Status quæstionis.
Nella storia della teologia
cattolica è accaduto più volte che sorgessero pensatori dalla potente personalità, che siano riusciti,
nel loro tempo e successivamente, ad ottenere un enorme successo abbinando eccezionali doti reali ad un’abile e pericolosa
opera di mistificazione, smascherabile solo ad un esame attento della loro produzione spesso molto vasta. Si tratta di personaggi
che, a loro dire, intendono essere cattolici e lavorare per la Chiesa, per l’autentico Vangelo, per cui forse a volte
non si rendono conto loro stessi di quell’opera di falsificazione della Parola di Dio.
Così delineati,
si tratta di casi rari, ma importanti e famosi, come quello di Marcione, Tertulliano, Ario, Pelagio, Apollinare, Priscilliano,
Nestorio, Eutiche, Scoto Eriugena, Abelardo, Gioachino da Fiore, Ockham, Eckhart, Wyclif, Hus, Lutero, Calvino, Baio, Giansenio,
Cartesio, Rosmini.
Alcuni di questi uomini
sono stati anche santi, e quindi in buona fede, o hanno avuto anche per altri titoli grandi meriti, come Tertulliano o Gioachino
da Fiore, e quindi essi per primi hanno ingannato se stessi; alcuni sono stati rivestiti della dignità episcopale come
Nestorio e Giansenio; altri, semplici teologi o predicatori o riformatori o semplici laici.
Di alcuni la Chiesa non
si è accorta subito del pericolo o per gli aspetti validi della loro dottrina o per la loro buona condotta di vita o
perché essi stessi non intendevano abbandonare la Chiesa e di fatto vi sono restati: è capitato allora, in questi
casi, che la condanna arrivasse dopo la morte, come per Eckhart e Rosmini; per Origene, addirittura due secoli dopo la morte.
Di altri, come di Ockham
e Cartesio, la censura ecclesiastica non è stata pubblicizzata, sicché i loro errori hanno avuto larga possibilità
di diffondersi nella Chiesa. Altri ancora, come Pelagio, Ario, Wyclif, Hus e Lutero, dopo un inizio cattolico, si sono apertamente
ribellati al Papa e sono usciti dalla Chiesa diventandone nemici dichiarati, benché rimasti cristiani. I seguaci poi
di altri, come di Giansenio e di Rosmini, non hanno voluto riconoscere gli errori, per cui hanno voluto rimanere nella Chiesa,
ma in una posizione non chiara.
Il caso Rahner sembra
essere simile a quello di un Origene o un Rosmini, per la vastità della produzione e la indubbia statura spirituale della
personalità, ma presenta anche caratteristiche proprie, impressionanti, non riscontrabili in tutta la storia della Chiesa,
sia per la quantità degli errori, sia per la abilità con la quale (forse ingannando se stesso) è riuscito
a mascherarli sotto le apparenze della più alta spiritualità e della mistica.
Viene qui in mente anche
il caso Molinos, ma costui venne scoperto e condannato in vita, benché prima avesse raggiunto un grande successo. Gli
errori di Rahner sono stati bensì segnalati da molti teologi di alto livello, come i domenicani Guérard des Lauriers,
Alberto Galli, Alberto Boccanegra, Daniel Ols, il Padre Perini, il Lakebrink, il Von Balthasar, i cardd. Ratzinger, Siri e Parente,
Walter Kasper, Cornelio Fabro, il Padre Luigi Iammarrone, Don Dario Composta, Don Ennio Innocenti.
Un riferimento a Rahner,
anche senza che venga nominato, si trova in un documento del 1989 della Commissione Teologica Internazionale. Ma la cosa curiosa
è che Rahner, pur mostrando la sua tendenza idealista-panteista fin dalla fine degli anni trenta del secolo scorso, ossia
dall’inizio della sua carriera di teologo (è morto nel 1984), non sia mai stato ufficialmente censurato dalla Chiesa.
Questo ci dice quale sottile fascino abbia sempre esercitato e tuttora eserciti la tentazione spiritualistico-gnostica, ben
più di quella materialista e secolarista, per quanto anche questa, a partire dal postconcilio, abbia riscosso una grande
successo, che però oggi appare in calo, mentre sta avanzando di nuovo lo gnosticismo. 1
[Questo ritorno dello gnosticismo è stato segnalato di recente da alcuni studiosi: cfr. GIOVANNI FILORAMO,
Il risveglio della gnosi ovvero diventare Dio, Laterza 1990; EMANUELE SAMEK LODOVICI, Metamorfosi della gnosi. Quadri
della dissoluzione contemporanea, Ares, Milano 1991; MASSIMO INTROVIGNE, Il ritorno dello gnosticismo, SugarCo, 1993.]
Ma la cosa si spiega
col fatto che mentre le correnti materialiste, atee, empiriste, positiviste o nichiliste sono in aperta opposizione alla Chiesa,
quelle gnostiche, di tipo dualista o monista, idealista, panteiste o spiritualiste o storiciste si presentano sempre in personaggi
non volgari ma che incutono rispetto, colti, intelligenti, e che propongono le loro idee come una visuale superiore, più
avanzata o riformatrice del cristianesimo.
E Rahner certamente è
un soggetto del genere, ma di dimensioni tali, quali mai si sono verificate nella storia della Chiesa. E il fatto che oggi così
pochi si siano accorti delle sue imposture, dipende anche dal fatto che oggi assistiamo ad un calo, in generale, del senso critico
filosofico e della capacità di discernimento teoretico, capacità ancora molto viva fino all’epoca di Pio
XII.
La cosa curiosa è
che questo clima di miopia mentale o, per esprimermi con un termine del Padre Barzaghi, questa situazione di « microcefalìa
», sia scoppiata col postconcilio, quando il Concilio, almeno nei suoi documenti dogmatici, non fa nessuna apologia della
stupidità.
Semmai, come ho notato,
il Concilio è troppo indulgente ed ottimista nei confronti della problematica dell’eresia. Ed è da questa
parte, probabilmente, che è entrato il « fumo di Satana » dello stolto buonismo dei nostri giorni,
per cui non si « distingue la destra dalla sinistra » (cfr. Gn 4, 11), il vero dal falso, il bene
dal male, giacché tutti sono nella verità e tutti sono buoni (o in forma tematico-categoriale o in forma atematico-trascendentale).
Stando così le
cose, sento il dovere di insistere nel denunciare gli errori di Rahner per le funeste conseguenze che comportano sul piano della
fede e della morale, né mi preoccupa il fatto di non essere, per adesso, ascoltato: a volte la verità ha bisogno
di molto tempo per farsi strada; generalmente i profeti non sono bene accetti non solo nella loro patria ma neppure nel loro
tempo; in questo senso si dice che la profezia vede cose “lontane” e “future”. 2
[Nelle pagine che seguono riassumo i risultati delle mie ventennali ricerche sul pensiero rahneriano, i cui
risultati sono venuto pubblicando via via in questo tempo soprattutto nei miei seguenti studi, ai quali rimando, ove il lettore
desiderasse, come è giusto e rispondente a mio preciso dovere, controllare i miei giudizi facendo riferimento ai testi
rahneriani, che riporto in abbondanza: La rivelazione originaria di Karl Ranher, in « Sacra Doctrina »,
6, 1985, 537-559; Karl Rahner e il cristianesimo, in « Sacra Doctrina », 1, 1989, 93-135; L’antropologia
di Karl Rahner, in « Sacra Doctrina », 1,1991, 28-55; Analisi critica del pensiero di Karl Rahner, corso
scolastico presso lo Studio Teologico Accademico Bolognese di Bologna, 1992; Il mistero dell’impassibilità divina,
in « Divinitas », 2,1995,111-167; Morte e resurrezione in Rahner, in « Sacra Doctrina », 1,1998,28-71;
La mistica di Karl Rahner, in Il silenzio della parola. Le mistiche a confronto, ESD, Bologna 2002 pp.265-269;
L’Incarnazione secondo Rahner, in Il mistero dell’Incarnazione del Verbo, ESD, Bologna 2003, pp.186-234;
Il mistero della Redenzione, ESD, Bologna 2004, pp.329-343.]
1. Fede e concetto.
Rahner concepisce la
fede come un’ « esperienza originaria preconcettuale di Dio », data implicitamente a tutti («
cristianesimo anonimo »), la quale viene esplicitata, nella Chiesa, in forme concettuali (Scrittura, Tradizione
e dogmi) relative ai diversi modi di interpretare e categorizzare l’esperienza originaria soprannaturale, a seconda delle
diverse culture e dei climi storici (relativismo dogmatico).
E questo perché
per Rahner il concetto non rappresenta una realtà esterna, giacché per lui idealisticamente l’essere è
l’essere pensato e per la precisione, secondo la prospettiva heideggeriana, l’essere della “precomprensione”
(Vorverständnis, e Vorgriff in Rahner), si tratti dell’essere divino o del proprio essere o dell’essere
del mondo. La conoscenza, quindi, non parte dall’esperienza sensibile delle cose esterne (Aristotele, Tommaso), ma dall’autocoscienza
(Cartesio), che è già, implicitamente e inconsciamente, esperienza dell’Assoluto (Hegel).
I contenuti di fede,
la “Parola di Dio”, la Rivelazione, i dogmi sono l’espressione concettuale, ma sempre relativa e in evoluzione,
di quella esperienza fondamentale soprannaturale di Dio, che in morale si traduce, come abbiamo visto, nella “opzione
fondamentale”, come atto originario, atematico e libero col quale l’io pone il proprio essere (Fichte). Come l’esperienza
trascendentale si esprime nel concetto categoriale, così l’opzione fondamentale si esprime negli atti categoriali,
ovvero nelle scelte puntuali e precise dell’agire. E come l’esperienza trascendentale di per sé non è
concettualizzabile, ma solo relativamente rappresentabile dal concetto, così l’opzione fondamentale non è
concettualizzabile, ma solo relativamente traducibile negli atti particolari categoriali e “oggettivi”.
La fede, pertanto, per
Rahner, non si esprime in un insieme di nozioni precise e fisse, il cui numero possa essere determinato in modo certo e invariabile
(“Simbolo della Fede”), perché la fede esperimenta originariamente e direttamente Dio senza la mediazione
del concetto.
Il concetto sorgerebbe
successivamente come “interpretazione dell’esperienza di fede”, sicchè la fede è confusa con
l’esperienza sensibile, la quale sola precede il concetto ed introduce al concetto, che la segue come esplicitazione della
sua intellegibilità: « Certamente – dice Rahner – la nostra fede non coincide con una somma
immutabile di enunciati formulati una volta per sempre; la nostra fede ... non si riferisce in ultima analisi a delle frasi,
bensì alla realtà di Dio » (Nuovi saggi, IV, Paoline 1973, p. 591).
« La dottrina
cristiana, formulata concettualmente in parole umane riflesse nella confessione ecclesiale, non porta semplicemente dall’esterno
e soltanto dall’esterno ciò che essa dice ... Essa piuttosto evoca la realtà che è non solo detta,
bensì data e realmente sperimentata nell’esperienza trascendentale dell’uomo », che è anche
« esperienza di Dio » (Corso fondamentale sulla fede, Paoline 1978, p. 175).
« La salvezza
e la fede ... non possono a priori venire costruite in maniera adeguata mediante la pura riflessione [concettuale] ».
La riflessione « non può cogliere adeguatamente lo svolgersi irriflesso dell’esistenza », ma
ciò è possibile solo all’esperienza trascendentale (Corso fondamentale, p. 378). Contenuto della
fede, dunque, non è la conoscenza concettuale soprannaturale di Dio, ma lo « svolgersi irriflesso dell’esistenza
». Il frutto della riflessione, ossia « la concettualità teologica [dogmi compresi] non comunica
all’uomo, dall’esterno » (non esiste, come nel realismo, un essere “extramentale”, ma l’essere
è per sé pensato, intramentale) « la realtà stessa, ma è piuttosto l'espressione [contingente]
di ciò che egli sperimenta e vive in maniera più originaria nella profondità dell’esistenza
[esperienza trascendentale] » (Corso fondamentale, p. 36): l’esperienza di Dio.
Pertanto i concetti di
fede, nella loro mutabilità e relatività, non sono fissi, « non stanno fermi », direbbe Hegel,
ma « oscillano », perchè non riescono ad afferrare saldamente l’Oggetto divino, e neppure riescono
propriamente a raggiungerlo, compito, questo, solo dell’esperienza trascendentale: « Un’affermazione sopra
tale mistero » (= Dio) – cioè il dogma – « consiste sempre
in un’oscillazione originaria, non più da noi amministrabile, tra l’origine mondana della nostra affermazione
riflessa e l’arrivo là dove essa tende propriamente ad arrivare, cioè all’orizzonte della trascendenza
», ma ci arriva solo l’esperienza trascendentale (Corso fondamentale, p. 105).
Ciò comporta che
l’ « obbiettivazione per categorie » (i dogmi) del « mistero incomprensibile
del Dio trascendente » (oggetto soltanto dell’esperienza trascendentale), fa sì che « queste
oggettivazioni ... celano necessariamente la natura vera del cristianesimo, lo rendono ambiguo, ... lo trasformano in un’ideologia
dell’immanenza » (da quale pulpito viene la predica!) ... « esponendolo così al rimprovero
di essere soltanto un’ideologia » (Nuovi saggi, I, p. 100). Abbiamo qui un’incredibile affermazione
contro il dogma, accusato di essere un’ “ideologia”.
Se il concetto non afferra
propriamente il reale, ne viene che un concetto vale tanto quanto il suo contradditorio, perché il reale, nella sua identità,
resta fuori da entrambe. Rahner non arretra neppure davanti a questa conseguenza spaventosa delle sue premesse relativistiche,
che distruggono la possibilità stessa della conoscenza della verità. Per lui « possono
esistere molte teologie della mistica tra loro diverse e addirittura contradditorie, senza che una tale diversità escluda
in partenza che tutte queste teologie intendano parlare della stessa esperienza originaria » (Dio e Rivelazione,
Paoline 1981, p. 259). Qui Rahner confonde il diverso col contradditorio: teologie diverse non si contraddicono. Certo può
esserci legittima contraddizione fra opinioni contrarie, ma solo perché non si è raggiunta la verità: siccome
la verità è una, quando viene raggiunta, vince l'opinione che era quella giusta e la contradditoria viene abbandonata.
Ma non ha senso parlare di contraddizione fra due concetti che colgono la medesima verità.
Altra affermazione simile:
« La verità della propria affermazione non implica che un’altra affermazione, anche falsa,
non possa rappresentare per qualcuno il veicolo attraverso il quale egli accoglie con adorazione ed amore il mistero di Dio
» (Nuovi saggi, II, p. 85). Come è possibile che dal falso scappi fuori il vero?
Ma uno forse potrebbe
dire: Rahner si riferisce ai semplici concetti umani (benché già in questo campo Rahner sbagli in modo gravissimo);
lascia fuori quelli dogmatici. Per nulla! Leggiamo quanto egli dice in proposito: « Concetti come quelli di persona,
natura, peccato e peccato originale, transustanziazione, eternità, trasfigurazione del corpo, anche di infallibilità,
ecc., sono di necessità tali, che anche la proposizione contraria non è necessariamente errata ... Ci troviamo
in una situazione nella quale una nuova definizione non può più diventare errata, perché nel caso di una
definizione nuova, la legittima ampiezza di interpretazione è così grande, da non consentire, accanto a sé,
la presenza di un errore ». Questo è il principio della gnoseologia buonista: l’errore non esiste, esistono
solo diverse “interpretazioni”. Ma il fatto è che questo sofisma di Rahner, tipico dello scetticismo, si
confuta da solo, come ogni forma di scetticismo: se infatti Rahner, come c’è da supporre, è convinto della
verità di questa sua tesi, sarà obbligato a considerare erronea la tesi contraria, confutando quindi se stesso.
Si vede bene poi come
da questi princìpi assurdi si ricava necessariamente l’impossibilità di condannare l’errore e l’eresia,
giacché quello che per qualcuno è errore, può essere verità per un altro, per cui il voler condannare
il pensiero di questo altro in nome della “propria” visione o interpretazione, è una violenza fatta all'altro,
al “diverso”; è un’offesa fatta al “pluralismo”.
Questa tesi scettica
per la quale una medesima proposizione può essere allo stesso tempo vera e falsa a seconda dei “punti di vista”,
per cui dobbiamo ritenere vero anche ciò che a noi pare falso ma non ad altri, è strettamente legata – come
abbiamo già visto nello studio di Tourenne – al concetto che Rahner si è fatto del moderno pluralismo delle
culture. Prendendo spunto dal fenomeno oggi innegabile della immensa pluralità esistente di notizie e di forme di sapere,
anche relativamente ad uno stesso argomento, Rahner giunge ad affermare che non è più possibile raggiungere una
visione universale della realtà universalmente accettabile ed esprimibile in un linguaggio comune, per il fatto che oggi
non saremmo in grado di considerare tutti gli aspetti di una questione, di dominare le differenze e di astrarre da punti di
vista particolari, per cui ogni tentativo di sintesi, in tutti i campi, quindi anche in quello della fede, avrebbe delle lacune
inevitabili e non riuscirebbe ad evitare l’errore.
« La
pluralità irresolubile delle odierne esperienze dell’esistere ... – dice Rahner – porta o porterà
a molte teologie né elaborabili come le controversie delle scuole del passato [perchè inevitabilmente si fraintenderebbe
che cosa intende dire l’avversario o si scambierebbe per avversario chi in realtà la pensa come noi], né
integrabili in una sintesi nuova. È di fatto impossibile, in ultima analisi, distinguere adeguatamente gli elementi comuni
(che senz’altro ci sono) della comprensione umana dell’esistenza dalle varie configurazioni storiche che essa assume
» (Nuovi saggi, III, p. 87). « Il sistema soggettivo di valori che l'uomo senza dubbio possiede e liberamente
assume come proprio, non è dominabile in forma adeguata e con assoluta certezza dalla riflessione. Se si oggettivassero
in un uomo – anche nel più ortodosso – tutti i giudizi, ... comparirebbero allora ... anche ‘tesi’
oggettivamente eretiche [sebbene mai espresse tematicamente da questo uomo in forma così oggettivata] » (Saggi
di spiritualità, Paoline 1969, p. 566). « La differenza delle premesse filosofiche e concettuali per coniare
gli asserti teologici si va facendo sempre più grande [e quindi la comprensibilità universale di tali premesse,
nonché la raggiungibilità della posizione del singolo a mezzo d'una terminologia determinata in partenza, sempre
più piccole]; l’impostazione sistematica e storica dei problemi sta diventando sempre più complicata,
e di conseguenza sempre più ardua da raggiungere, per ottenere dalla Chiesa un verdetto ufficiale semplice e comprensibile
dappertutto » (Nuovi saggi, I, p. 652).
La conclusione di tutto
questo ragionamento per quanto riguarda la progettazione o la stessa esistenza di una visione d'insieme delle verità
di fede (e quindi la possibilità stessa dell'esistenza di un catechismo universale o di un elenco completo delle verità
di fede o della costruzione di un sistema di teologia o della pubblicazione di manuali di teologia), è quindi che tutto
ciò non è possibile senza trascurare qualcosa di essenziale e con la pretesa di potersi far capire da tutti o
di comprendere le posizioni degli altri.
Ma in queste condizioni
la fede non è più “luce del mondo”, ma semplicemente una luce particolare tra le altre: pretendere
che essa possa essere la somma verità per tutti, sarebbe una specie di imperialismo o totalitarismo ideologico: essa
allora « diventa piuttosto un momento particolare del mondo spirituale di un uomo di oggi ... Al tempo
della mia giovinezza – continua Rahner – si poteva ancora avere l’impressione che fosse possibile ...
che ci si potesse dedicare al mondo e si potesse nello stesso tempo omogeneizzare e sintetizzare tutto questo con la propria
fede cristiana, ... da farne risultare ... una concezione di tutta la realtà umana, in cui tutti i singoli momenti sono
... tra loro conciliati in maniera positiva, ... vivere cioè di una sintesi di tutti i dati della propria conoscenza
spirituale ... Penso che oggi non esista più » (Nuovi saggi, V, pp. 358-359).
Rahner dunque conclude
dicendo che pretendere che la fede ci possa oggi dare una visione sintetica e universale della realtà nella quale viviamo
è « totalitarismo ideologico », che consiste « precisamente nella
pretesa che anche oggi si possa avere un sistema, in cui è integrato positivamente tutto ciò che è pensabile
in una qualche maniera significativa, tutto ciò che pretende di essere vero » (ibid., pp.361-362).
Allora non è più
possibile “instaurare omnia in Christo”, il Vangelo non ci rende più “luce del mondo”,
l’annunciarlo fino “agli estremi confini della terra” e sino alla fine del mondo non ha più senso,
perché non siamo più sicuri di essere compresi né del fatto che noi stessi comprendiamo veramente tutto
il Vangelo, né del fatto che il Vangelo contenga valori universali. E con ciò naturalmente si nega la capacità
della Chiesa di comprendere l’essenziale del messaggio di Cristo e di trasmetterlo a tutto il mondo fino alla fine dei
secoli. O si vede nella gerarchia della Chiesa solo un insieme di esseri umani fallibili, senza alcuna assistenza dello Spirito
Santo. Qui Rahner, che solitamente si atteggia a pio e saggio consigliere dei vescovi, si prende gioco in realtà dei
vescovi.
Ma come Rahner giunge
a una tale squallida conclusione? Logicamente dalle sue premesse scettiche: se non esiste una verità universale oggettiva
concettualizzabile ed accertabile, non esisterà nemmeno la verità oggettiva ed universale del Vangelo.
Ma ci si può domandare
anche come Rahner passi dall’idea che tutti sanno la verità mediante l’esperienza trascendentale all’idea
che tutti sbaglino o quanto meno cadano nel relativismo nel momento in cui concettualizzano.
Per quanto sembri strano,
le due idee sono le due facce della stessa medaglia, e dipendono dallo scetticismo idealista proprio di Rahner, solo che ricordiamo
che per lui l’essere non è extramentale – questo essere è irraggiungibile dal concetto –; l’essere
è l’essere pensato, è 1’ “esperienza trascendentale”, l’unica vera realtà.
Allora, a seconda dell’angolatura sotto la quale consideriamo questa tesi, risulta contemporaneamente che tutti hanno
ragione e tutti hanno torto: hanno ragione se consideriamo l’essere come essere pensato; hanno torto, se consideriamo
il semplice concetto, incapace come tale, di raggiungere il reale.
Viceversa l’alternativa
tra la possibilità di essere nel vero e la possibilità di sbagliare si dà solo se, come ammette il realismo,
tra pensiero ed essere si pone una distinzione; il che comporta per sé convenienza, ma anche, accidentalmente, la possibilità
di una discrepanza: da qui l’esistenza dell’errore.
La convenienza, invece,
sta a fondamento della possibilità della verità; per cui la mente sarà nel vero quando il giudizio è
adeguato al reale; sarà nel falso quando non lo raggiunge. Così è possibile distinguere oggettivamente
e con certezza la verità dall’errore, e quindi il dogma dall’eresia. Così è possibile avere
una visuale completa e sintetica della dottrina cristiana, con la conoscenza certa di tutti gli articoli di fede, senza essere
sconcertati o frastornati da alcun “pluralismo”, la cui complessità e diversificazione dovrebbe assurdamente
relativizzare qualunque verità universale o visione di insieme, giacché è un principio logico elementare
che il particolare sta sotto l’universale e non viceversa. Il pensare che il singolare distrugga o renda impossibile l’universale
è il classico errore dei nominalisti, che non sanno che cosa sia l’intelligenza umana.
Se la visione cristiana
è, come è, una visione universale, non ha alcun timore di essere oltrepassata e relativizzata da alcun pluralismo,
per quarto ampio e differenziato, perché il pluralismo è sempre un insieme di dati particolari, i quali, come
tali, stanno sempre sotto una visione universale, che li raccoglie insieme e li rende possibili ed intellegibili, e che può
già essere quella di una buona metafisica o una buona filosofia e a maggior ragione è la visuale cristiana, che
ci è insegnata da Colui che è la stessa Verità fatta persona, Salvatore universale dell’uomo.
2. La Rivelazione.
L’esperienza
trascendentale soprannaturale preconcettuale, come esperienza di Dio (“fede”), è, per Rahner, esperienza
del Dio che si rivela all’uomo; ma siccome l'autocoscienza per Rahner, come coscienza dell'essere, ha per oggetto indisgiungibilmente
Dio e l'uomo (aspetto panteistico), ne consegue che la Rivelazione, per Rahner, rivela indisgiungibilmente Dio e l'uomo: «
La rivelazione, nonostante la sua immediata origine divina, costituisce il cuore e l’intimo della storia
umana in senso assoluto ». Essa è « identica alla storia dell’umanità
» (in collaborazione con JOSEPH RATZINGER, Rivelazione e tradizione, Morcelliana, Brescia
1970, p. 13).
La Rivelazione, per Rahner,
è un’ « autocomunicazione trascendentale di Dio all’umanità », è
un processo storico che « culmina", nella sua « unità, nella sua
avvenuta mediazione storica nell’unico uomo-Dio [Cristo], che è nello stesso tempo Dio medesimo come comunicato
» e l’ “accettazione“ umana di questo « Dio comunicato » (ibid.,
p. l6).
C’è da dire
subito che Dio non può essere “comunicato”, perché, come ogni ente personale, è ontologicamente
incomunicabile: noi non comunichiamo con Dio nella sua essenza (il che sarebbe panteismo), ma nella grazia, che non è
Dio, ma solo suo dono creato, benchè soprannaturale ed emanante da Lui. In questa concezione della Rivelazione manca
pertanto il dislivello infinito che esiste e deve esistere fra la Rivelazione fatta all’uomo (i profeti) e la stessa Parola
di Dio sussistente, Verità divina e Verbo divino, che è il Figlio di Dio. E anche qui, pertanto, è ribadita
la concezione panteistica della Rivelazione, che pone un’assurda continuità tra il livello umano e la pienezza
divina del rivelato, come se tra l’uno e l’altro ci fosse uno sviluppo senza soluzione di continuità, per
cui viene negata la trascendenza del Rivelato sussistente – il Verbo – su1 rivelato come dato nozionale, proporzionato
alla mente dei profeti. Come se 1’uomo, nell’accogliere la rivelazione, sviluppasse o trasformasse se stesso nella
storia fino a diventare Dio (come Figlio di Dio).
Per quanto riguarda le
fonti della Rivelazione, Rahner, come i protestanti, rifiuta di considerare la Sacra Tradizione come fonte distinta e autonoma
dalla Sacra Scrittura, opponendosi cosi formalmente e direttamente all’insegnamento del Concilio di Trento e al Vaticano
II. Dice Rahner: « L’unità dell’oggetto di fede ... rende per lo meno inverosimile e inammissibile,
dal punto di vista religioso, l’ipotesi di due fonti di fede, di due trasmissioni della fede materialmente diverse, una
chiamata Scrittura e l’altra ‘tradizione’ » (Nuovi saggi, I, n. 197). « Tutto
quello che è il kerygma apostolico originario si è sedimentato nella Scrittura e accanto ad essa ed oltre ad essa
non esiste altra tradizione. In questo senso possiamo essere senz'altro fautori di un ‘sola Scriptura’ »
(Corso fondamentale, p. 464). « Per essere cattolici non è necessario contestare il ‘sola Scriptura’
; questo è senz'altro un principio che la dogmatica cattolica può e deve riconoscere » (ibid.,
p. 465).
Il rifiuto della Tradizione,
in Rahner, sembra esser causato da un motivo molto simile a quello dei protestanti: l’ostilità e la diffidenza
verso un Magistero vivo della Chiesa che si presenta come interprete infallibile del dato rivelato, asserito dal Magistero come
contenuto non solo nella Scrittura, ma anche nella Tradizione.
Tale atteggiamento, a
sua volta, sorge logicamente da una concezione della fede, in fondo assai simile alla fede protestante, intesa, come abbia mo
visto, come rapporto originario e diretto con Dio nella coscienza prima e indipendentemente dal rapporto sociale e col mondo
esterno. Ma inoltre, se il dogma fondato sulla Tradizione in Rahner non viene riconosciuto, non miglior sorte, in fin dei conti,
tocca anche al dogma fondato sulla Scrittura, sia a causa del relativismo dogmatico di Rahner, e sia per la falsa concezione
che egli ha della funzione del Magistero.
3. Il dogma.
II dogma,
per Rahner, è la concettualizzazione dell'esperienza originaria e atematica di fede compiuta dalla Chiesa: « è
l’esplicitazione dell’esperienza originaria globale della rivelazione in proposizioni singole » (Dio
e rivelazione, p. 452). Questa « autoesplicazione della rivelazione soprannaturale ad opera dell’uomo
», però, « riesce solo in parte, si trova sempre in una storia ancora imperfetta, è
frammista all’errore, all’accecamento colpevole e alle sue oggettivazioni » (Corso fondamentale,
p. 232).
Così per Rahner
« un dogma può benissimo essere vero e tuttavia umanamente prematuro, presuntuoso, colpevole,
pericoloso, ambiguo, tentatore, temerario » (cit. da WALTER KASPER, Il dogma sotto
la parola di Dio, p. 65). Difficile, per un cattolico, come già abbiamo detto citando ancora questo passo, immaginare
che il Magistero della Chiesa possa. attentare in modo così ripugnante alla serenità interiore e alla salute morale
del credente: sarei invece più propenso a considerare la teologia rahneriana come gravata da questi conturbanti difetti.
Rahner nota come certe
proposizioni dogmatiche costituiscono un « amalgama » formato da un « nucleo
» rivestito di « immagini, di connessioni, di emozionalità, ecc., che propriamente non fanno
parte del dogma; e quando [uno] fa il tentativo ... di purificare il dogma ‘in se stesso’ da questi concetti
e modelli di comprensione condizionati dal tempo e da ogni contesto che non appartiene essenzialmente alla cosa, ... talvolta
ci riesce realmente. [Tuttavia,] un uomo, nella sua storicità, non è affatto in grado di distinguere in
maniera riflessamente adeguata la propria veste storica della verità da quest’ultima come tale, nella sua permanente
validità » (Nuovi saggi, p. 332). La presenza di tali rivestimenti accidentali, che a tutta prima appaiono
essenziali, viene secondo Rahner riconosciuta « solo più tardi, permettendo di eliminare tale
amalgama » (Dio e rivelazione, p. 496).
Mi pare si possa accettare,
in linea di principio questa osservazione di Rahner sul fatto che il dogma può esser rivestito di elementi estranei non
facilmente riconoscibili; egli tuttavia è troppo scettico circa la possibilità di distinguere l’essenziale
dall'accidentale, laddove nega che tale distinzione sia possibile, almeno per il presente.
È lo stesso vizio
nominalistico che si può notare nella gnoseologia di Schillebeeckx: 3 [Cfr.
il mio articolo Il criterio della verità secondo Schillebeeckx, in « Sacra Doctrina », 2, 1984, pp.188-205.]
la mente umana è incapace di astrarre l’universale dal particolare, come avviene nella psiche degli animali, che
non sanno elevarsi all’astrattezza ed alla universalità del pensiero. Del resto egli si contraddice nel momento
in cui, ammettendo la distinzione, dice poi che è impossibile farla.
Questo scetticismo aumenta
e diventa intollerabile, laddove Rahner contesta apertamente la possibilità di questa distinzione, della quale parla
il documento Mysterium Ecclesiæ della CDF del 1973, da lui espressamente citato, per cui conclude che « non
possiamo mai stabilire e superare la storicità di una formulazione mediante una formulazione storicamente non condizionata
» (Teologia dell’esperienza dello Spirito, Paoline 1978, p. 607).
Qui emerge chiaramente
il suo relativismo-storicismo concettuale, che riecheggia l’eresia modernista. Da qui l’incertezza, della quale
Rahner parla, che può esserci riguardo al sapere se un dato dogma si è mantenuto, nel tempo, nella sua identità:
« Non è in partenza possibile escludere ogni insicurezza e ogni timore che in certe circostanze
potremmo aver perso tale identità. Il pericolo che l’elemento mutabile possa ingoiare quello immutabile del dogma
cristiano fa parte delle caratteristiche del la fede cristiana » (Nuovi saggi, V, p. 334). Questo – osservo
io – potrà capitare a qualche singolo disattento o malintenzionato (l’eretico); ma non certo al Magistero
della Chiesa.
Se il dogma si configurasse
« immutabile sotto ogni riguardo », secondo Rahner, « uscirebbe dalla
storia »: cosa evidentemente assurda per la sua visione storicistica (cfr. Nuovi saggi, V, p. 329). Rahner
dimentica qui che appunto le verità astratte ed immutabili, alle quali appartiene il dogma, sono indipendenti dallo spazio-tempo.
Ma questo è vero anche per le verità di questo tipo appartenenti all’ordine razionale; altrimenti dovremmo
dire che chi afferma che 2 + 2 = 4 si pone al di fuori della storia.
Altro segno di evoluzionismo
modernistico nel medesimo contesto, è il fatto che Rahner parla di un « divenire » del
dogma « attraverso un processo storico ». Ma il dogma non è come il seme che diventa
una quercia. Se di “evoluzione” del dogma si può parlare, come ci ha insegnato Marín-Sola, essa non
riguarda il contenuto, ma la sua esplicitazione, per cui certamente sorge un nuovo concetto, ma il passaggio dal precedente
al seguente non è un divenire, come accade in biologia, ma è una deduzione logica: ogni concetto è per
sé immutabile; si può parlare di evoluzione solo nel senso che al precedente si aggiunge il successivo, senza
che il precedente si sia “mutato” nel seguente, come dice l’adagio: “augere vetera novis”.
L’evangelico “scriba sapiente” non trasforma le cose vecchie in nuove, ma, supponendo che siano ancora buone,
ad esse aggiunge semplicemente le nuove.
Oppure, se proprio si
vuoi parlare di un « divenire », il nuovo non è il contenuto, ma la conferma che giunge
dal Magistero: così si può dire sì che nel 1854 la fede popolare nell’Immacolata Concezione è
divenuta dogma; ma non perché sia mutato il contenuto di questa fede, ma bensì solo perché ciò che
prima la Chiesa non considerava dogma, poi lo ha dichiarato tale.
Così pure è
falso che l’immutabilità del dogma non sarebbe « un oggetto di cui ci si potrebbe accertare
empiricamente con assoluta sicurezza » (Nuovi saggi, V, p. 327). Noi oggi, con nozioni di “natura”
e “persona” intendiamo esattamente ciò che intendevano i padri del Concilio di Calcedonia, quando definirono
il dogma cristologico, perché queste sono nozioni originarie naturali della mente e pertanto sono concetti metafisici
aventi un oggetto immutabile. E tale identità di significato si può indubbiamente controllare empiricamente mediante
l’indagine storica, la quale dimostra appunto che circa quei concetti la Chiesa non ha mutato per nulla il suo pensiero,
né potrebbe farlo.
Ciò naturalmente
non toglie che noi oggi, dopo quindici secoli di speculazione teologica e metafisica, comprendiamo meglio quei contenuti, ma
sempre nell’identità del loro senso, secondo la ben nota formula di Vincenzo di Lerino. Se noi oggi, come Chiesa,
non fossimo sicuri che crediamo le stesse cose che hanno creduto i padri di Calcedonia o gli apostoli, che conto dovremmo fare
della promessa di Gesù di assistere la sua Chiesa nella fedeltà alla sua parola fino alla fine dei secoli? Mettere
in dubbio tale fedeltà è precisamente il processo mentale che conduce all’eresia.
Inaccettabile, inoltre,
è la tesi di Rahner secondo la quale la Chiesa in futuro non definirà più nuovi dogmi o non conviene che
lo faccia, ma si limiterà a ribadire gli antichi interpretandoli eventualmente sotto nuovi orizzonti di comprensione.
Senza escludere tale possibilità non vedo assolutamente per quale motivo il progresso dogmatico dovrebbe essersi fermato
al 1950, e ciò mi sorprende sulla bocca di un teologo che passa per essere il leader dei progressisti.
L’unica ragione
alla quale io possa pensare, considerando il disprezzo nel quale Rahner tiene i dogmi, e più a monte la capacità
stessa della ragione umana di concepire ed esprimere la verità, è che definire nuovi dogmi, nell’attuale
situazione di “pluralismo insuperabile”, non avrebbe senso e non servirebbe ad altro che ad aggravare questo “pluralismo”.
4 [Cfr. AA.VV., Infallibile? Specialisti contro Küng, Paoline 1971,
p. 388; sulla tesi circa i nuovi dogmi, cfr. ibid., p. 399; Nuovi saggi, V, p. 640; Dio e rivelazione,
pp. 440-441; Teologia dell’esperienza dello Spirito, Paoline 1978, p. 640.]
Inaccettabile anche è
la teoria rahneriana della « gerarchia del le verità di fede », secondo la quale – e
questo dovrebbe anche favorire gli accordi ecumenici – la Chiesa dovrebbe chiedere ai cattolici di tenere i dogmi “fondamentali”,
che abbiamo in comune con i fratelli separati; gli altri dovrebbero restare facoltativi, degli “optional”. Dice
Rahner: « Se il cattolico possiede una fede saldamente ancorata alle realtà fondamentali del messaggio
cristiano, può tranquillamente non interessarsi di molte altre cose presenti nella coscienza di fede della Chiesa universale
» (Nuovi saggi, IV, p. 572). E, con questa tesi sconcertante, Rahner ritiene di fondarsi sul Vaticano II (caso
eclatante di falsa interpretazione del Concilio): « Quando il Vaticano II parla di una ‘gerarchia delle verità’
(Unitatis Redintegratio, n. 11), “è evidente” (!?) "che il nucleo vero e proprio di questo complesso
strutturato di verità ... è più decisivo, e precisamente nel senso che i cerchi periferici [e chi li
stabilisce?] all’interno di questa gerarchia possono non essere conosciuti, senza che a ciò ci sia qualcosa
da obiettare » (Nuovi saggi, V, p. 368).
Al contrario, dico io,
c’è moltissimo da obiettare, come indicano già gli incisi che ho messo nel brano citato:
1) Ammesso certamente
che non tutti i dogmi hanno la stessa importanza, tuttavia “gerarchia” delle verità, secondo il Concilio
e secondo la fede cattolica, non significa assolutamente divisione dei dogmi tra obbligateci e facoltativi;
2) quando mai la Chiesa
ha dispensato il cattolico dall’interessarsi di alcuni dogmi detti “periferici”, quasicchè siano semplicemente
facoltativi?
3) al contrario, come
abbiamo visto in precedenza, basta negare un dogma per cadere nell’eresia e, se questa è formale, le conseguenze
sono la dannazione eterna, perché se è vero che esistono dogmi meno importanti, tuttavia anche questi sono necessari
alla vita del cristiano: sarebbe come a dire che la vescica urinaria è meno importante del cuore: sì, ma occorre
anche quella per vivere!
4) Chi dovrebbe stabilire
il confine tra dogmi necessari e dogmi facoltativi? Rahner? Quanto al Papa, penso non abbia alcuna intenzione di farlo. Qui,
per la mania di originalità, e per un vergognoso compromesso con i protestanti, si finisce per cadere nel ridicolo. Il
guaio è che molti allocchi ci cascano.
Per quanto poi riguarda
l’interpretazione del dogma, Rahner ritiene giustamente qui – finalmente qualcosa di buono – che la teologia
abbia la sua funzione da svolgere, ma se poi andiamo a vedere quali esattamente dovrebbero essere i suoi compiti, ci cascano
di nuovo le braccia.
Innanzitutto non manca
il riferimento all’esperienza trascendentale, fonte, per Rahner, di ogni sapere, di ragione o di fede, e quindi anche
della teologia. Anche il sapere teologico, secondo lui, come quello di fede, rimanda direttamente all’esperienza trascendentale
e ne è un’esplicitazione concettuale: « Le affermazioni teologiche verbalmente di natura
tematica, ... nonostante la loro struttura razionale che naturalmente posseggono, ... rimandano sempre all'esperienza originaria,
pretematica, trascendentale e sono realmente comprensibili solo a questa condizione » (Nuovi saggi, V, p. 144).
Essendo l’esperienza
trascendentale atematica ed ineffabile per definizione, non si vede – e lo stesso discorso vale conseguentemente per il
dogma – come essa potrebbe fare da punto di riferimento chiaro, oggettivo ed inequivocabile – come dev’essere
un criterio di giudizio – per la “comprensibilità” delle proposizioni teologiche: si deve spiegare
ciò che è oscuro con ciò che è chiaro e non con qualcosa di ancora più oscuro, addirittura
atematico.
Inoltre, per Rahner,
il teologo deve interpretare il dogma così da non farlo apparire inconciliabile con la mentalità del nostro tempo,
e direi che ciò in linea di principio è giusto; ma Rahner calca troppo su questo punto, precisando che il teologo
deve fare in modo che il dogma appaia conciliabile « con tutta la mentalità del nostro tempo
» (ibid., p. 364). Qui stiamo esagerando: non ci sarà proprio nulla in questa mentalità che sia inconciliabile
col dogma? E allora che cosa si chiede al teologo? La quadratura del cerchio? o forse mutare il dogma in modo che piaccia al
mondo?
Sorprendente poi è
la tesi secondo la quale nel caso di una proposizione metafisica e religiosa – quindi anche nel caso del dogma –
sarebbe « molto difficile determinare l’orizzonte di comprensione in base al quale va determinato
il suo senso e quindi la sua qualità di proposizione vera o errata; anzi risulta addirittura impossibile riflettere su
di esso in maniera adeguata » (Teologia del l’esperienza dello Spirito, p. 608). Rahner si riferisce
qui ad « orizzonti di comprensione" storicamente determinati, dei quali parla la già
citata Mysterium Ecclesiæ, che egli sta commentando, e che concorrono alla significazione del dogma in un dato
tempo. Ma qui Rahner, che si limita a rilevare le diverse interpretazioni di dogmi fatte da diverse scuole teologiche, sembra
però fare, della detta “impossibilità”, una questione di principio, coinvolgendo anche il Magistero
ecclesiastico: ed è chiaro che qui non possiamo seguirlo.
Un pericoloso scetticismo
affiora anche in dichiarazioni come questa: « Non è sempre facile distinguere tra il dogma comune
e le varie teologie che lo interpretano, anzi una distinzione assolutamente esatta tra il dogma comune e le sue interpretazioni
teologiche risulta addirittura impossibile, perché ogni enunciato teologico di un dogma comporta sempre anche una certa
interpretazione » (Nuovi saggi, IV, p. 575). Affiora di nuovo anche qui l’incapacità nominalistica
rahneriana di distinguere l’universale dal particolare, l’accidentale dal sostanziale, il necessario dal contingente.
Dobbiamo invece dire
che il problema dell’interpretazione del dogma non ha nulla a che vedere con il pluralismo teologico: quando il teologo
interpreta il dogma, non deve intrufolare nella sua interpretazione la sua teologia, altrimenti l’interpretazione è
automaticamente sbagliata e - come diremmo - “ad usum Delphini”: sarebbe come se un interprete, che deve
spiegare un’espressione, mescolasse a quell’espressione, di sua iniziativa, un suo contenuto estraneo: che razza
di interprete sarebbe? E un teologo, che si suppone magari sacerdote, con la scusa dell’interpretazione è forse
autorizzato ad essere un impostore, farsi dare una lezione di onestà magari da un interprete di francese o inglese che
guida un visitatore in una gita turistica?
Qualcuno però
forse obbietterà: interpretare il senso di un dogma è cosa ben più difficile. D’accordo; ma il teologo
per che cosa lo ha preso a fare il titolo di “dottore in teologia”? Per fare l’avvocato Azzeccagarbugli?
Se, come sostiene Rahner,
la distinzione fra un dogma e 1’interpretazione fattane dal teologo risulta impossibile, allora si verrebbe a dire che
risulta impossibile distinguere dogma e teologia, sapere da opinare, apparenza da realtà: il che a sua volta viene a
confondere la Parola di Dio (spiegata dal dogma) e la parola umana (quella del teologo), e siamo di nuovo nel panteismo: la
confusione tra l'umano e il divino.
Dichiarare impossibile
distinguere l’interprete dall’interpretato è come dichiarare impossibile distinguere la signorina laureata
in lingue che fa da interprete al presidente Putin, dal presidente Putin: bisogna avere la vista piuttosto annebbiata. Così
analogamente penso che il portavoce, che alla sala stampa del Vaticano presenta il contenuto dell'ultima enciclica del Papa
dovrebbe essere ben distinguibile dal Papa. È regola fondamentale di ogni interpretazione, nota a tutti, che interpretare
non deve voler dire aggiungere, mutare o togliere, ma semplicemente far capire.
Certo può capitare
che una proposizione sia di difficile o discussa interpretazione: ciò spiega allora una molteplicità di diverse
interpretazioni ipotetiche; ma si suppone che si tratti di una situazione provvisoria, in attesa dell’interpretazione
giusta e persuasiva, ben fondata che non potrà essere che una sola, almeno se il testo è univoco.
Ora un dogma certamente può aver bisogno d'essere interpretato e il teologo indubbiamente è persona qualificata
a farlo. Ma non dimentichiamo anche la parte, che in certe situazioni può essere necessaria, propria del Magistero, dato
che dopo tutto è il Magistero il maestro della fede.
Il Magistero, a sua volta,
come abbiamo visto, può approvare l’interpretazione di qualche teologo, per cui questa per ciò stesso viene
elevata o a nuovo dogma o comunque a dottrina della Chiesa.
E poi perchè dovrebbe
essere tanto difficile fare la distinzione tra contenuto dogmatico e contenuto proprio di una particolare teologia, quando si
suppone che si possano avere i testi sia del dogma che dell'interpretazione fattane dal dato teologo? Chiunque può confrontare
personalmente il testo del Magistero e l’interpretazione del teologo e verificare se, a suo giudizio, l’interpretazione
è esatta. E forse che il Magistero non dovrebbe avere la capacità di prendere le distanze da interpretazioni errate
del suo insegnamento? Se così fosse, egli verrebbe meno al mandato di Cristo: il che è impensabile.
E dunque anche nel rischio
della confusione è possibile e facile fare la distinzione. Difficile sarebbe se il contenuto dogmatico in se stesso ci
fosse mediato da una particolare teologia. Ma anche in questo caso, la distinzione è possibile e doverosa per non confondere
appunto la Parola di Dio con un qualunque teologo, fosse pure S. Agostino o S. Tommaso. E il criterio per la distinzione sono
la conoscenza del linguaggio e della contestualità dogmatica tradizionali della Chiesa da una parte, e il linguaggio
e le nozioni di quella particolare teologia dall'altra. Per esempio, la devozione al Sacro Cuore di Gesù mette certamente
in gioco il dogma dell’umanità di Cristo mediato da una particolare spiritualità: ma nessuno vorrà
confondere il dogma di Calcedonia con le visioni di S. Maria Margherita Maria Alacocque.
Un’altra teoria
erronea di Rahner circa l’interpretazione del dogma la troviamo in questa sua dichiarazione: « A partire dagli
ultimi cento anni noi ci troviamo in una situazione nella quale una nuova definizione [dogmatica] non può
più diventare sbagliata, perchè il legittimo spazio per la sua interpretazione è così vasto, che
essa non può più avere accanto a sé nessun errore » (Infallibile?, Op. cit., p.
399).
Queste parole faranno
certamente trasalire di gioia i buonisti per i quali tutti hanno ragione e gli errori non esistono, ma sono tipici sofismi dello
scetticismo più grossolano, che abbiamo già avuto modo di confutare in precedenza. Ricordiamo qui soltanto il
riferimento all’interpretazione, che in precedenza non avevamo fatto, e possiamo dire così: Rahner dimentica quelli
che sono la natura lo scopo dell’interpretazione.
Interpretare non è
un’esternazione soggettiva o creativa senza una regola oggettiva che giustifichi e verifichi il lavoro interpretativo,
per cui sarebbero normali certe “interpretazioni” in contrasto tra loro, ma tutte “valide”, in quanto
esternazioni a briglia sciolta della “soggettività”. Interpretare è una cosa seria. Interpretare,
ripeto, quando c’è un problema di verità, e soprattutto nel campo della divina Rivelazione, vuol dire far
conoscere, e quando si tratta di conoscenza, le possibilità non sono che due: o la conoscenza è vera, ossia conforme
all’oggetto o alla regola, e allora l’interpretazione è vera; altrimenti è falsa. E ciò vale
anche nel caso, come capita per la Bibbia, che il testo abbia più significati legittimi.
Diverso è il caso
della produzione artistica, dove l’interpretazione dà occasione, per esempio, all’esecutore di un brano musicale
di dimostrare la propria personalità creativa, scostandosi da un’esecuzione puramente meccanica e scolastica. Ma
è cosa grave confondere l’interpretazione della Parola di Dio con l’interpretazione di una musica di Bach
o di Beethoven!
Molteplici possono essere
le maniere di vedere una medesima cosa; ma non le interpretazioni: queste non possono essere che due (in riferimento a un medesimo
significato): o vera o falsa. Non così i punti di vista e i modi di vedere una medesima cosa. Una medesima casa può
esser vista in tanti modi: di fronte, di dietro, dall’alto, dal basso, in fotografia, al cinema, nel ricordo... tutti
modi legittimi, e tutti veri. Rahner sembra confondere interpretazione e punto di vista, ed è un errore grave. Ed inoltre
confonde la molteplicità di significati che può avere un testo rivelato con un’assurda posizione scettica
che mette sullo stesso piano il vero e il falso.
Infine, un’ipotesi
di Rahner, la quale, se non è assurda, è però quanto meno pastoralmente assai sconsigliabile. « Potrebbe
darsi – egli dice (Infallibile?, Op. cit., p. 388) – che all’interno della Chiesa universale
una consistente Chiesa particolare disponga di una teologia comune, compresa e condivisa da tutti nella Chiesa particolare,
tanto da poter con essa pronunciare proposizioni di fede valide e vincolanti ».
La cosa potrebbe accadere
e direi che di per sé non comporta nulla di male o di illecito. Ma non mi pare auspicabile e opportuna e, in questo senso,
non mi pare lodevole, perché qui si introduce il pluralismo dove il pluralismo non c’entra, ma dev’esserci
l’unità di un solo pensare e di un solo parlare, come auspica, quando si tratta di dogmi, la stessa Sacra Scrittura:
è logico infatti che ciò che è uno sia espresso unitariamente, è logico che sia il molteplice ad
essere espresso in molti. Il pluralismo può riguardare le teologie, le spiritualità, le mistiche, ma non il contenuto
di fede o il dogma. Per questo - benché la cosa sia per sé possibile - ritengo bene - come del resto la Chiesa
ha sempre fatto e penso sempre farà - che i dogmi siano espressi sempre con concetti e linguaggio universali e appunto
come tali recepibili da tutti, anche se all’occorrenza bisognosi di un’adeguata spiegazione o interpretazione. Sappiamo
tuttavia come nella Chiesa esistono più Simboli di fede, i quali possono indubbiamente riflettere teologie diverse o
per grado di sviluppo o per accentuazioni differenti dei medesimi contenuti.