La
filosofia della religione è nata nell’Ottocento, ed è nata con un difetto originario, la sua ambiguità
epistemologica. Non più metafisica, non più etica, e nemmeno teologia, la filosofia della religione è nata
come antropologia nel senso kantiano del termine, ossia come descrizione di un a priori soggettivo che si presume dotato di valore
anche a prescindere dalla verità del suo oggetto.
Documentano questa ambiguità
costitutiva i termini del tutto equivoci che la filosofia della religione usa costantemente, a cominciare dal termine “fede”
con il quale si designa ogni credenza religiosa, senza tener conto affatto della sostanziale differenza tra religioni basate sulla
rivelazione divina – che è pubblica ed esibisce le sue garanzie di credibilità - e religioni basate invece
su tradizioni popolari (dove non c’è messaggio della Trascendenza) o presunte rivelazioni private (dove non c’è
garanzia alcuna di credibilità): mentre nel primo caso si può e si deve parlare di “fede nella rivelazione
divina”, con un suo carattere intrinsecamente razionale , nel secondo caso si tratta dell’adesione a sistemi di sapienza
morale o a ideologie socio-politiche, a sostegno della quale si trovano soltanto il senso di appartenenza a una tradizione o la
fiducia acritica in un maestro umano.
Ma – ci si può
domandare – perché non si vuole dare un nome diverso ai due casi, che sono così evidentemente diversi anche
agli occhi degli stessi cultori della filosofia della religione? Il motivo è appunto l’origine kantiana della metodologia
con la quale la nuova disciplina viene praticata: e Kant ha ripreso da Hume l’accezione irrazionalistica del termine “fede”
(belief), che anche in lui diventa qualcosa di assolutamente incompatibile con la ragione ; e da questo modo di parlare
dipendono le pretese opposizioni concettuali tra “fede” e “ragione”, tra “fede” e “scienza”
, tra “fede” e “critica”.
Si tenga presene che fino
a Friedrich Schleiermacher, che di questa disciplina filosofica è considerato il fondatore, i temi della religione venivano
affrontati innanzitutto in sede di trattazione metafisica, e in questa sede il tema centrale era la fondazione razionale della
certezza dell’esistenza di Dio, Sapienza ordinatrice e Provvidenza universale; poi – sulla base della metafisica –
in sede di trattazione etica, come giustificazione razionale del legame di filiazione di ogni uomo con Dio verso Colui che è
il sommo Bene e l’eterno Padre, legame primario da cui deriva il legame secondario, quello della comunanza di natura e del
dovere di fraternità con tutti gli altri uomini. Così è stato nei duemila anni che vanno dalla nascita della
filosofia (VI secolo av. Cr.) fino all’Umanesimo rinascimentale (XIV sec. d. Cr.), dai Dialoghi platonici all’aristotelica
Etica nicomachea, dal ciceroniano De natura deorum all’agostiniano De vera religione, dal Monologion
di Anselmo d’Aosta all’Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura, dal Convivio di Dante al De dignitate
hominis di Giovanni Pico della Mirandola.
Insomma, in questo lungo
periodo della storia della nostra civiltà occidentale, un’etica su base metafisica è stata l’unica maniera
di considerare filosoficamente la religione. Da un punto di vista storico-critico si deve riconoscere che sotto questo aspetto
non ci sono sostanziali differenze tra la filosofia greca pre-cristiana e la filosofia nata dall’incontro tra la ragione
greca e la rivelazione biblica (filosofia cristiana, ebraica e musulmana): in entrambi i casi la religione è vista come
un dovere di coscienza e una prassi individuale e sociale (dimensione etica) fondati sull’evidenza della verità nei
riguardi della Trascendenza (dimensione metafisica); e, in entrambi i casi, questa verità è vista come un’evidenza
naturale che si impone a tutti gli uomini (senso comune), un’evidenza naturale che la filosofia può e deve giustificare
con la dialettica che le è propria, ma non può ignorare e tanto meno smentire .
La svolta si ha con il
“cogito” cartesiano, che muta radicalmente il senso della ricerca metafisica, e con essa dell’etica.
La religione comincia a perdere i suoi connotati di oggettività e assume sempre di più i connotati della soggettività.
La svolta non si percepisce subito nelle sue conseguenze estreme, e con Leibniz, l’autore del celeberrimo Essai de théodicée,
sembra ancora che la filosofia si occupi della religione allo stesso modo degli antichi, dei medioevali e dei moderni prima di
Descartes. Ma non è così. Come poi dirà lucidamente Jacques Maritain agli inizi del Novecento, i “tre
riformatori” (Lutero, Descartes e Rousseau) avevano cambiato radicalmente il senso della prassi religiosa e di conseguenza
l’approccio della filosofia alla religione. Il soggettivismo, nato per trascendere lo scetticismo senza però dimostrarne
l’infondatezza , finiva per accettare, con Kant, che la realtà oggettiva è inattingibile e che pertanto la
metafisica come scienza è impossibile. La morale diventava postulatoria, dunque esigenziale, volontaristica, meramente
formale; la religione – come teorizzava Kant nell’opera esplicitamente intitolata La religione nei limiti della
sola ragione – veniva ridotta a mero sinonimo della “ragione pratica”. Nasce così un’idea della
religione come espressione soggettiva della moralità, identificata ormai con una morale della coscienza senza scienza,
con una morale “autonoma” che prescinde dalla certezza razionale dell’esistenza di Dio e di una sua legge, con
una morale del “puro dovere” che impegna il soggetto con sé stesso, non con Dio (anzi, Dio stesso è
“posto” o postulato, ossia esigito dalla coscienza del soggetto come condizione di pensabilità della norma
morale).
Beninteso, non tutti i
pensatori moderni avevano accompagnato o seguito Descartes nella sua svolta metodologica; proprio per difendere la possibilità
di concepire e di vivere una morale e una religione con basi metafisiche oggettive, grandi filosofi come Vico e Reid si erano
opposti al soggettivismo cartesiano rivendicando efficacemente le ragioni del senso comune . Ma l’impostazione kantiana,
che portava alle ultime conseguenze la svolta cartesiana, era prevalsa in larghi settori della cultura superiore europea, e la
filosofia della religione (come la gnoseologia, l’etica, l’antropologia) doveva nascere proprio sotto l’egida
della critica e del trascendentalismo, privilegiando la dimensione soggettivistica della coscienza religiosa; si rilegga quello
che scriveva in proposito, con malcelato entusiasmo, uno storico della filosofia: « [Kant] esige che l’elemento
storico e dogmatico (“statutario”) della religione venga sempre più subordinato all’elemento interiore
ed etico. La fede storica non ha che un significato provvisorio e simbolico. La chiesa visibile deve sempre più avvicinarsi
alla chiesa vera ed invisibile, nella quale ogni individuo è in intima ed immediata relazione con la verità suprema.
[…] Kant stesso non sentiva come la chiesa interpretasse ben diversamente il cristianesimo. Nondimeno egli aveva lo schietto
convincimento che lo svolgimento religioso sarebbe avvenuto nella direzione che egli aveva predetto. In questo potrà forse
ancora l’avvenire dargli ragione; […] ma per la filosofia della religione la sua opera aprì veramente una nuova
era: per la lotta in favore dell’interiorità contro l’esteriorità, e per la sua affermazione del valore
dei casi interiori della vita individuale, essa conserverà il suo valore in ogni tempo ».
Sulla scia di questa egemonia
culturale si spiega il successo dell’operazione schleiermacheriana: fondare una nuova disciplina che sancisse la definitiva
emancipazione della religione dalla metafisica e dalla morale. La formula essenziale del discorso di Schleiermacher diventa questo:
la religione, per la filosofia, è null’altro che un sentimento, un determinato sentimento, il "sentimento di
dipendenza" (Abhängigkeitsgefühl) dall’Assoluto. Il termine “dipendenza” sembrerebbe conservare
alla riflessione filosofica sulla religione la sua nozione essenziale, quella di “legame” (religatio) tra l’uomo
e Dio: in realtà, trattandosi di una filosofia soggettivistica, nella sua logica l’oggetto del sentimento non esiste,
o meglio non conta, perché se anche esistesse non lo si potrebbe conoscere. Resta dunque il sentimento soggettivo, da interpretare
come si vuole. Avrà buon gioco, nello sesso periodo, Ludwig Feuerbach nell’interpretare il sentimento religioso come
“proiezione mentale”, all’esterno dell’uomo, di ciò che è solo all’interno dell’uomo
stesso, ossia il suo desiderio di potere assoluto, la sua insofferenza nei confronti dei suoi limiti costitutivi (cfr Das Wesen
des Christentums). Si è parlato molto della “svolta antropologica” di Feuerbach: in realtà, la svolta
era già stata operata da Descartes, e l’esplicita riduzione feuerbachiana della filosofia della religione ad antropologia
nulla aggiunge di sostanziale alla riduzione kantiana della religione a morale, della morale a “ragione pura pratica”,
e di quest’ultima a categorie a priori dell’Io trascendentale.
Ora, a tanti anni di distanza
da quella vicenda, la filosofia della religione continua a esistere come disciplina filosofica autonoma. Inevitabilmente, la matrice
soggettivistica da cui essa deriva non può non condizionare in qualche modo anche chi intende riportare la religione al
suo fondamento metafisico e alla sua dimensione morale, ed è appunto tale condizionamento ciò che le conferisce
quel carattere ambiguo di cui dicevo all’inizio. Sarà possibile coltivarla senza accettare l’impostazione epistemologica
kantiana? Certamente, se la metodologia adottata è quella della fenomenologia, e se il metodo fenomenologico non viene
in alcun momento trasceso, l’impostazione epistemologica kantiana resterà dominante. Se invece la fenomenologia viene
utilizzata, insieme alle scienze umane che si occupano della religione (antropologia, psicologia della religione, storia comparata
delle religioni, sociologia, etnologia), in un quadro di riferimento genuinamente metafisico (non meramente ermeneutico), ecco
che la filosofia della religione può fornire ai nostri giorni un valido contributo alla presa di coscienza dei valori propriamente
religiosi , altrimenti essa corre il rischio di annullarsi come filosofia e di appiattirsi al livello epistemologico delle scienze
umane e sociali, le quali, come ebbe a dire non senza qualche ragione l’antropologo René Girard, mirano a giustificare
la propria scelta a antimetafisica negando alla religione una sua specificità in relazione agli altri fenomeni dell’interiorità
e della vita sociale.
L’ESSENZA DELLA RELIGIONE.
La condizione per mantenere
alla filosofia della religione il suo carattere filosofico è che si conservi in maniera sostanziale (non solo nel lessico)
la natura metafisica dell’indagine filosofica sulla religione. Ora, la natura metafisica di qualsiasi disciplina consiste
nel porsi il problema socratico, quello dell’essenza, sia riguardo a sé stessa che riguardo al suo oggetto (ogni
disciplina scientifica, infatti, è una determinata ricerca, distinguibile dalle altre, solo se si stabilisce un
preciso rapporto con un determinato oggetto di indagine: actus specificantur ab obiecto). La filosofia della religione
deve dunque determinare innanzitutto che cosa corrisponda, nella realtà, al termine “religione”. Se, come avviene
da due secoli, essa tralascia di assolvere questo compito epistemologico, contribuirà anch’essa, inevitabilmente,
ad accrescere l’ambiguità nominalistica che oggi domina la cultura occidentale e che finisce per privare di rigore
razionale (malgrado tutte le apparenze di sofisticata razionalità critica) ogni discorso, tradendo la sua matrice volontaristica,
ossia la sua natura di ideologia al servizio di interessi pragmatici (che poi si riducono alla Wille zur Macht, al desiderio
di conquistare o mantenere il potere).
Dunque, ci si deve domandare:
cos’è in sé e per sé la religione? ossia, qual è la sua essenza? Che cosa distingue dunque la
filosofia della religione dalla metafisica, dalla filosofia della conoscenza, dall’etica, dalla teologia filosofica, dalla
filosofia dell’uomo o antropologia filosofica? Qual è, di conseguenza, il motivo per cui la religione deve essere
studiata da una apposita disciplina filosofica?
L’unica risposta
possibile è questa: la filosofia della religione si distingue dalla metafisica, dalla filosofia della conoscenza, dall’etica,
dalla teologia filosofica, dalla filosofia dell’uomo o antropologia filosofica perché essa presuppone tutte
queste scienze, tutti questi saperi, ed è ad essi “subalternata”, ma studia ciò che le altre scienze
non prendono in considerazione, ossia la prassi. Infatti, la religione è, per sua natura, una prassi: una prassi che dipende
da una conoscenza (la conoscenza dell’esistenza di Dio e dei doveri che l’uomo ha nei suoi riguardi) ma non si limita
a sapere bensì va oltre, procede nella direzione della vita vissuta, ossia nel vivere la vita in modo conforme a tale convinzione.
La religione si potrebbe dunque definire così: il comportamento (individuale e sociale) che deriva dalla convinzione
che tutta la realtà fa capo a un Principio personale dal quale dipende il passato (le origini), il presente (vita attuale)
e il futuro (vita oltre la morte), e che quindi deve essere contemplato, venerato, cercato, assecondato nei suoi disegni provvidenziali,
in modo da fare di questa vita presente una prefigurazione della vita eterna con Dio e un avviamento ad essa. Come si vede,
tutto sta nel passare anche qui “dal fenomeno al fondamento”, secondo la felice espressione di Giovanni Paolo II :
non basta il rilevamento fenomenologico di determinati vissuti (Erlebnisse) a carattere “mistico”, né
basta riportarli a un fondamentale sentimento soggettivo (Gefühl) a carattere “pio”; non basta nemmeno
rilevare sociologicamente dei comportamenti comunitari dove vengono “sacralizzati” o riferiti al “sacro”
i tempi passati (le narrazioni mitiche), i tempi ciclici (le feste), i luoghi (i boschi sacri, i templi), le persone (i sacerdoti),
i gesti collettivi (i riti); occorre decifrare in ogni singolo caso se la prassi rilevata fenomenologicamente o sociologicamente
corrisponda o meno a quella convinzione fondamentale (credenza, fede, belief, Glaube) che è il fondamento
della religione e che non si riduce a sentimento e nemmeno a convenzione sociale.
Una volta stabilita in
modo rigoroso l’essenza della religione, sarà possibile passare alla valutazione delle singole manifestazioni sociali
e culturali che fenomenologicamente appaiono come religioni, per decidere se meritino davvero questo nome (problema del rilevamento
di quali siano le vere religioni) e poi per cercare se in mezzo ad esse ce ne sia una che realizzi al meglio l’essenza
della religione (problema del riconoscimento di quale sia la religione vera). In questa opera di discernimento la filosofia
della religione ricava dalla filosofia della conoscenza, dove si parla di “esperienza religiosa fondamentale”, la
nozione di “religione naturale”, ossia di quella prassi ideale (metastorica) che corrisponde a ciò che per
natura tutti gli uomini sanno di Dio e sentono di dover fare in rapporto a Dio.(Vai
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