Nel
giudicare negativamente il dualismo gnoseologico che, com’è noto, caratterizzò una lunga fase dello sviluppo
storico della filosofia occidentale oggi sembrerebbero essere quasi tutti d’accordo: si tratta, anzi, di una delle poche
valutazioni intorno alle quali i sostenitori del realismo tradizionale si trovano a concordare con tutti gli altri principali
orientamenti rappresentati nell’odierno dibattito filosofico ed epistemologico. Nondimeno è al tempo stesso molto
radicata e diffusa la convinzione che quella scorretta impostazione del problema gnoseologico fosse legata proprio al realismo
tradizionale, notoriamente coincidente con il realismo implicito nel senso comune, e che il superamento della prima abbia avuto
come conditio sine qua non il superamento del secondo; e ci pare superfluo rilevare che l’attuale successo di correnti
filosofiche palesemente non immuni da elementi almeno tendenzialmente scettico-relativistici dipende in non lieve misura dal
consenso, anche solo implicito, che si continua a registrare intorno a questo fondamentale giudizio storico-teoretico. Un giudizio
di cui cercheremo di dimostrare l’infondatezza, prendendone in considerazione una versione particolarmente chiara ed esplicita.
Prima, però, vorremmo
rilevare un ulteriore aspetto della questione: e cioè che, se si ritiene possibile e anzi doveroso contrastare in tutto
o in parte il senso comune, ciò può avvenire solo perché lo si confonde con la conoscenza ordinaria o con
il modo di pensare prescientifico e prefilosofico, ossia perché si confonde quell’organismo di certezze spontanee
e irriflesse, comuni a tutti gli uomini e incontrovertibilmente vere, che si può denominare appunto senso comune -e che
in linea di principio si potrebbe denominare anche altrimenti, ma non è di questo che vorremmo discutere nel presente
saggio-, con la condizione mentale di colui che, relativamente a un determinato problema od oggetto di ricerca, si trovi a non
essere armato di nient’altro che di tali certezze: quasi che il riconoscimento della dimensione veritativa o epistemica
di queste ultime fosse di per sé un invito a trasferire di peso nell’ambito dell’indagine scientifica e filosofica
gli “stili cognitivi” e gli habitus mentali tipici dell’uomo della strada.
Ma poi ci si può
addirittura domandare se, ancor più che di una semplice distinzione fra le due nozioni di senso comune e di conoscenza
ordinaria, non sia il caso di parlare di una vera e propria opposizione fra esse, implicante sul piano storico un autentico
antagonismo. In altre parole ci si può chiedere se, paradossalmente, non sia proprio il surrettizio insinuarsi nel cuore
stesso della speculazione filosofica di abitudini concettuali desunte dalla conoscenza ordinaria ciò che più di
ogni altra cosa può generare, e di fatto ha generato nella storia del pensiero, la falsa apparenza dell’insostenibilità
di questo o quel contenuto del senso comune; e se, di conseguenza, una completa e rigorosa giustificazione delle certezze del
senso comune non sia qualcosa di accessibile solo a una prospettiva filosofica così matura ed elevata, e perciò
così lontana dai parametri della conoscenza ordinaria, da risultare ostica anche a non pochi pensatori di professione.
Ma è facile vedere che, se questo punto di vista fosse valido, ne conseguirebbe un quadro esattamente rovesciato rispetto
a quello secondo cui la più profonda e rigorosa speculazione filosofica è ciò che finalmente viene a dissolvere
gli idola di un senso comune equiparato al modo di ragionare dell’uomo della strada! Le pagine che seguono saranno
allora dedicate anche alla verifica di questa ipotesi.
Varrà anzitutto
la pena di ricordare la dottrina tradizionale (sicuramente conforme al senso comune; almeno a prima vista, la si direbbe conforme
anche al “modo ordinario di pensare”) secondo cui il conoscere come tale implica una relazione che deve rimanere
esterna all’oggetto conosciuto o, in altre parole, secondo cui l’essere-conosciuto si configura come una denominatio
extrinseca, ossia come qualcosa che non modifica in nulla l’ente di cui si predica. Di relazioni entrando nelle quali
un ente non subisce alcuna variazione (di relazioni “ideali”, insomma, contrapposte alle relazioni “reali”,
che sono quelle che modificano la natura di tutti i termini, due o più, fra i quali hanno luogo) l’ontologia classica
conosce solo due esempi: (1) la relazione del Creatore con la creatura e (2) la relazione del conosciuto con il conoscente (in
entrambi i casi l’idealità va per così dire in un senso solo, perché per la creatura la relazione
con il Creatore è addirittura la più reale in assoluto, essendo radicalmente costitutiva del suo stesso essere,
e anche per il conoscente quella con il conosciuto è una relazione reale, dato che dal fatto di conoscere qualcosa si
viene certamente modificati; pur se sulla natura di questo “essere modificati” si tratterà di intendersi
correttamente, per evitare i nefasti equivoci dei quali la storia della filosofia ci ha offerto, soprattutto in età moderna,
copiosi esempi).
Il conosciuto, dunque,
non viene per nulla alterato dal fatto di essere conosciuto. A ben vedere ciò è implicito nella “grammatica”
stessa del termine conoscere, per usare un modo di esprimersi notoriamente caro al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche:
infatti un processo che modificasse il proprio oggetto sarebbe, per ciò stesso, un processo non conoscitivo ma pratico.
La suddetta “grammatica”, a ben vedere, non è altro che il senso comune, o per lo meno si identifica con
una delle dimensioni che lo costituiscono; non per questo, però, la tesi che stiamo illustrando è stata priva
storicamente di avversari o di negatori. Se ciò sia dipeso da ingerenze del “modo ordinario di pensare” nell’organismo
della filosofia è quanto cercheremo di appurare fra non molto. Per ora ci interessa rilevare che un asserto al quale
in un certo momento storico non venga più riconosciuta l’evidenza che gli era stata attribuita precedentemente
può legittimare la propria pretesa di verità solo attraverso una fondazione di tipo elenchico.
Nella fattispecie una siffatta fondazione si può raggiungere osservando che, se anche la coscienza come tale alterasse
o modificasse alcune determinazioni dell’oggetto, essa sarebbe in ogni caso coscienza dell’oggetto in quanto modificato,
il che significa che le modificazioni da lei prodotte rientrerebbero in ciò che essa sa: la coscienza, in tal modo, scinderebbe
da sé ogni azione manipolatrice e si purificherebbe fino a non essere nulla meno che presenza o manifestazione dell’oggetto,
perfetta trasparenza della realtà conosciuta senza alterazioni o travisamenti di sorta. La conoscenza alterante, in definitiva,
non è conoscenza; l’autentica conoscenza dal canto suo conoscerà, senza alterare, i risultati dell’azione
della pseudo-conoscenza alterante. La critica che Hegel rivolge alla concezione strumentalistica del conoscere nelle battute
iniziali dell’Introduzione (Einleitung) alla Fenomenologia dello Spirito va esattamente in tale direzione.
[G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, trad. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1960, vol. I,
pp. 65-67.]
Come dicevamo, soltanto
superando una prova di questo genere un asserto può realmente certificare la propria appartenenza a quell’organismo
di verità originarie che abbiamo convenuto di chiamare senso comune; ma chi si sentirebbe di sostenere che per realizzare
in concreto una simile fondazione o “difesa” -la cui formulazione appare sempre limpida e semplice, una volta ottenuta,
ma la cui inventio è sempre frutto di notevole acume e sottigliezza mentale- sia in generale sufficiente la cognizione
delle medesime verità che richiedono di essere così fondate o difese (cioè sia in generale sufficiente
la conoscenza ordinaria)? Tali verità sono, almeno implicitamente o in actu exercito, ammesse da tutti, anche
da coloro che le negano esplicitamente o in actu signato e che in genere sono filosofi, sia pure assertori di sistemi
filosofici intrinsecamente incoerenti e perciò erronei; i non filosofi, infatti, non negano per lo più le verità
di senso comune, benché non per questo siano di regola intellettualmente superiori ai filosofi che le negano, dato che
quasi mai, posti di fronte a questi ultimi, sarebbero in grado di rispondere alle loro obiezioni, di rilevare le contraddizioni
presenti nei loro discorsi e pertanto di difendere criticamente la propria adesione alle suddette verità. Una tale capacità
appartiene in esclusiva alla filosofia più grande, alla quale, se non altro per lo specifico punto che stiamo considerando,
è apparsa riconducibile, come abbiamo visto, anche quella hegeliana.
Ma riprendiamo la nostra
trattazione. Certo è inevitabile che quando si parla di soggetto conoscente e di oggetto conosciuto si pensi anche a
due enti situati nello spazio e nel tempo (il modo ordinario di pensare, che peraltro già a questo livello così
rudimentale si distingue formalmente dal senso comune, ha i suoi diritti che nessuno intende contestare), e sembra altresì
del tutto legittimo pensare che la percezione sensibile, ossia la forma aurorale di conoscenza, supponga in primo luogo una
qualche azione esercitata dal secondo di tali enti sul primo. Se stiamo in questa prospettiva il conoscere si presenta come
una “facoltà”, cioè come un modo di essere di un ente che si trova in rerum natura accanto
ad altri enti; e si deve dire che, riguardato in questa veste, il conoscere ha l’oggetto conosciuto di fronte a sé
e, pertanto, fuori di sé. Ma c’è una seconda prospettiva in base alla quale, al contrario, si deve dire
che l’oggetto conosciuto, e lo stesso soggetto che si configura come “portatore” (owner) del conoscere
inteso nel senso precedente, sono propriamente interni al conoscere stesso, come suoi contenuti, e non già ad esso esterni
e antecedenti, come sue condizioni. Se nel primo caso si parla del conoscere nella sua accezione fisica (o empirica o psicologica
o soggettiva; Heidegger direbbe “ontica”), secondo la quale esso è solo un evento in mezzo a un’infinità
di altri eventi, nel secondo si ha di mira il conoscere nella sua valenza intenzionale (o logica od obiettiva; in linguaggio
heideggeriano “ontologica”), cioè il conoscere inteso come orizzonte trascendentale, vale a dire non come
un elemento accanto ad altri ma, in certo qual modo, come il teatro nel quale la scena si svolge e nel quale pertanto è
compreso tutto ciò che appare, incluso lo stesso conoscere riguardato come un elemento parziale accanto agli altri. È
questa la prospettiva in base alla quale Aristotele, per esempio, ha potuto sostenere che “l’anima è in qualche
modo tutte le cose”. [ARISTOTELE, De anima, III, 8, 431b21. ] In qualche modo, appunto:
cioè intenzionalmente e non certo fisicamente.
Ovviamente ci si può
e ci si deve domandare come di fatto avvenga il conoscere, ossia a quali condizioni si svolgano in natura quei processi che
danno luogo alla nostra conoscenza della realtà, e in primo luogo alla nostra conoscenza della stessa realtà naturale.
Senza dubbio, come già dicevamo, l’oggetto conosciuto esercita sul soggetto una qualche specie di stimolazione
(le cui concrete, precise modalità sono da indagarsi accuratamente a livello di scienza empirica), alla quale il soggetto
a sua volta reagisce, e l’esito di questa reazione (anch’essa da indagarsi non meno accuratamente nelle sue concrete,
precise modalità) è appunto la conoscenza sensibile. Già nell’antichità (si pensi a taluni
presocratici, agli epicurei…) e poi anche nella prima fase dell’epoca moderna (si ponga mente alle credenze diffuse
soprattutto negli ambienti più influenzati dal cartesianesimo) ci si raffigurò, ad esempio, il processo percettivo
come avente la sua origine nel trasvolare di alcune particelle corporee dall’oggetto al soggetto (è questo, ahimé,
il modo in cui non pochi moderni finirono con l’intendere le species degli Scolastici). Per quanto spiegazioni
del genere fossero palesemente inadeguate e anzi oggi ci appaiano decisamente ridicole, non risultarono tuttavia veramente pericolose
dal punto di vista filosofico finché non pretesero di mettere in discussione lo stesso valore conoscitivo dell’evento
mentale che erano chiamate a spiegare.
È qui doveroso
riconoscere che in genere nemmeno le espressioni teoreticamente più grezze del pensiero antico pervennero a una confusione
completa dei due piani del conoscere che sopra abbiamo distinti; una simile impresa riuscì invece alla modernità,
evidentemente abbacinata e come squilibrata dal suo fortissimo interesse per le dinamiche naturali della conoscenza sensibile,
un interesse maturato anche e soprattutto in relazione al sorgere della nuova scienza della natura. Accadde così che,
dal fatto innegabile che nella percezione il soggetto subisce l’azione fisica dell’oggetto, si ritenne di
poter trarre la conclusione che il soggetto percepisce, ossia conosce, non già l’oggetto stesso bensì,
appunto, il risultato dell’azione che quest’ultimo esercita su di lui e sulla sua costituzione psico-fisiologica:
con il noto corollario “scettico” in base al quale non avrebbe alcun fondamento la tranquilla fiducia che il risultato
di tale azione sia una immagine o una copia fedele della res da cui l’azione stessa promana.
Non è tuttavia
difficile comprendere che quest’ultimo è un esito solo apparentemente dettato da autentico spirito critico, perché
in realtà può stabilirsi solo in dipendenza da una iniziale “mossa” dogmatica. Se l’oggetto
che produce il suddetto influsso fisico, infatti, non è più l’oggetto intenzionalmente presente alla coscienza
ma è qualcosa di ulteriore ad esso, allora uno scetticismo veramente coerente (un “sano” scetticismo, se
così si potesse dire) dovrebbe problematizzare anzitutto la pura e semplice affermazione dell’esistenza di questo
oggetto sconosciuto, molto prima che la credenza nella capacità delle nostre rappresentazioni di riprodurlo fedelmente;
o, se si preferisce, dovrebbe cominciare con il mettere in dubbio l’opportunità di considerare come “rap-presentazione”
di una realtà non manifesta ciò che in precedenza (forse meno dogmaticamente!) veniva considerato come semplice
“presentazione” o manifestazione di qualcosa di reale.
Naturalmente questa persuasione
– in cui consiste propriamente il dualismo gnoseologico – secondo la quale la coscienza intenziona direttamente
non già l’oggetto in sé ma le proprie rappresentazioni, è contraria sia al senso comune sia allo
stesso modo ordinario di pensare, posto che quest’ultimo non vada oltre un’accettazione meramente passiva dei dati
del senso comune e si astenga da una più o meno consapevole opera di sistematizzazione dei propri canoni e criteri. Ma
le cose mutano completamente (e con questo rilievo ci accostiamo finalmente al paradosso che abbiamo prospettato all’inizio
del presente saggio) quando il “comune modo di pensare”, desideroso per così dire di indossare il vestito
della festa, tende a suo modo a una qualche forma di sistematicità e di coerenza interna: allora sì che nascono
le velleità, e insieme si profila la pericolosità, della coscienza ordinaria sul piano filosofico e scientifico.
Pericolosità, si badi, anzitutto per quell’originario livello di verità che è dato dal senso comune
nella sua genuina accezione. Sotto questo profilo si può ben dire che il dualismo gnoseologico non sia nient’altro
che il frutto dell’intrusione dei modi e delle forme della coscienza ordinaria entro l’organismo della riflessione
filosofica sulla conoscenza.
In che cosa propriamente
consistano questi modi, queste forme, questi habitus, questi canoni o criteri della coscienza ordinaria non è, a dire
il vero, la cosa più agevole da chiarire, proprio perché il modo ordinario di pensare è qualcosa cui senza
dubbio si addice quella variabilità storica, geografica, sociologica, culturale ecc. che tanto spesso viene attribuita,
del tutto erroneamente, al senso comune. Ciononostante non sembra troppo arrischiata l’affermazione che fra i tratti rinvenibili
un po’ in tutte le epoche nella coscienza ordinaria dell’uomo occidentale si possano annoverare, ad esempio, una
certa istintiva tendenza a interpretare in termini spaziali contenuti o nessi che non sono di per sé di natura spaziale
[Abbiamo messo in luce nel saggio Sostanza, essenza, soggetto (in AA.VV, Corpo e anima, necessità
della metafisica. Annuario di filosofia 2000, Mondadori, Milano 2000) l’incidenza di questo elemento sulle variazioni
storicamente subite dal concetto di sostanza entro la tradizione metafisica dell’Occidente (si vedano in particolare le
pp. 335-343, ove in qualche modo si sostiene e si argomenta in riferimento alla dottrina della sostanza la medesima tesi sul
rapporto filosofia-coscienza ordinaria-senso comune che qui affermiamo in rapporto al problema gnoseologico).] e poi,
a un livello ancor più profondo, un’invincibile propensione a concepire ad instar entis (per usare il linguaggio
della Scuola) ovvero a “reificare” o “cosalizzare” (come preferiscono esprimersi i contemporanei) qualsiasi
contenuto concettuale, non esclusi quelli che per loro natura meno si prestano a un simile trattamento. Ebbene, crediamo che
anche solo dalla ricostruzione estremamente sintetica che ne abbiamo delineato poc’anzi non sia per nulla difficile comprendere
il ruolo fondamentale che nella genesi storica del dualismo gnoseologico hanno giocato i due suddetti elementi: configurandosi,
rispettivamente, come incapacità di pensare il rapporto conoscitivo fra soggetto e oggetto senza spazializzarlo e come
incapacità -situata ancora più a monte rispetto alla prima- di concepire il pensiero se non come un ente fra gli
enti.
Ora, se noi consideriamo
l’atteggiamento prescientifico e prefilosofico nelle sue forme per così dire più primitive e più
ingenue, ci rendiamo conto agevolmente che, se per un verso esso implica il possesso della certezza di senso comune che “il
pensiero conosce direttamente la realtà”, per altro verso accoglie entro di sé un elemento – la completa
equiparazione del pensiero stesso a semplice ente fra gli enti – che con quella verità obiettivamente contrasta.
I guai, se così si possono chiamare, cominciano quando, nel suo peraltro auspicabile processo evolutivo, la coscienza
ordinaria acquisisce un grado di maturità che le è sufficiente per prendere atto di questa contraddizione che
l’affligge dall’interno ma non le è ancora sufficiente per rendersi conto dell’impossibilità
che il pensiero sia semplicemente un ente fra gli altri; nulla di strano, allora, che essa non veda altra via d’uscita
dal suo intimo conflitto se non la rinuncia all’affermazione, ormai divenuta per lei problematica, che il pensiero conosce
la realtà.
Il fatto è che
per poter cogliere davvero l’incontrovertibilità di quest’ultima affermazione occorre attingere quel limpido
sguardo filosofico sulle cose che a tutte le visioni del mondo nascostamente modellate sui parametri della coscienza ordinaria
rimarrà sempre precluso. È forse un’affermazione di “senso comune” – nell’accezione
corrente, anche se impropria, di “facile” e “ovvia” – la sopra ricordata dottrina aristotelica
secondo la quale l’anima è una realtà la cui natura consiste nel non avere natura? Non è per nulla
un caso che la sua piena comprensione risulti sempre piuttosto ardua al giovane studente di filosofia. Né può
apparire di più facile accesso, ad esempio, la dottrina della genesi a-teoretica dell’errore, che è anch’essa
di diritto parte integrante del patrimonio di una corretta gnoseologia realistica, sebbene per varie ragioni il merito di averla
sviluppata a fondo appartenga storicamente, più che alla Scolastica, a due pensatori di matrice non classica come Cartesio
fra i moderni e Croce fra i contemporanei.
Quella che abbiamo fin
qui sommariamente delineata è comunque, in nuce, la situazione caratteristica della fase storica della filosofia
occidentale che va approssimativamente da Cartesio a Kant e che, se si vuol fare riferimento a un celebre binomio hegeliano,
può essere caratterizzata come l’epoca dell’opposizione fra certezza e verità. Secondo uno
schema storiografico proposto da E. Severino [Si veda in particolare la sua Storia della filosofia moderna,
Rizzoli, Milano 1984.] e volutamente ispirato a un modello che è anch’esso tipicamente hegeliano, tale epoca
svolgerebbe la funzione di antitesi entro un processo dialettico la cui tesi è rappresentata da quell’identità
immediata (o ingenua o dogmatica) di certezza e verità che sarebbe rinvenibile nel pensiero antico
e medioevale – dunque nella metafisica classica – e la cui sintesi coincide invece con l’identità
mediata degli stessi termini così come sarebbe dato ritrovarla nell’idealismo postkantiano e, sia pure in forma
non sempre ugualmente esplicita, in quasi tutta la filosofia contemporanea.
L’ingenuità
o dogmaticità dell’atteggiamento iniziale consisterebbe, entro lo schema severiniano, nel porre la realtà
come conoscibile (affermando così l’identità di certezza e verità) pur riguardandola come altra o
indipendente dal pensiero (ciò che equivarrebbe ad affermare nello stesso tempo il differire di certezza e verità).
Rispetto a questo atteggiamento di fondo la filosofia moderna segnerebbe un indubbio progresso perché, continuando a
concepire la realtà come altra o indipendente dal pensiero (o, in termini perfettamente equivalenti, continuando a credere
nella “esistenza di un mondo esterno”), sarebbe più coerente nel porre una realtà siffatta come strutturalmente
inconoscibile, portando fino alle estreme conseguenze la tesi della differenza fra certezza e verità già implicita
nel presupposto ereditato dalla fase antecedente. Alla terza fase, d’altra parte, spetterebbe il merito di avere finalmente
tematizzato il presupposto stesso, rendendo così possibile la messa in discussione e, in ultimo, il definitivo abbandono
della credenza in una realtà altra o indipendente dal pensiero, abbandono cui è seguito l’essenziale corollario
dell’affermazione di una identità di certezza e verità assolutamente inoppugnabile e in tal senso perfettamente
mediata.
Tutto ciò si può
sintetizzare come segue:
1)
IDENTITÀ IMMEDIATA DI CERTEZZA E VERITÀ
a)
La realtà è altra dal pensiero
b)
Il pensiero coglie la realtà
2) OPPOSIZIONE DI
CERTEZZA E VERITÀ
a)
La realtà è altra dal pensiero [come in 1a)]
b)
Il pensiero non coglie la realtà
(ma solo le proprie rappresentazioni)
3) IDENTITÀ
MEDIATA DI CERTEZZA E VERITÀ
a)
La realtà non è altra dal pensiero
b)
Il pensiero coglie la realtà [come in 1b)]
Dicevamo
che il secondo momento sarebbe l’antitesi del primo e, come ogni antitesi che si rispetti, costituirebbe uno sviluppo
logicamente inevitabile della sua tesi, con la quale avrebbe infatti in comune il punto a). Il terzo momento rappresenterebbe
ovviamente la meta conclusiva di tutto il travaglio storico della filosofia occidentale intorno al problema della conoscenza
e segnerebbe un decisivo progresso rispetto ad ambedue le posizioni precedenti.
Ma,
come il lettore avrà già intuito dal fatto che la ricostruzione che ne abbiamo data si è svolta tutta al
modo condizionale, un simile modello interpretativo non ci sembra per nulla accettabile. Possiamo riassumere il nostro punto
di vista nei termini seguenti. La prima delle tre posizioni, lungi dall’essere, à la Hegel, qualcosa
di intrinsecamente instabile che richiamerebbe per necessità logica la propria antitesi e quindi il proprio superamento,
è tuttora (nelle sue linee generali, beninteso; ma in questa sede non intendiamo occuparci di altro che di linee
generali) la migliore e più corretta posizione gnoseologica che la filosofia occidentale abbia saputo elaborare fino
ad oggi.
Tutte le critiche che storicamente sono state rivolte ai suoi capisaldi sono sempre nate da meri fraintendimenti e hanno sempre
fallito il bersaglio; tanto meno sono riuscite a individuare, come qui si vorrebbe, contraddizioni fra l’uno e l’altro
dei suoi elementi fondamentali. L’identità di certezza e verità che essa afferma non è per nulla
“immediata” in senso riduttivo, né ingenua né acritica né “naturalistica”, e comunque
è assai più valida della pretesa identità “mediata” in cui consiste la terza posizione, la
quale, sebbene appaia radicalmente differente dalla seconda, di fatto non è altro che una variante interna di questa.
* * *
Ma
procediamo con ordine. Quello che in primo luogo ci interessa mostrare, contro lo schema interpretativo che stiamo considerando,
è l’assoluta mancanza di ogni connessione o continuità ideale fra la prima e la seconda posizione, come
risulta dal fatto che il punto a) della prima non ha in realtà nulla a che vedere con il punto a) della seconda. L’alterità
dal “pensiero” che quest’ultima attribuisce al reale si riferisce senza ombra di dubbio al pensiero inteso
come orizzonte manifestativo, laddove l’alterità affermata dalla metafisica classica vale esclusivamente in rapporto
al pensiero inteso in senso fisico, ossia come ente fra gli enti.
Ora, la prima specie di alterità è effettivamente inaccettabile ma, lungi dall’essere un lascito della metafisica
classica (e, prima ancora, del “senso comune”) dal quale la filosofia moderna avrebbe avuto il merito di cominciare
a trarre conclusioni meno “dogmatiche” e più “critiche”, è qualcosa che penetra nell’organismo
della speculazione filosofica con la stessa filosofia moderna e che a questa sola appartiene. La seconda specie di alterità,
per contro, è innegabile perché è qualcosa che appare all’interno della stessa identità
intenzionale di essere e pensiero.
Tuttavia
non è meno vero che, se viene raffigurata nei termini dello schema severiniano sopra riportato, con i suoi due principi
fondamentali collocati proprio in quell’ordine, la filosofia antico-medioevale subisce una sottile quanto decisiva alterazione
della propria struttura e, ridotta così a semplice caricatura di se medesima, finisce con il prestarsi all’operazione
sopra vista: infatti, un mondo esterno la cui esistenza (punto a) sia affermata ancor prima che ne venga affermata la conoscibilità
(punto b) non sarà -come è fin troppo evidente- qualcosa di cui si parla per averlo… conosciuto e dunque
la sua “esternità” sarà da intendersi (anche se, certo, contraddittoriamente) in relazione al pensiero
considerato nel suo aspetto logico o intenzionale.
Così si accredita davvero l’immagine di una tradizione filosofica che, anticipando quell’atteggiamento che
sarà invece proprio dell’epoca moderna e che esprime la quintessenza dell’autentico “dogmatismo”,
pronuncia le sue affermazioni fondamentali non sulla base di originarie evidenze ma di semplici, gratuiti presupposti. È
chiaro che la corretta successione logica delle due tesi in cui Severino sintetizza la posizione della filosofia premoderna
(e dello stesso “senso comune”) va in senso inverso rispetto a quella da lui delineata. Infatti ciò da cui
questa filosofia ha effettivamente e validamente preso le mosse è l’inoppugnabile affermazione che il pensiero
non coglie nulla di meno della realtà (o, in termini husserliani, che ciò che il pensiero coglie è il reale
“in carne ed ossa” e non una sua immagine o “rappresentazione”): diciamo inoppugnabile tale affermazione,
perché in prima battuta non può esserci alcuna ragione per non identificare ciò che chiamiamo realtà
con ciò che è oggetto intenzionale del pensiero, e d’altra parte eventuali valide ragioni che si profilassero
in seconda battuta per negare una siffatta identità l’avrebbero nei fatti già ripristinata, perché
costituirebbero proprio esse quell’autentica conoscenza del reale rispetto alla quale ogni “opposizione fra certezza
e verità” non potrebbe non essere declassata a momento parziale e provvisorio (si rammentino le considerazioni
formulate inizialmente circa l’ipotesi di una coscienza che “modifica” i propri contenuti).
Ebbene, ciò su cui ora dobbiamo soffermarci un poco è il fatto che la realtà intenzionalmente presente
alla coscienza, e in questo senso a lei identica, si dà o si manifesta al tempo stesso come “onticamente”
o fisicamente altra dalla coscienza stessa, e in tal senso come da lei indipendente. Questa è la seconda tesi essenziale
della filosofia antica e medioevale e, come ognuno vede, può mantenere il significato che correttamente le compete solo
se viene, appunto, riconosciuta come “seconda”, ossia se viene convenientemente inquadrata nella prospettiva genuinamente
trascendentale dischiusa dall’altro asserto.
È ovvio che per penetrare il significato speculativo dell’alterità e dell’indipendenza ora ricordate,
e quindi per fondare una solida prospettiva realistica, non si può fare assegnamento su osservazioni del tipo “la
rappresentazione di un’ellissi non è ellittica essa stessa” (M. Schlick) e su altre consimili banalità
che non hanno mai ostacolato il vigoreggiare delle più svariate forme di scetticismo, di relativismo, di fenomenismo
né tanto meno hanno sbarrato la strada agli esiti idealistici della problematica gnoseologica. La dualità fra
essere e pensiero della quale stiamo parlando comincia invece a manifestare il suo autentico volto quando viene ricondotta all’essenza
stessa del pensiero così come abbiamo cercato di delinearla all’inizio di queste pagine.
Proprio perché possa essere quella pura trasparenza o luminosità dell’ente che in effetti è, proprio
perché gli sia possibile non sovrapporsi per nulla alla realtà in modo da “lasciarla essere” senza
alterarla né distorcerla in nessuna maniera, il pensiero non deve avere alcuna potenza ontica sulla realtà
stessa e in tal senso questa deve essere totalmente indipendente da esso.
Si scorge allora come la radicale dualità o alterità o eterogeneità che vige sul piano ontico fra pensiero
e realtà non sia nulla meno che la conditio sine qua non della loro assoluta identità o intimità
sul piano intenzionale. [Su questa tematica si vedano i nostri L’istinto logico del linguaggio,
Marietti, Genova 1991, pp. 43 ss. e L’esperienza pura come sorgente della problematicità metafisica, «
Sensus communis », I, 2000, pp. 193-202.] E si comincia altresì a capire come la persuasione che sta alla
base dell’ultima delle tre posizioni contemplate dallo schema severiniano – non essere possibile l’assimilazione
conoscitiva di una realtà che conservi la propria alterità fisica dal conoscere stesso – sia priva di qualsiasi
fondamento e anzi testimoni il persistere del rovinoso equivoco tipico della fase precedente, che consisteva proprio nella confusione
tra aspetto fisico e aspetto intenzionale del pensiero o, per meglio dire, nell’equiparazione del pensiero a qualcosa
di intrinsecamente opaco e perciò, in definitiva, nella sua riduzione a una realtà di tipo materiale. Il che,
sia detto fra parentesi, suona come un’ulteriore conferma della validità della nostra ipotesi: certo, l’idealismo
è apparentemente la filosofia che più di ogni altra contrasta con il modo ordinario di pensare; eppure per quel
tanto che si oppone propriamente al senso comune anch’esso è in ultima analisi compromesso, per così dire,
con la coscienza ordinaria, della quale paradossalmente condivide proprio quei tratti che sono di indole più scopertamente
materialistica!
Quell’ente
che si identificherebbe fisicamente e non solo intenzionalmente con il pensiero che lo pensa – sì che tutta la
sua realtà consisterebbe nell’essere oggetto di pensiero, ossia nell’apparire o nel manifestarsi –
ha avuto varie denominazioni nella storia del dualismo gnoseologico: idea (Cartesio e tutti i cartesiani), fantasma
(Hobbes), rappresentazione (vari pensatori prima di Kant e, dopo di lui, Schopenhauer e molti altri ancora) e, la più
classica di tutte, fenomeno (Kant e tutti i neokantiani). Com’è noto, la prospettiva dualistica più
tipica, corrispondente alla seconda delle tre posizioni delineate da Severino nella sua Storia della filosofia, è
quella che considera tutte queste figure come originariamente causate da una realtà ulteriore inconoscibile. Propriamente,
esse sarebbero “poste” o prodotte dal soggetto, però questa produzione avviene in “risposta”
allo “stimolo” proveniente da quella res che viene meramente presupposta al di là dell’orizzonte intenzionale
o manifestativo del soggetto stesso.
Stando
così le cose, potrebbe effettivamente sembrare che la terza prospettiva (quella idealistica), continuando a concepire
l’oggetto del conoscere come un che di “posto” e non di “dato” ma al tempo stesso eliminando il
presupposto dogmatico della res inconoscibile, sia non solo perfettamente sostenibile sul piano metodologico ma addirittura
realizzi in sé il massimo della criticità: non solo infatti l’idealismo, alla pari della metafisica classica,
sgombra il terreno dell’indagine gnoseologica da qualsiasi oggetto che non sia il medesimo oggetto conosciuto, ma poi,
intendendo quest’ultimo come posto dal pensiero (verum ipsum factum!), si libera anche dal presupposto dogmatico
che grava sulla stessa metafisica classica allorché quest’ultima, intendendo viceversa il contenuto del conoscere
come “dato”, mostra di ammettere come immediatamente evidente l’esistenza di un mondo esterno.
A
ben vedere (questa è l’obiezione idealistica, che va nella direzione opposta a quanto da noi affermato poc’anzi),
l’alterità fisica tra essere e pensiero implica comunque, lo si voglia o no, un’alterità che è
anche di tipo intenzionale e che quindi non può essere affermata comodamente, senza mediazione. In altre parole, la tesi
dell’esistenza del cosiddetto mondo esterno, ossia la tesi dell’indipendenza del reale dal suo essere sperimentato
hic et nunc, necessita di una mediazione logica, perché (e qui la motivazione addotta sembra avere una forza irresistibile)
non è possibile fondare sull’esperienza la persuasione che gli oggetti esistono anche quando noi non ne abbiamo
esperienza. Siamo alle solite, dunque: la metafisica classica risulterebbe essere dogmatica due volte, la prima perché
presuppone senza alcuna ragione una realtà indipendente dal pensiero (e ora l’obiezione sembra essersi perfezionata,
perché sarebbe riuscita a mostrare che in definitiva l’esternità o indipendenza si dice sempre in rapporto
al pensiero inteso come intenzionalità), la seconda perché pretende che una realtà così concepita
sia conoscibile in se stessa.
Ma
a questa argomentazione il realismo tradizionale è in grado di opporre una replica che si articola essenzialmente in
due momenti. In primo luogo si tratta di far vedere che, lungi dal costituire l’alternativa più radicale al dualismo
gnoseologico, l’idealismo ne rappresenta invece una semplice variante interna (come avevamo preannunciato a suo tempo).
Infatti concepire il contenuto del pensiero come qualcosa la cui realtà consiste tutta e soltanto nell’essere pensato
è sempre e comunque un gesto che implica “opposizione fra certezza e verità”: sempre e comunque, ossia
non solo nel caso in cui si continui per altro verso a credere in una sfera oggettuale che, per essere dotata di quella autonoma
consistenza che notoriamente il senso comune attribuisce alla realtà come tale, sarebbe per ciò stesso destinata
a trascendere l’orizzonte intenzionale del pensiero.
Il
dualismo gnoseologico è operante anche (e forse ancor più!) quando il pensato viene ricondotto integralmente alla
“creatività” del pensiero, per la semplice ragione che il nostro pensiero, come dicevamo in precedenza, è
qualcosa che non può non riconoscersi come costitutivamente privo di ogni potenza ontica sui suoi contenuti, sì
che nessuna pretesa creatività può essere inclusa fra le sue note fenomenologicamente rilevabili. Prova ne sia
che l’idealismo romantico, ossia l’orientamento filosofico che ha profuso le maggiori energie nell’elaborazione
di questa dottrina, ha dovuto riconoscere il carattere inconscio della “immaginazione produttiva” (autentico paradosso
metodologico per una dottrina nata con lo scopo di ricondurre ogni momento della realtà all’intimità della
coscienza!) e ha finito con il porre addirittura una vera e propria distinzione metafisica fra l’Io puro e un io empirico
che in ultima istanza si rivela essere un “prodotto” dell’Io puro non diversamente da quanto lo è il
non-io. Se dunque la filosofia da Cartesio a Kant, presentando i nostri contenuti mentali come “messaggi” inviatici
dalla cosa in sé, si configura indiscutibilmente come dualismo gnoseologico a parte obiecti, ecco che l’idealismo
postkantiano, con la sua paradossale celebrazione di una creatività sconosciuta allo stesso creatore, si presenta in
maniera altrettanto certa come un dualismo gnoseologico a parte subiecti.
Ma
se l’oggetto che invia messaggi non è il nostro oggetto e se il soggetto che crea i propri contenuti non siamo
noi; se, in altre parole, tanto la causalità esercitata dall’oggetto quanto la creatività dell’io
sono “stati di cose” estranei alla nostra effettiva esperienza, allora il soggetto che noi siamo è semplicemente
un soggetto che ha presente la realtà, e quest’ultima è qualcosa che, altrettanto semplicemente,
appare o è data al medesimo soggetto.
Ben
lungi, allora, dall’ammettere l’oggetto come dato per averlo dogmaticamente concepito come “già”
esistente prima del suo attuale, concreto manifestarsi, la filosofia premoderna registra in primo luogo, e in assoluta conformità
al più puro e rigoroso metodo fenomenologico, la genuina datità dell’oggetto stesso e solo successivamente,
dalla incontrovertibile premessa che qualcosa si dà o appare o si manifesta soltanto nella misura in cui la sua realtà
non si riduce in linea di principio al suo darsi o apparire o manifestarsi (diversamente il manifestarsi si convertirebbe
in un prodursi o in un venire all’essere e lo scomparire in un annullarsi o distruggersi, cioè in eventi che per
loro natura rientrano in relazioni di tipo pratico e non già speculativo o teoretico), trae l’immediata conclusione
che il contenuto della conoscenza trascende formalmente il suo rivelarsi hic et nunc, senza alcuna esigenza di passare
per un processo deduttivo che, quando non si disconosce la datità e quindi l’oggettività del conosciuto,
è del tutto superfluo e che d’altra parte, nell’unico caso in cui potrebbe apparire necessario – cioè
nel caso in cui il conosciuto venga equiparato a una rappresentazione del soggetto –, non ha alcun senso (perché
la sua conclusione dovrebbe risolversi nella pura e semplice negazione del punto di partenza: come può, infatti, una
mia rappresentazione esistere anche quando… non me la rappresento?).
Questo
è tutto ciò che la filosofia può e deve dire intorno al problema del “mondo esterno”, ed è
pienamente sufficiente. Per il resto chiunque si rende conto che non può spettare ad essa stabilire, poniamo, se l’universo
fisico sia o non sia vecchio di tredici miliardi d’anni, trascorsi per la massima parte nella totale assenza di qualsiasi
forma di vita psichica che potesse fungere da osservatore, né se l’albero che ho visto stamani sia ancora là
dove l’ho visto oppure non sia stato nel frattempo abbattuto da un boscaiolo o incenerito da un fulmine: fatta salva,
com’è ovvio, la sempre possibile esistenza di casi-limite nei quali, per la coincidenza fortuita di due serie di
eventi, avviene che l’istante in cui comincio a osservare qualcosa è il medesimo in cui quel qualcosa comincia
a esistere o che l’istante in cui cesso di osservarlo è il medesimo in cui esso finisce di esistere.
Si
può allora concludere con assoluta certezza che il pensiero coglie una realtà che, come tale o in linea di principio,
lo precede e gli sopravvive nel tempo, e che esiste dunque il mondo esterno come oggetto intenzionale del pensiero. Di fronte
alla celebre osservazione kantiana secondo la quale è scandaloso che la filosofia non abbia ancora saputo elaborare una
dimostrazione della realtà del mondo esterno, ci sembra più che mai appropriata la replica di Heidegger secondo
la quale il vero scandalo è dato dal persistere della credenza che una tale dimostrazione sia necessaria.
Ma
le considerazioni svolte fin qui, se da una parte valgono a mostrare l’intrinseca oggettività del conoscere umano
contro ogni sua indebita soggettivizzazione in senso fenomenistico o relativistico, costituiscono per altro verso il fondamento
più sicuro per l’edificazione di un corretto pluralismo conoscitivo, vale a dire per la messa a punto di una posizione
che sia in grado di riconoscere la relatività e la storicità di ogni effettivo contatto umano con il vero senza
per questo cadere nel relativismo e nello storicismo, e che sappia rendere giustizia all’innegabile intervento del soggetto
nel fatto conoscitivo senza per questo declassare la conoscenza a evento meramente psicologico aprendo così la via allo
scetticismo. Più precisamente potremmo dire che, se si guarda alla struttura del “dato” così com’è
venuta delineandosi entro il modello gnoseologico illustrato e difeso in queste pagine, il suddetto pluralismo si presenta in
una versione debole, ossia si manifesta come coesistenza di prospettive o di punti di vista complementari (destinati, come tali,
a entrare in conflitto solo quando vengano indebitamente assolutizzati); se invece l’attenzione si sposta sul procedimento
o sul metodo con il quale, appunto, il predetto modello è stato illustrato e difeso, allora il pluralismo cui si perviene
è assunto in una versione forte, come scontro di punti di vista radicalmente incompatibili, ma non per questo è
meno valido e importante, anzi forse lo è ancora di più.
Vediamo
in breve. Particolarmente idonee alla chiarificazione del primo punto sono forse le pagine iniziali de L’essere e il
nulla, là dove Sartre, com’è noto, ricorda il “notevole progresso” realizzato dal pensiero
contemporaneo “col ridurre l’esistente alla serie di apparizioni che lo manifestano: si tendeva con ciò a
sopprimere un certo numero di dualismi che impacciavano la filosofia”. [J. P. SARTRE, L’essere
e il nulla, trad. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 9.] Solo che ben presto ci si rende conto che tutti questi
dualismi (interno-esterno, essere-apparire, potenza-atto) si convertono “in un nuovo dualismo: quello del finito e dell’infinito”.
[Ibid, p. 11] Infatti, dopo aver osservato che ognuna delle apparizioni che manifestano l’esistente
“rinvia alla serie completa” delle apparizioni stesse “e non a un reale nascosto che verrebbe ad assorbire
per sé tutto l’essere dell’esistente”, [p. 9] e dopo aver parimenti
sottolineato che “l’essenza come ragione della serie non è che il legame delle apparizioni, cioè essa
stessa un’apparizione… così l’essere fenomenico si manifesta… e non è altro che la serie
ben collegata delle sue manifestazioni”, [p. 10] il pensatore francese soggiunge che “l’esistente,
in effetti, non può ridursi a una serie finita di manifestazioni, perché ciascuna di esse è in rapporto
con un soggetto in perpetuo cambiamento”. [p. 11] La serie delle apparizioni è dunque
infinita e ciascuna di esse rimanda a tutte le altre. “Questa nuova polarità, il finito e l’infinito, o meglio
‘l’infinito nel finito’ si sostituisce al dualismo dell’essere e dell’apparire: ciò che
appare, infatti, è solamente un aspetto dell’oggetto e l’oggetto è tutto intero in questo aspetto,
e tutto fuori di esso”, [Ibidem] perché la serie non apparirà mai eppure
ognuna delle apparizioni rimanda a tutta la serie. “Così il fuori si oppone di nuovo al dentro, e l’essere-che-non-appare
all’apparizione. Parimenti una certa ‘potenza’ ritorna ad abitare il fenomeno e a conferirgli appunto la sua
trascendenza: la potenza di essere svolto in una serie di apparizioni reali o possibili”. [Ibi,
p. 11-12]
Tutto
ciò attesta a meraviglia come già nel suo campo d’applicazione apparentemente più semplice e banale,
che è quello della percezione sensibile e del contatto con i più comuni oggetti d’esperienza, la tradizionale
dottrina della verità come adaequatio rei et intellectus si riveli assolutamente incompatibile – se intesa
in maniera coerente ai propri assunti fondamentali – con qualunque cattura razionalistica della res da parte del soggetto,
e vieti dunque di porre fra conosciuto e conoscente un'unità assoluta, monolitica, ingenua. Ogni apparizione è
genuina manifestazione dell’oggetto, ci è stato autorevolmente ribadito; eppure in ognuna di esse il soggetto –
consciamente o no, volontariamente o no – gioca un ruolo decisivo, non foss’altro che per avere “selezionato”
proprio quel particolare aspetto della res fra innumerevoli altri e quindi per aver assunto proprio quella “prospettiva”
(il che significa in primo luogo quella particolare collocazione spaziale, se parliamo di conoscenza sensibile; ma poi, anche
a non voler uscire immediatamente da questo ambito, significa altresì quel sistema di interessi, di esigenze, di desideri,
di pregiudizi… con cui già a livello percettivo ci accostiamo alle res, su su fino alle ideologie vere e proprie,
alle fedi, alle “visioni del mondo” e a tutto ciò che in un modo o nell’altro rientra in quel capitolo
delicatissimo dell’antropologia filosofica che è lo studio dei condizionamenti “pratici” del pensiero).
Veniamo
ora al secondo e per certi versi ancor più fondamentale aspetto. Lo scopo essenziale di questo saggio è consistito,
come si è visto ampiamente, nella difesa (élenchos) di una determinata evidenza dallo storico tentativo
di negarla. Ora, in sé o in linea di principio è certamente vero che simili negazioni possono essere ribattute
con successo – rivelandosi pertanto come meri, velleitari “tentativi” di negazione – se e solo se ciò
che esse negano è qualcosa di realmente evidente, ossia qualcosa che non si limita a captare il nostro assenso a livello
puramente psicologico: sì che in tal senso si può e si deve dire che la verità non ha come tale bisogno
del riconoscimento degli uomini.
Tuttavia
quoad nos non è meno vero che un determinato asserto è realmente evidente, ossia – di nuovo –
non è qualcosa che sappia unicamente suscitare in noi un consenso sul piano psicologico, se e solo se riusciamo a confutarne
la negazione. In sé o in linea di principio non c’è dubbio che quest’ultima viene da noi confutata
perché è falsa; ciò non toglie che inizialmente o in prima battuta ci sia possibile dire solo l’inverso,
ossia che è falsa perché l’abbiamo confutata. Ma questo equivale ad affermare l’essenziale dialogicità
del logos (umano): il silenzio dei negatori della verità è per noi il silenzio della verità stessa,
giacché se questa non si realizza come toglimento della sua negazione, per noi non si realizza affatto. Il logos
è dia-logo, dialogo fra la verità e la sua negazione, al di fuori del quale la verità umanamente non vive;
e l’errore può essere davvero tolto solo sforzandosi di capirlo a fondo, non già mettendolo a tacere e così
rinunciando a comprendere i motivi che lo ispirano.
Ci
troviamo qui di fronte a una dimensione del pluralismo gnoseologico che da un lato appare dotata di eccezionale rilevanza speculativa,
affondando le sue radici nella costituzione stessa della ragione umana e rivelando dunque una portata autenticamente trascendentale
(nel senso moderno di questa espressione), dall’altro racchiude fondamentali implicazioni antropologiche ed etiche, per
di più mostrandosi suscettibile di un’immediata proiezione sul piano etico-politico. Relativamente a quest’ultimo
aspetto non occorre certo ricordare la particolare sensibilità dimostrata da quella tradizione liberale alla quale non
sono stati storicamente estranei, del resto, filoni non trascurabili dello stesso pensiero cattolico; qui diremo soltanto che
un po’ sotto tutti i profili della questione ci sembrano particolarmente felici ed efficaci i seguenti due passi di J.
S. Mill, che sono tratti dal suo noto Saggio sulla libertà e che poniamo volentieri al termine di queste nostre
riflessioni.
“La
perdita di un aiuto così importante all’intelligente e viva comprensione di una verità, come è quello
dato dalla necessità di chiarirla o difenderla nel contraddittorio, è una conseguenza negativa non trascurabile
dell’universale riconoscimento del vero, anche se non ne supera i benefici. Quando questo aiuto viene a mancare, confesso
che vorrei che i maestri dell’umanità ne cercassero un surrogato – uno strumento che renda chi studia una
data questione altrettanto cosciente delle sue difficoltà che se gli venissero contestate da un oppositore teso a convertirlo”.
[J. S: Mill, Saggio sulla libertà, trad.Magistretti, Il Saggiatore, Milano 1997, pp. 50-51.]
“E’ molto peggio che assurdo rifiutare, quando ci si offre spontaneamente, ciò che quando manca è
così indispensabile eppure così difficile creare. Se ci sono persone che negano un’opinione generalmente
accettata o che la negherebbero se la legge o il pubblico glielo permettessero, ringraziamole, ascoltiamole a mente aperta e
rallegriamoci che qualcuno faccia per nostro conto ciò che altrimenti dovremmo fare da soli, e con fatica molto maggiore,
se abbiamo un minimo di rispetto per la certezza o la vitalità delle nostre convinzioni”. [Ibi,
p. 52. Dello stesso tenore osservazioni come queste: “Se si vietasse di dubitare della filosofia naturale di Newton, gli
uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono”, p. 25. “(…) se una
verità fondamentale non trova oppositori è indispensabile inventarli e munirli dei più validi argomenti
che il più astuto avvocato del diavolo riesce a inventare”, p. 43.]
APPENDICE
Sulla libertà del volere.
Vale
forse la pena – al termine di questa nostra indagine – di accennare, sia pure di sfuggita, a una questione che è
per molti versi analoga a quella del realismo e che ugualmente si presta ad avvalorare la nostra tesi di fondo: si tratta della
discussione intorno a quell’altra fondamentale verità di senso comune che è la libertà del volere
umano. Se ciò di cui abbiamo parlato qui concerne strettamente la dignità e il valore della coscienza teoretica,
la libertà è dal canto suo l’attributo che fonda la dignità e il valore della coscienza pratica (cioè,
appunto, della volontà). E la profonda, tutt’altro che “buonsensistica”, dottrina aristotelica della
a-fisicità dell’anima, così come ci garantisce la giustificazione più rigorosa del primo punto, ci
offre anche la più solida base per affermare il secondo; laddove il determinismo tende spesso a richiamarsi, nella sua
opposizione al senso comune, a un elemento, profondamente radicato nella coscienza ordinaria, che è in definitiva lo
stesso su cui fanno leva i negatori dell’oggettività del conoscere. Forse tale elemento non è stato mai
espresso in tutta la storia della filosofia con la medesima lucidità ed essenzialità con cui ha saputo esprimerlo
Schopenhauer nella dissertazione sulla libertà del volere da lui elaborata in risposta a un quesito della Regia Accademia
norvegese delle Scienze. Si
legga il brano che segue.
“Ogni
existentia presuppone una essentia, cioè ogni essere deve anche essere qualcosa, avere una determinata
essenza. Non può esserci e nello stesso tempo non essere niente (…) Infatti ogni essere deve avere una natura essenziale
ad esso peculiare in virtù della quale è ciò che è, una natura che esso mantiene sempre e le cui
manifestazioni sono provocate dalle cause o necessità, mentre questa natura stessa non è opera di quelle cause
né con esse modificabile. Tutto ciò vale per l’uomo e per la sua volontà come per tutti gli altri
esseri nella natura: anche lui ha oltre all’existentia una essentia, cioè fondamentali qualità
essenziali che costituiscono precisamente il suo carattere e abbisognano soltanto dell’occasione esterna per manifestarsi
(…) Il libero arbitrio, a guardar bene, sarebbe una existentia senza essentia, come dire che una cosa è
e nello stesso tempo non è nulla, ossia non è, e questa è una contraddizione”. [A.
SCHOPENHAUER, La libertà del volere umano, trad. Pocar., Laterza, Roma-Bari 2001, p. 103.]
Questa argomentazione sarebbe effettivamente inoppugnabile, se non fosse per la sopra ricordata impossibilità di vedere
nella coscienza, teoretica e pratica, una semplice realtà fra le altre, chiusa nella sua determinatezza e nel suo limite
esattamente come lo sono le altre realtà: si tratta di un’impossibilità della quale il pensatore di Danzica
mostra di non avere il minimo sentore e che ovviamente è una cosa sola con l’impossibilità che “valga
per l’uomo e per la sua volontà tutto ciò che vale per gli altri esseri nella natura”.
Nella
medesima opera si trova scritto anche che “il problema del libero arbitrio è realmente una pietra di paragone con
la quale si possono distinguere le menti profonde dalle superficiali”. [Ibi, p. 105] Pienamente
d’accordo: forse, però, si deve attribuire proprio a Schopenhauer la superficialità che egli crede di ravvisare
nei fautori del punto di vista opposto al suo. [Per questa discussione si veda il nostro Libertà
e infinito. La dimensione ereticale del logos, Studium, Roma 2002, pp. 73 ss.]