L’ESPERIENZA RELIGIOSA FONDAMENTALE.
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La nozione di Dio che genera la prassi religiosa è quella appartenente al senso comune, in quanto radicata nell’esperienza
originaria del mondo, dell’io e dei valori morali che regolano i rapporti con i propri simili [Cfr
Antonio Livi, Verità del pensiero. Fondamenti di logica aletica, Lateran University Press, Roma 2002, pp. 107-122.].
Sono le radici esperienziali che si trovano lì dove si riconosce l’inizio della verità, il “primum
cognitum” nell’ordine dei giudizi: l’esistenza delle cose del mondo, con le loro note caratteristiche
di pluralismo e contingenza. La natura delle cose reclama un Principio del loro essere: solo così l’intelletto
può scorgerne il logos o intrinseca razionalità: « Nel loro essere ciò che sono, tuttte
le cose hanno l’essere: ma proprio perché lo hanno nella misura in cui la loro natura lo accoglie e lo determina,
esse non sono mai l’essere, ma sempre e solo l’essere posseduto e circoscritto dal loro rispettivo volto. Nessuna
cosa che esista come quella determinata cosa può vantare di essere l’essere. Nel loro esistere come quelle determinate
cose che non sono l’essere, tutte le cose rivelano che – non essendo l’essere – e pur tuttavia essendoci,
hanno ricevuto il dono di essere. Ora, però, la consapevolezza che una cosa è in forza dell’atto con cui
un’altra l’ha suscitata, non rimanda in modo soltanto orizzontale al suo antecendente; questo piuttosto è
il cammino della scienza, che considera la causalità come il nesso che lega necessariamente una cosa all’altra.
Nell’ordine metafisico tutto è più breve e semplice, ma proprio per questo più impegnativo: ovunque
vi è traccia di esistenza ricevuta, qui vi è testimonianza di Essere che dona senza ricevere e senza essersi ricevuto.
Non importa quante sono le cose che hanno ricevuto l’esistenza: per quante esse siano e ovunque esse siano, esse non sono
mai da sole e le sole, poiché – se hanno ricevuto l’essere – c’è anche l’Essere
la cui caratteristica non è ricevere ma puro donare. […] È dunque in quanto costitutivamente legata all’essere
come suo diretto interlocutore che la ragione giunge al Mistero, comprendendo il Mistero non diversamente dall’esistente,
ma come l’esistente conosciuto nel suo essere-rivelatore-della-Gratuità da cui scaturisce ». [Giorgio
Sgubbi, 2000, pp. 182; 184. Vedi anche Romano Guardini, Fenomenologia e teoria della religione, in Scritti filosofici,
a cura di Guido Sommavilla, Ed. Fratelli Frabbri, Milano 1964, vol. II, pp. 193-329; Idem, Fede-religione-esperienza. Saggi
teologici, trad. it., II ed., Ed. Morcelliana, Brescia 1995; Idem, Dostojevsky. Il mondo religioso, Ed. Morcelliana,
Brescia, 2000.]
Nel mio discorso, uso
l’espressione “esperienza” per indicare la conoscenza immediata e spontanea, pertanto universale e necessaria,
dei dati che ogni uomo intuisce e poi esprime (se li esprime) in tanti modi diversi; e uso l’aggettivo “religioso”
per indicare che si tratta di conoscenze relative a Dio – alla sua esistenza e al modo di prestargli culto - e alla “vita
eterna”, cioè al modo di raggiungere la salvezza [Cfr Antonio Livi, Il “senso comune”
e la conoscenza di Dio, in Lorella Congiunti (ed.), L’audacia della ragione. Riflessioni sulla teologia filosofica
di Francesca Rivetti-Barbò, Ed. Hortus conclusus, Roma 2000, pp. 97-101.] Mi rifaccio pertanto alla giusta
distinzione tra il termine “religiosità (Religiosität)” e “religione (Religion)”;
l’indagine logico-aletica riguarda qui l’esperienza religiosa intesa come religiosità (se essa sia l’espressione
di una verità), e non la religione (quando la religione sia vera e quale religione sia vera), anche se le due questioni
sono connesse tra loro; ma della vera religione parlo in un’altra sede [Cfr Antonio Livi, Razionalità
della fede. Un’analisi filosofica alla luce della logica aletica, Ed. Leonardo da Vinci, Roma 2003.].
Come già dicevo,
l’indagine è fenomenologica e metafisica allo stesso tempo, e non va pensata come riducibile a congetture psicologiche;
il termine “esperienza religiosa” non va dunque trattato con il metodo della psicologia empirica, come invece ha
fatto Willliam James [Cfr William James, Varieties of Religious Experience: trad. it., Fratelli Bocca
Editori, Torino 1904.]. Dal punto di vista fenomenologico, è indubbio che la coscienza religiosa si è sempre
manifestata come la struttura cognitiva che è servita a dare senso a tutte le forme di cultura. Come scriveva un famoso
studioso delle religioni, « il culto è stato la prima cultura: arte, linguaggio, agricoltura e tutto il resto
procedono dall’incontro dell’uomo con Dio; ciò che noi chiamiamo cultura o civiltà non è che
il culto secolarizzato » [Gerardus van der Leeuw, 1948, Phänomenologie der Religion;
trad. It.: Fenomenologia della religione, Ed. Bollati-Boringhieri, Torino 1975, p. 333.]. Si può in questo
dar ragione a Schleiermacher, che, pur nella sua visione riduttiva dell’esperienza religiosa, la definiva come «
originario senso di dipendenza, che non è accidentale ma che costituisce un elemento essenziale della vita umana;
esso non è diverso da persona a persona, ma è il medesimo in ogni coscienza sviluppata » [Friedrich
Schleiermacher, Über dem Religion (Reden zur deiner… 1980, § 37.]. Il fatto che la psicologia
moderna interpreti in vario modo (ma anch’essa riduttivamente) l’esperienza religiosa (negando metodologicamente
la realtà soprannaturale del suo oggetto) non toglie che l’esperienza stessa sia riconosciuta come tale, nella
sua originarietà e universalità : si vedano le teorie di James circa la differenza tra esperienza religiosa “normale”
ed esperienza religiosa “patologica” [Cfr William James, The Varieties of Religious Experience,
1902.], o quelle di Freud sull’esperienza religiosa come « nevrosi ossessiva universale » [Cfr
Sigmund Freud, Die Zukunft einer Illusion, 1927.].
La logica veritativa
- sulla base della verità del mondo, dell’io e della legge morale – rende evidente l’esserci (misterioso
ma indubitabile) di una Intelligenza e di un Amore che tutto sorreggono nell’essere, di una Sapienza che tutto governa
come Legge e come Provvidenza. L’io e il mondo e la legge morale sono fatti evidentissimi: ma allo stesso tempo appaiono
come realtà che sarebbero assurde, incomprensibili, se non li si ricollegasse a un fondamento e a un’origine, se
non se ne trovasse la ragione ultima che spieghi come sia possibile che permanga nell’essere ciò che in sé
non ha la ragion d’essere. La contingenza e la precarietà del mondo – l’io compreso, gli altri compresi
– sono tropo evidenti perché l’urgenza di un fondamento razionale non sospinga fin dall’inizio la coscienza
umana alla “domanda teologica”; una domanda che si rinnova incessantemente (perché è un tutt’uno
con la razionalità, ossia con la ricerca del senso di tutto ciò che si esperisce), e che incessantemente ottiene
la risposta – l’unica risposta possibile – attraverso la spontanea e necesssaria deduzione che “un Dio
deve esserci”, anche se non si vede. Come ha ben spiegato Norbert Fisher, la “ricerca di Dio” è legittimata
anzitutto dalla fenomenologia della coscienza umana: esistono infatti esperienze antropologiche originarie (lo stupore e la
felicità, il dolore per la morte dei propri cari, la percezione della propria colpa) che mostrano l’imposssibilità
per l’uomo di autocomprendersi e di realizzarsi compiutamente in questa vita, e che pertanto reclamano un
autotrascendimento [Cfr Fisher, Die philosophische Frage nach Gott; trad. It.: L’uomo alla
ricerca di Dio. La domanda dei filosofi, Ed. Jaca Book, Milano 1997.].
Così intuìto,
Dio resta il mistero per eccellenza: di Lui non si sa nulla, ma che debba esserci un Dio – nel senso di un Primo Principio
o Fondamento, un Padre di tutti, una inesauribile Volontà di dono – è evidente. Lo chiameremo il “Dio
ignoto”: sconosciuto e inconoscibile nella sua essenza o natura, ma notissimo nella sua inafferabile eppure evidente verità
esistenziale. Proprio questa inconoscibilità costitutiva di Dio per la ragione umana naturale consente di concepire la
possibilità di una conoscenza soprannaturale derivante dalla rivelazione che Dio stesso fa di sé: tale
rivelazione divina (che, se accertata come evento storico e accettata come verità, dà luogo alla fede soprannaturale)
è per la ragione una possibilità reale, oltre che un’aspirazione e un sogno, proprio perché la ragione
sa che Dio c’è ma non sa chi è; per questo scriveva l’anonimo autore della Lettera a Diogneto:
« C’è mai stato tra gli uomini qualcuno che abbia saputo chi è Dio, prima che fosse venuto Lui
stesso? […] È stato Lui a manifestare sé stesso » (VIII, 2). L’esperienza religiosa è
quindi la consapevolezza del mistero, dell’inadeguatezza costitutiva della ragione nei confronti della Trascendenza: è
un’autocritica continua, che ha il valore di « una preparazione negativa al possibile annuncio di un Dio vero
e vivente, che l’uomo può pregare, a cui può fare sacrifici, di fronte al quale
può cadere in ginocchio pieno di riverenza, produrre musica e danzare » [Fisher,
op. cit., p. 313.].
Insomma, ciò che
io – allo scopo di giustificare l’inclusione dell’esistenza di Dio tra le certezze del senso comune –
descrivo in termini di tipo noetico, altri esprimono in termini esistenziali o fenomenologici: si pensi alle espressioni come
“esperienza del sacro” o “senso del sacro” o anche “coscienza del sacro” (Heilsgewißheit)
introdotte da molti autori di filosofia della religione [Cfr Hans Albert, Kritischer Rationalismus. Vier
Kapitel zur Kritik Illusionären Denkens, Mohr-Siebek Verlag, Tubinga 1990.]; si pensi anche all’espressione
“nostalgia del totalmente altro (Sehnsucht nach dem ganz Anderen)” di Max Horckheimer. In termini filosofici,
si può dire che « l’uomo finito può sapere con assoluta certezza solo che la verità infinita
che egli cerca può essere da lui solo cercata, ma non trovata con le proprie forze. La comprensione del sapere di non
sapere si rivela così quale grado preliminare dell’apertura a Dio. Il non sapere viene concepito come “santissimo
non sapere (sacratissima ignorantia)”, dato che solo il sapere di non sapere rende sensibile lo spirito finitoi
nei confronti della possibilità in sé inconcepibile della presenza del Dio infinito nell’uomo »
[Fisher, op. cit., p. 31.].
Ora, il fondamento della
religione – come fenomeno storico-culturale e come dato significativo della storia della filosofia – è proprio
l’esperienza del sacro, o esperienza religiosa, che da una parte porta al culto di un Dio dai mille volti diversi, che
in definitiva è un “Dio ignoto” (vedi il discorso di Paolo all’Areopago di Atene, narrato da Luca negli
Atti degli Apostoli, 17, 16-34); dall’altra porta alla ricerca razionale su Dio, o “teologia filosofica”:
con la differenza che le varie manifestazioni del culto sono una costante nella storia dell’umanità, mentre la
filosofia di Dio è un episodio, sia pure importante, che riguarda la civiltà greca a partire dal VI secolo av.
Cr. [Vedi Étienne Gilson, God and Philosophy, 1940; trad. it. a cura di Antonio Livi: Dio
e la filosofia, Ed. Massimo, Milano 1980; Idem, Costanti filosofiche dell’essere, trad. it., Ed. Massimo, Milano
1983, pp. 169-235.].
La teologia cristiana
ha spesso designato l’esperienza del sacro con il termine di “rivelazione naturale”: il termine sta a indicare,
da una parte, che Dio in sé non è accessibile alla conoscenza umana naturale, e che quindi non può essere
conosciuto se Egli stesso non si rivela; dall’altra, che nel mondo si scorgono le “tracce” di Dio (vestigia
Dei), per cui il mondo è rivelazione di Dio (theophania), secondo quanto la Scrittura espressamente insegna
(cfr Libro della Sapienza, 13, 1-5; Lettera ai Romani, 1, 19-21). È chiaro che si tratta di una conoscenza
di Dio indiretta, attraverso la ragione discorsiva, che si avvale della nozione di causalità: è quindi una inferenza,
ma di carattere necessario e spontaneo, e quindi universalmente praticabile e praticata. È chiaro anche che il Dio che
così si rivela nella natura è solo il Creatore, non il Dio trino e uno che si rivela in Gesù Cristo;
la “rivelazione naturale” non rende pertanto superflua la rivelazione “soprannaturale”, quella che richiede
la fede in senso stretto.
Fatte queste precisazioni,
resta acquisito che si può parlare – come espressione sinonima rispetto a quella di “rivelazione naturale”
– di “esperienza religiosa”, il cui nucleo è costituito dall’intuizione che il mondo è
creato e governato da un Dio personale, al quale ci si può e ci si deve rivolgere con il culto: « Dio è
– e resta sempre – il Mistero insondabile […]. La rivelazione che Egli compie è “naturale”
quando è fatta mediante le opere della creazione: infatti attraverso di esse Dio rivela, in modi e forme che sono perfettamente
adattate alla natura sensibile e intellettuale dell’uomo, la sua sapienza, la sua onnipotenza e la sua bontà, in
modo che l’essere umano possa sentirne la presenza, incontrarlo e adorarlo. Questa rivelazione “naturale”
è di grande importanza, perché è per suo tramite che l’uomo “sente” più facilmente
e più spontaneamente la presenza di Dio: di un Dio, non solo grande e potente, dinanzi al quale si sente il bisogno di
porsi in adorazione, ma anche di un Dio buono e benefico, di fronte al quale sorgono spontanei la preghiera e il ringraziamento
» [Anonimo La civiltà cattolica, 1996, pp. 451-452.].
Ora, il confronto tra
siffatta base metastorica e le “religioni storiche” o “positive” rende possibile stabilire se una determinata
religione storica realizza bene o male l’essenza della religione, e – se la realizza bene – se la realizza
più o meno. Ecco che , in conclusione, la filosofia della religione può procedere alla fase tassonomica della
sua ricerca, ossia a classificare le religioni storiche secondo precisi parametri valutativi. Nel linguaggio che io propongo,
ad esempio, le religioni vanno classificate in base a una fondamentale distinzione, quella tra religioni “sublimanti”
(che portano all’estremo limite superiore, sub limine, l’essenza della religione) e religioni “deformanti”(che
invece contraddicono la “forma”, ossia l’essenza della religione). E io sono convinto (lo è pure l’autore
di questo libro) che il cristianesimo si manifesti come una vera religione e anche come la religione vera. E sono convinto altresì
che questo rilevamento – che materialmente coincide con quanto il cristianesimo stesso, tramite il Magistero, afferma
riguardo a sé stesso e alle altre religioni [Cfr Congregazione per la dottrina della fede, dichiarazione
Dominus Iesus] - può e deve essere fatto con gli strumenti propri della filosofia, di modo che si resti
nell’ambito della filosofia della religione e non si sconfini nella teologia, nemmeno in quella disciplina teologica che
viene definita “di frontiera” – la teologia fondamentale - ma che teologica è e teologica deve restare
[Vedi sull’argomento la decisa presa di posizione di Rino Fisichella, La rivelazione, evento e credibilità,
VIII ed., Edizioni Dehoniane, Bologna 2002.].
L’ESSENZA DELLA FILOSOFIA DELLA RELIGIONE.
La filosofia della religione,
così intesa, è dunque una scienza valutativa, come tale votata all’arduo e impopolare compito di
riconoscere o negare legittimità a una prassi sociale che si presenti come una religione (o perché si autoqualifica
tale o perché viene considerata tale da una cultura sviluppatasi all’esterno di essa). Qui appunto, nella sua funzione
critica, si può vedere la differenza tra una filosofia della religione consapevole della sua natura epistemologica, che
la abilita al discernimento e alla valutativa (in quanto possiede i criteri per distinguere il vero dal falso e il conforme
dal deforme), e una filosofia della religione che invece non abbia saputo o voluto risolvere il problema del suo specifico oggetto
e del suo metodo adeguato. La prima è necessariamente dotata di “parresia” [Questo termine
è stato introdotto nel lessico culturale di oggi dal papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica Fides et ratio,
cit., § 48: « Alla parresia della fede deve corrispondere l’audacia della ragione ».],
mentre l’altra rinuncia alla sua funzione propriamente scientifica (la critica è la funzione primaria di ogni scienza)
per fungere da supporto ideologico di qualche prassi politica. La conseguenza è che l’immensa mole degli studi
di filosofia della religione – di per sé ricchi di rilevamenti analitici ma poveri di valutazioni sintetiche -
hanno avuto quasi sempre una “ricaduta” socioculturale banalizzata e banalizzante, che si è tradotta –
per via del modo di divulgare i risultati delle ricerche attraverso il filtro ideologico dei mass media - in un consolidamento
del conformismo imperante, a sostegno di ciò che oggi è considerato “politically correct”,
ossia – nel nostro caso – l’irenismo o indifferentismo in materia religiosa [Per la determinazione
dell’esatto significato dei termini “irenismo” e “indifferentismo” rimando al mio Dizionario
storico della filosofia , II ed. Società Ed. Dante Alighieri, Roma 2002.].
A questa strategia ideologica
dell’appiattimento acritico fa gioco, naturalmente, il presupposto soggettivistico per cui la religione non è che
un sentimento: un sentimento che esige rispetto se c’è o anche se non c’è, e quando si esprime in
un modo o anche quando si esprime in quello opposto. E così si arriva al paradosso di considerare “religione”
persino la millenaria cultura buddista, che ignora la nozione di Dio trascendente e personale e nella quale, di conseguenza,
nessuna delle componenti della religione (come prassi) esiste: né la preghiera (nella sua vera accezione di dialogo con
Dio), né l’ascesi (nella sua vera accezione di presa di distanza dai beni contingenti nella speranza dei beni imperituri
nell’unione con Dio nella vita eterna). Senza acribia scientifica, infatti, è facile confondere la “meditazione
trascendentale” delle scuole buddiste con la preghiera vera e propria, quale si trova nella prassi delle vere religioni.
Così come si è arrivati ad accettare acriticamente un modo di parlare volutamente ambiguo, quello che pretende
di rinchiudere in un’unica “essenza” tre realtà diverse – l’ebraismo moderno, il cristianesimo,
l’Islam – definendole come “religioni monoteistiche”: senza pensare che il Dio unico dei cristiani,
la Trinità, non è assimilabile al Dio unico degli ebrei e a quello dei musulmani, che è concepito oggi
in antitesi a quello cristiano, considerato eresia e bestemmia; e senza pensare che, di conseguenza, la prassi religiosa nei
tre casi è totalmente diversa [Cfr Antonio Livi, Introduzione, in Enrico Maria Radaelli, Il
Mistero della Sinagoga bendata, Effedieffe, Milano 2002, pp. I-IX.].
Il che non toglie che
l’adesione a una delle tre religioni cosiddette “monoteistiche” resti un problema di coscienza individuale,
che non si risolve sul piano dell’indagine filosofica. Ma non è superfluo, anzi è indispensabile il contributo
che la filosofia della religione può fornire alla ricerca del vero culto da tributare al vero Dio. Occorre però
che la filosofia della religione sia elaborata e divulgata con chiarezza e con coraggio, proprio come fa Roberto Rossi in questo
suo bel libro. La chiarezza concettuale e i coraggio del discernimento del vero dal falso sono le prerogative maggiori della
filosofia in sé e per sé. (Torna
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