene,
allora non crea scandalo il fatto che talvolta la storia umana nel suo insieme e la vita singola in particolare siano segnate
da vicende drammatiche. Quei dolori, quelle sofferenze, quelle cose orribili, si trasformano, nelle mani di un Dio buono e saggio
che rispetti la libertà delle creature, in altrettanti strumenti di bene: sono dolori di parto che nascondono il bene
di cui di cui sono gravidi. 37 [“Nonv’ha un solo male nell’universo,
onde una sapienza infinita non cavi dei beni”. Teodicea, cit. n. 611.] Sotto questa prospettiva, di una
cosa l’uomo può sempre andare certo, anche se dovesse trovarsi nella situazione più nera: Dio continua ad
amarlo ed a volere il suo bene morale, e non permetterà mai che le tentazioni superino la sua capacità morale
di resistenza ad esse. In altre parole: l’uomo singolo è sempre in grado, purché lo voglia, di trasformare
le proprie calamità fisiche ed affettive in occasioni preziose di perfezione morale.
Sempre in quest’ottica,
il mondo intero e la sua storia sono visti come tappe intermedie che capitalizzano nello scorrere del tempo fiumi di bene morale.
Ogni evento, ogni vicenda, tutto viene dato all’uomo quale mezzo di salvezza eterna, perché tutto è stato
creato e disposto per agevolare e far crescere la perfezione morale delle creature intelligenti. 38
[Teodicea, cit., n. 506.] Così il mondo e la storia, anche questo nostro tempo, non
solo vanno verso il mondo della perfezione morale, ma addirittura “corrono” verso di essa, quasi avessero fretta
di ricongiungersi al loro Fattore. 39 [“L’universo morale adunque
non va, ma anzi corre all’ultimo suo scioglimento, ed involge e rapisce seco l’universo intellettuale ed il fisico
nel suo celerissimo vortice”. Teodicea, cit., n. 913.]
E’ una visione
di teodicea che non nega la presenza del male, ma la limita e le dà un senso. L’uomo, uscito dalle mani di Dio,
compie un viaggio più o meno breve nell’universo creato. Durante questo pellegrinaggio, egli incontra cose buone
e cose cattive, cose lieti e cose tristi. La Provvidenza dispone il tutto per permettergli di intrecciare, con questi eventi,
il proprio individuale canto della vita, canto che – se è eseguito con intelligenza amativa – diventerà
il canto della sua santità.