Non ogni religione storica
esprime al meglio l’esperienza religiosa.
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da pag. 1) La filosofia della religione può così procedere a classificare le religioni storiche secondo precisi
parametri valutativi. I parametri che io propongo nei miei studi 16 [Cfr ANTONIO
LIVI, “Sullo statuto epistemologico della filosofia della religione” , in Aquinas, 48 (2005), pp. 181-198.]
mirano a rilevare se la dottrina e la prassi di una religione sono “sublimanti” (nel senso che portano all’estremo
limite superiore, sub limine, l’esperienza religiosa) oppure “deformanti” (nel senso che invece contraddicono
la “forma”, ossia l’essenza, della religione).
Ciò porta a concludere,
restando sempre nell’ambito della filosofia della religione, che il cristianesimo ha fondati motivi per presentarsi come
una vera religione, e anche come la religione vera, 17 [Cfr Congregazione
per la Dottrina della Fede, Istruzione Dominus Iesus, 6 agosto 2000.] mente l’Islam contraddice in molti
aspetti essenziali la natura della religione (disconoscendo la paternità universale di Dio e la conseguente pari dignità
di tutti gli esseri umani, aventi tutti i medesimi diritti e il medesimo destino eterno) e così finisce per generare
una prassi sociale e politica che rappresenta la corruzione dell’autentico spirito religioso.
La filosofia della religione
è dunque una scienza valutativa, votata al compito (arduo e impopolare) di riconoscere o negare legittimità
a una prassi sociale che si presenti come una religione, o perché si autoqualifica tale o perché viene considerata
tale da una cultura sviluppatasi all’esterno di essa.
Qui appunto, nella funzione
critica, si può vedere la differenza tra una filosofia della religione consapevole della sua natura epistemologica, che
la abilita al discernimento e alla valutativa (in quanto possiede i criteri per distinguere il vero dal falso e il conforme
dal deforme), e una filosofia della religione che invece non abbia saputo o voluto risolvere il problema del suo specifico oggetto
e del suo metodo adeguato.
La prima è necessariamente
dotata di “parresia”, 18 [Questo termine è stato introdotto
nel lessico culturale di oggi dal Papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica Fides et ratio, cit., § 48: «
Alla parresia della fede deve corrispondere l’audacia della ragione ».] mentre l’altra rinuncia
alla sua funzione propriamente scientifica (la critica è la funzione primaria di ogni scienza) per fungere da supporto
ideologico di qualche prassi politica.
La conseguenza è
che l’immensa mole degli studi di filosofia della religione – di per sé ricchi di rilevamenti analitici,
ma poveri di valutazioni sintetiche – hanno avuto quasi sempre una “ricaduta” socioculturale banalizzata e
banalizzante, che si è tradotta – per via del modo di divulgare i risultati delle ricerche attraverso il filtro
ideologico dei mass media – in un consolidamento del conformismo imperante, a sostegno di ciò che oggi è
considerato “politically correct”, ossia – nel nostro caso – l’irenismo o indifferentismo
in materia religiosa. 19 [Per la determinazione dell’esatto significato
dei termini “irenismo” e “indifferentismo” rimando al mio Dizionario storico della filosofia
, II ed. Società Ed. Dante Alighieri, Roma 2002.]
A questa strategia ideologica
dell’appiattimento acritico fa gioco, naturalmente, il presupposto soggettivistico per cui la religione non è che
un “sentimento”: un sentimento che esige rispetto se c’è o anche se non c’è, e quando
si esprime in un modo o anche quando si esprime in quello opposto.
Così si arriva
al paradosso di considerare “religione” persino la millenaria cultura buddista, che ignora la nozione di Dio trascendente
e personale e nella quale, di conseguenza, nessuna delle componenti della religione (come prassi) esiste: né la preghiera
(nella sua vera accezione di dialogo con Dio), né l’ascesi (nella sua vera accezione di presa di distanza dai beni
contingenti nella speranza dei beni imperituri nell’unione con Dio nella vita eterna).
Senza acribia scientifica,
è facile confondere la “meditazione trascendentale” delle scuole buddiste con la preghiera vera e propria,
quale si trova nella prassi delle vere religioni. Così come è facile prendere per buona, dal punto di vista filosofico-religioso,
l’equiparazione tra l’ebraismo moderno, il cristianesimo e l’Islam, comunemente denominate le “tre grandi
religioni monoteistiche”: denominazione che non può servire a richiudere in un’unica “essenza”
tre realtà religiose che invece sono assai diverse, dato che il Dio unico dei cristiani, la Trinità, non è
assimilabile al Dio unico degli ebrei e a quello dei musulmani, che è concepito oggi in antitesi a quello cristiano,
considerato eresia e bestemmia, il che logicamente ha per conseguenza che la prassi religiosa nei tre casi sia totalmente diversa.
20 [Cfr ANTONIO LIVI, Introduzione, in ENRICO MARIA RADAELLI, Il Mistero
della Sinagoga bendata, Effedieffe, Milano, pp. I-IX. Cfr anche quanto ha scritto di recente un autorevole teologo milanese:
« Il Signore ha mandato i suoi apostoli ad annunziare e a testimoniare il suo Vangelo nel mondo intero, così
che tutti gli uomini – proprio tutti – diventino credenti in Lui. Ne consegue che il suo discepolo non arrossirà
a proclamare che la sola “vera religione” – per usare le parole di Agostino – è quella annunziata
da Cristo e in atto in Lui; che non c’è un Dio cristiano e, a lui equivalente o quasi, il Dio di altre religioni,
sia pure monoteistiche, ma che l’unico vero Dio è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, o la Trinità
» (INOS BIFFI, “Nel Catechismo l’originalità che sa dialogare”, in Avvenire, 10 agosto
2005, p. 16).]
Il che non toglie che
l’adesione a una delle tre religioni cosiddette “monoteistiche” resti un problema di coscienza individuale,
che non si risolve sul piano dell’indagine filosofica. Ma non è superfluo, anzi è indispensabile il contributo
che la filosofia della religione può fornire alla ricerca del vero culto da tributare al vero Dio. Occorre però
che la scienza della religione sia divulgata con chiarezza e con coraggio, come fa Roberto Rossi in un suo bel libro, inizialmente
scritto per l’università ma poi adottato da molti docenti, con ottimi risultati didattici, come testo per l’insegnamento
di Religione cattolica nei licei. 21 [Cfr ROBERTO ROSSI, Fondamento e storia.
Essenza e forme della religione, III ed., Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2005.] La chiarezza concettuale e
il coraggio del discernimento del vero dal falso sono le prerogative maggiori della filosofia in sé e per sé.
L’Islam come religione “deformata”.
In conclusione. Se non
si operano mentalmente le distinzioni delle quali ho parlato, se non si ha il coraggio di applicarle con rigore concettuale
ai fatti del giorno, i fatti rimangono prigionieri del modo di raccontarli e di interpretarli proprio dell’ideologia dominante
in Occidente, che riguardo al cristianesimo non è interessata a rispettare la verità. Siamo noi cristiani a dover
interpretare i fatti e a dover comprendere la storia che la Provvidenza ha disposto che vivessimo.
Quando leggiamo sui giornali
o sentiamo alla televisione che “al-Qaida” motiva i suoi crimini affermando che si tratta di una guerra santa contro
« i sionisti » e contro « i crociati », invece di pensare che si tratta di una
imitazione e moltiplicazione della strage di ebrei perpetrata da Maometto e di una tarda vendetta contro le Crociate e contro
la Reconquista, dobbiamo considerare queste due evidenze: 1) che i “jihadisti” tentano di nobilitare con
pretesti religiosi, agli occhi degli islamici, una strategia, la loro, che è esclusivamente politica, oltretutto compiuta
con mezzi innegabilmente criminali (stragi di innocenti, compiute mandando a suicidarsi gli stessi assassini); 2) che la loro
interpretazione del Corano implica l’identificazione dell’Islam con le masse medio-orientali da loro capeggiate
e aizzate contro l’Occidente (America, Russia e Paesi dell’Europa alleati con l’America) e contro gli stessi
Paesi islamici che non aderiscono a questa loro “guerra santa”; identificazione che comporta l’equiparazione
del resto del mondo con altre religioni, che sono religioni da distruggere in quanto considerate espressione del rifiuto di
riconoscere il diritto dell’Islam al potere politico mondiale.
È in questo rifiuto,
agli occhi degli islamici, che consiste principalmente il peccato degli « infedeli », il motivo per
cui l’America o altre potenze occidentali vengono denominate « il Grande Satana ». L’avversione
all’Occidente, quindi, è una pianta che ha le sue radici nel terreno della religione, ma con molteplici
ramificazioni che sono tutte di carattere politico.
L’azione politica
finisce così per essere l’unica azione collettiva e istituzionale concepibile per i musulmani nei confronti delle
altre religioni, in particolare il cristianesimo. 22 [Si legga in proposito il
documentato studio di GIUSEPPE SCATTOLIN, L’Islam nella globalizzazione, Editrice Missionaria Italiana, Bologna
2004.]
Il problema religioso
vero e proprio – l’accusa ai cristiani di “bestemmia” per la loro dottrina della Trinità –
non è il fattore scatenante dell’aggressività islamica nei confronti dell’Occidente. Insomma, per
una religione “deformata” com’è l’Islam, il quale identifica il culto di Dio con un presunto
piano divino di applicazione letterale del Corano all’interno e all’esterno della comunità dei fedeli,
non è sorprendente che la volontà di Dio sulla progressiva islamizzazione del mondo sia interpretata come guerra
(jihad) di conquista o di riconquista di nuove aree geografiche e di sottomissione di nove popolazioni. Così fu
il “jihadismo” in altri tempi, e così è adesso.
Ciò non significa
che non possano esserci nell’Islam interpretazioni diverse (mai però del tutto divergenti) da questa. Possono cambiare
i modi di intendere l’attuazione del jihad, ma essa non sarà mai rinnegata dai musulmani, per quanto siano
essi definiti “moderati” dai nostri politici occidentali.
Di quello che succede
in un Paese “moderato” come l’Egitto (sede peraltro della più autorevole università islamica)
ne parlava in un’intervista il missionario padre Scattolin: « Ho conosciuto personalmente intellettuali
musulmani che avvertono l’esigenza di una profonda riforma all’interno dell’Islam. Sono loro che hanno avuto
il coraggio di pubblicare le prime riletture critiche sulle fonti, a partire dal sacro Corano. Si tratta di studi esegetici
che hanno provocato e continuano a provocare delle violente reazioni da parte dei fondamentalisti. Basti pensare, solo in Egitto,
all’uccisione di Faraj Foda o al caso di Nagib Mahfuz, che ha rischiato la vita in un attentato, o ancora di Nasr Abu
Zaid, costretto all’esilio. Insomma, vi sono voci “liberali”, ma sono ostaggio dei violenti ». 23
[In Avvenire, 31 luglio 2005, p. 3.]
I “violenti”
sono coloro che ritengono di dover applicare alle lettera (l’ortodossia islamica consiste proprio nel prendere alla lettera
il Corano) la sura IX, dove si legge: « Preannunciate agli infedeli il doloroso castigo che li
colpirà. Quando saranno trascorsi i mesi sacri, voi ucciderete questi banditi ovunque li incontrate: catturateli, assediateli
e tendete loro agguati. Se invece si pentono, praticano la preghiera e pagano le decime, li lascerete andare per la loro strada.
Allah infatti è pronto al perdono, è misericordioso [con i suoi fedeli] ». 24
[Corano, sura IX, At-Tawba (Pentimento o maledizione), 29; cfr 5, 54; 47, 4; 9, 123 e
216.]
Un’autorità
islamica contemporanea che ha ritenuto di insegnare l’applicazione è stato Abul A’la al-Maududi (1903-1979),
iniziatore della Jamaate-Islami (= Partito islamico) in Pakistan; in un suo celebre libro-guida, intitolato si possono
leggere frasi come questa: « L’Islam deve distruggere qualunque Stato o governo di qualsiasi parte del
mondo che si opponga alla fede e alla dottrina dell’Islam ». 25 [SAYYID
ABUL A’LA AL-MAUDUDI, Al-Jihad fi al-Islam, II ed., Lahore, Azamgarh, (India) 1948, pp.89-91; trad ingl. di Charles
J. Adams: The Necessity of Divine Government for the elimination of Oppression and Injustice, in AZIZ AHMAD e G.E. VON
GRUNEBAUM (edd.), Muslim Self-Statement in India and Pakistan, Wiesbaden 1970, pp. 156-7. Vedi in merito lo studio di
CAMILLE EID, Osama e i suoi fratelli, Pimedit, Milano 2001.]
Occorre tener conto di
tutto questo per capire ciò che succede sullo scenario politico mondiale, senza però trarne la conseguenza (illogica)
di guardare con sospetto gli sforzi di dialogo interreligioso, che ha dato tanti frutti di reciproca conoscenza e di reciproco
rispetto già negli ultimi decenni.
Coloro che dicono, per
restare in tema di politica, che la lotta al terrorismo va condotta innanzitutto sul terreno culturale, hanno senz’altro
ragione, perché la comprensione e la simpatia delle popolazioni occidentali (cristiane o scristianizzate) nei confronti
delle comunità di islamici residenti in quei Paesi sono doveri di carità e di solidarietà da osservare
sempre, anche se non sempre da parte degli islamici ci sono stati segni di riconoscenza all’estero o disponibilità
alla reciprocità in patria.
Peraltro, bisogna pur
riconoscere che lo scetticismo di molti, a questo riguardo, è altrettanto giustificato dai fatti: perché gli islamici
che « odiano l’Occidente », siano essi leaders cinici o masse fanatizzate, non hanno
smesso di ordine trame criminali nemmeno nei confronti di chi più si è prodigato a favore del “dialogo”.
Ciò che serve
a noi cristiani come riorientamento in questo confuso momento storico è la considerazione che non è la religione
come tale a generare la violenza e la guerra, ma la politica, sia pure gestita da uomini che si presentano come rappresentanti
di una religione. Ragione per cui, quando i “jihadisti” pretendono di legittimare come valore propriamente religioso
una politica aggressiva o la resistenza armata o il terrorismo, noi prendiamo atto che, purtroppo, la loro religione li ha educati
a una religiosità “deformata”.
E, per contrasto, ci
rendiamo meglio conto dello spirito del Vangelo che noi abbiamo la grazia e il dovere di vivere: uno spirito che ci induce a
operare per la diffusione della fede, non con i mezzi politici della conquista territoriale e della coercizione militare
o legale dei popoli, ma con i mezzi apostolici della testimonianza e del dialogo, unitamente alla preghiera e al sacrificio.
Così fecero gli Apostoli, così i primi cristiani e così tutti coloro che furono e sono fedeli a Cristo.
E se qualcuno opera in modo difforme, la Chiesa prima o poi disconosce esplicitamente il suo operato.
Proprio per questo dicevo
che il cristianesimo è la religione che non “deforma” ma anzi “sublima” la religiosità
naturale, a cominciare da quella sua componente essenziale che è lo spirito di fraternità universale.
Infine, anche se questo non era il tema del mio intervento, i problemi del rapporto tra cristiani e musulmani può e deve
essere affrontato anche e soprattutto con criteri di ordine schiettamente teologico, che sono poi quelli che la Chiesa cattolica
ha insegnato e praticato negli ultimi quarant’anni, dal concilio ecumenico Vaticano II all’istruzione Dominus
Iesus. È chiaro che ogni cristiano, soprattutto considerando la sua azione come singolo fedele e lasciando alla Gerarchia
i rapporti istituzionali, 26 [Cfr ANTONIO LIVI, “Verità e carità
nel dialogo interreligioso”, in Città di vita, 58 (2003), pp. 425-440.] non può che nutrire
sentimenti di rispetto sincero per altri individui che professano una religione, intravedendo in ogni pratica religiosa un riverbero
di quella “religione naturale” che è, come si diceva, il terreno comune sul quale germogliano e crescono
tutte le religioni “storiche”.
Allo stesso tempo, ogni
cristiano sa di essere partecipe della missione apostolica ed evangelizzatrice della Chiesa, e quindi non rinuncerà mai
a testimoniare e ad annunciare a tutti, musulmani compresi, che Cristo Gesù è il figlio di Dio e l’unico
Salvatore del mondo. Se poi questo apostolato si dovesse confermare ancora una volta infruttuoso, per la ben nota resistenza
degli islamici ad accettare la verità cristiana, ciò non deve turbare la nostra coscienza: noi cristiani sappiamo
infatti che Cristo, affidandoci la diffusione del Vangelo, ci ha assicurato la sua continua assistenza, ma non certamente un
successo visibile, meno che mai un successo immediato. (Torna a pag. 1, a pag.
2).
Antonio Livi *