Esposizione
di alcune basi metafisiche per una Teoria aletica unificatrice dei due grandi insiemi presenti nel creato: la realtà ontologica
delle cose e la realtà logica delle idee, riferite entrambe al Figlio, nei due suoi nomi proprii già individuati
da Tommaso d’Aquino, Imago e Verbum, teoria quindi imprescindibile dalla trinitarietà di Dio, e che
dunque dimostra ulteriormente la forza che la Trinità ha direttamente sulla gnoseologia (come si può vedere specialmente
nell’incipit e nell’esergo del testo).
* * *
Verità
e bellezza. Cosa hanno a che fare queste due parole tra loro? Per rispondere a questa domanda vedremo in una prima parte
cosa è per san Tommaso la bellezza, e perché è quello che è. In una seconda parte, poi, attraverso
una breve icastica del bello in quanto bello, la considerazione dell’armonia ci porterà a scoprire dove riposi
la bellezza, potendo così arrivare a queste conclusioni: corrispondenza tra verità e bellezza vi è,
tanto quanto vi è tra sillogismo e proporzione aurea. Ma ciò vuol dire che vi è corrispondenza,
e corrispondenza univoca, tra pensiero e oggetto pensato, tra logos e res, tra forma e contenuto,
tra dottrina e retorica (e arte). È così proposto un ulteriore argomento contro il relativismo
oggi serpeggiante.
Cominciamo
col considerare la faccia più evidente della pulchritudo, della bellezza, che è il suo splendore.. Nella
Scrittura la richiesta di splendore del Volto di Dio è insistente: « Fa splendere il tuo volto, Signore »
(Psal., IV, 7; LXXX, 4, etc.). Essa tocca un aspetto del rapporto tra Creatore e creatura non secondario, che è
l’oggetto delle nostre riflessioni: in essa si parla di ‘splendore’, termine che, tra le diverse accezioni,
significa bellezza eccezionale; nel Salmo si parla poi di Volto divino, cioè di un’immagine di Dio, o, se
vogliamo, dell’Ente divino in quanto immagine. Ma il termine ‘immagine’ nell’insegnamento di san Tommaso
indica, insieme al termine ‘verbo’, uno dei due nomi proprii del Figlio, della seconda Persona trinitaria: Se Immagine
sia un nome proprio del Figlio (S. Th., I, 35, 2), articolo parallelo al precedente: Se Verbo sia un nome proprio
del Figlio (Ibidem, 34, 2). La risposta affermativa pone l’architrave metafisico dell’estetica tomista.
Siamo
nel De Trinitate, ed è proprio qui che il Dottore fornisce le più importanti precisazioni della sua dottrina
sul bello. « La specie – dice – ossia la bellezza [notare la connessione], presenta una certa
analogia con le particolarità personali del Figlio. Per la bellezza infatti si richiedono tre doti. In primo luogo integrità
e perfezione: poiché le cose incomplete, proprio in quanto tali, sono deformi. Quindi [si richiede] debita proporzione
o armonia [tra le parti]. Finalmente chiarezza o splendore: difatti diciamo belle le cose dai colori nitidi e splendenti »
(Ibidem, 39, 8, I consideraz.).
La
prerogativa armonica era già richiesta a fare bello il vero nella Pars Prima della Summa (I, 5, 4): «
Il bello consiste nella debita proporzione; poiché i nostri sensi si dilettano delle cose ben proporzionate, come in
qualche cosa di simile a loro; il senso infatti, come ogni altra facoltà conoscitiva, è una specie di proporzione
».
Il
legame col conoscitivo faceva concludere san Tommaso: « Pulchrum dicitur quod visum placet » (Ibidem,
ad 1). Una cosa all’uomo piace quando riconosce fuori di sé una corrispondenza a ciò che è interno
a sé: luce, integrità, armonia. Dunque quando la facoltà conoscitiva dei sensi è ben armonizzata –
per esempio da una sana teologia e da una successiva sana obbedienza dei sensi alla ragione –, essa forse dà luogo
a dei manufatti belli, oltre che a dei bei pensieri sul bello, sul vero e sul buono. Come vedremo,
questa bellezza ordinata, armonica (‘classica’), è peculiare alla cultura mediterranea, e, di questa, in ultimo
alla cultura cattolica di cui è anticipo e dalla quale è redenta, e in ultimissimo alla dottrina (e cultura) che
meglio la definisce: la dottrina tomista. Qui l’Italia – come specifico insieme culturale – dovrebbe fare un
asterisco alla sua peculiarità cattolica, e, come dice il Manzoni, pensarci su.
Torniamo
al De Trinitate: « Ora, la prima di queste doti [l’integrità] presenta una certa somiglianza con
quella proprietà personale del Figlio che consiste nell’avere in sé la natura del Padre in modo integrale
e perfetto. […] La proporzione poi, o armonia, è affine alle proprietà del Figlio in quanto egli è
immagine perfetta del Padre [abbiamo visto che Immagine è nome proprio del Figlio]. Diciamo infatti che un’immagine
è bella quando rappresenta perfettamente l’oggetto, anche se deforme. 1 [Pensiamo
ai famosi cesti di frutta anche bacata di Caravaggio, ma anche ai ritratti di uomo, creatura deformata dal peccato originale e
non sempre in stato di grazia, oppure al Cristo in croce, deformato secondo le profezie di Isaia.]
A questo accenna sant’Agostino nel suo De Trinitate: “In lui [Figlio] si trova perfetta rassomiglianza e somma
uguaglianza col Padre. La terza dote, ossia lo splendore, ha affinità con le doti personali del Figlio poiché questi,
in quanto Verbo, è, come dice il Damasceno, “splendore e luce dell’intelletto”. » (I, 39, 8).
Le
tre doti proprie alla bellezza stanno al Figlio in quanto il Figlio è, ed è Verbo. Se egli non fosse, a chi starebbero?
O meglio: armonia, integrità e splendore, riassunte nella ‘faccia’ del Figlio, nel suo aspetto di Verbo, che
è integro, ordinato e splendido, sono così legate ad esso che l’Angelico le insiste all’intelletto,
cioè precisamente al Verbo, tanto quanto all’intelletto insiste il vero. Possono allora esse avere esistenza
in Dio, se Dio non fosse la ss. Trinità, cioè se la sua essenza non fosse le sue relazioni e le sue Persone, e dunque
se non vi fosse un Figlio a riceverla? Se non vi fosse in Dio un Figlio che, « immagine del Padre », ne riceve
la somiglianza, possono le tre doti con cui si configura questa Imago permanere anche in un Dio senza Padre, senza Figlio,
senza dunque necessità in sé di somiglianza?
La
domanda non è affatto peregrina, giacché anche oggigiorno gli uomini tendono a spiegare la bellezza – così
come altre realtà, per esempio la religione – prescindendo tranquillamente dalla res trinitaria, come se la
bellezza e quelle altre realtà – e in generale l’estetica, e in generalissimo la cultura – fosse cosa
indipendente dal costitutivo metafisico di Dio (la ss. Trinità), ma dipendesse piuttosto (e solo) dalla ragione
umana, dalle sue invenzioni, dai suoi fantasmi, dai suoi sentimenti, o dalle sue passioni e preoccupazioni, o da qualsiasi altra
cosa che viene da lui, per esempio dall’opinione che egli si fa di Dio senza il soccorso della Rivelazione: spesso un Dio
senza Persone (buddhismo), oppure con troppe Persone (animismo, induismo), oppure con una sola Persona (giudaismo, islamismo).
Ora, questi vari costrutti nella religiosità naturale e nella filosofia prerivelatorie sono possibili, ma dovrebbero
non allignare là dove invece sono ormai ben radicate, cioè persino nella Chiesa, cristiana e trinitaria.
Sicché
io vorrei far notare che san Tommaso, con le sue parole decisive, rovescia sul nascere ogni ipotesi naturalistica, ogni ipotesi
a- e antitrinitaria: le tre doti della notizia di bello, pulchritudo, sono analoghe a tre doti proprie del
Figlio.
Ora:
è prima il Figlio o è prima una sua dote? Se è prima la pulchritudo, siamo tutti platonici, e dobbiamo
tutti tornare a casa, a studiare come si può dare la creazione con un Demiurgo senza relazioni e senza Persone, e anzi
in cui l’essenza non trova né relazioni né Persone. Ma se prima è il Figlio, la teologia tomista che
ne discende non fa che mostrare come la dote della ragione sia cooperante con la Rivelazione.
Come
ho già dimostrato a riguardo della caritas, 2
[ENRICO MARIA RADAELLI, Il Mistero della Sinagoga bendata, Effedieffe Edizioni, Milano 2002.]
doti quali pulchritudo non possono aversi se non riconoscendo in Dio un Figlio sia Verbo che Immagine, per
la proprietà tutta e solo divina di identificarsi la Persona con i propri nomi, identificazione che però si può
avere solo in una teologia dove sia presente un Padre e un Figlio, cioè in una teologia trinitaria, cioè solo in
una teologia cattolica, in una teologia cioè dedotta a partire dalla testimonianza della Rivelazione.
C’è
un rischio, se si sgombra il campo da questa teologia trinitaria e forte, solo con la quale viene attribuito al Logos divino,
alla seconda Persona, una dominazione su tutto l’universo materiale, culturale, morale, spirituale, un imperio teoretico
e pratico al di sopra anche dei convincimenti più campanelliani (il domenicano Tommaso Campanella, post conversus,
insegnò una notevole dottrina sulla primalità assoluta del Logos). C’è un rischio, e il rischio
è duplice e, in entrambi i casi, grave: avremmo l’oscuramento (il progressivo impoverimento) sia della
pulchritudo – e questo è ancora il meno – che della stessa ss. Trinità.
Un
domenicano di Bologna, padre Giovanni Cavalcoli, da decenni studia il movimento teologico internazionale contemporaneo, e fatica
a nascondere la sua preoccupazione di fronte a una teologia sedicente tomista che sfronda il Logos di parecchie sue prerogative,
prima fra tutte, sebbene con modalità subdole, contorte, volutamente oscure, la sua uguaglianza col Padre, ossia la sua
divinità. Gli sviamenti teologici hanno sulla cultura e, in particolare, sull’estetica, ripercussioni notevolissime.
Così come l’iconoclastia, per esempio, sgorgò da dottrine che non permettevano al Logos di incarnarsi, e più
tardi dai muri dei luoghi di culto protestanti caddero le palpitazioni celesti dei grandi affreschi cattolici, ora anche le chiese
cattoliche si inebriano di luce genericamente biancastra, in perfetta sintonia con la generica ‘religiosità’
che la informa. Quindi faceva bene san Tommaso a riconoscere al Figlio non solo il nome proprio di Logos riferito alla
veritas, ma identicamente quello di Imago riferito alla pulchritudo.
La
contemporanea sussistenza di questi due raggi nel Creatore garantisce la realtà che tra le sue creature effettivamente
vi è corrispondenza – come supposto inizialmente – tra dottrina ed espressione di dottrina; tra
verità da esprimere e retorica espressa.
I
due nomi del Figlio garantiscono persino una maggiore comprensione – caso mai ancora non la si avesse – di quella
somma espressione tomista che dice essere egli quell’immagine del Padre in cui l’essenza rimira Se stessa e tutte
le cose « come in uno specchio " (S. Th., I, 15, 3), poiché « il Verbo in modo esauriente
rispecchia il Padre e ogni creatura » (Ibidem, 37, 2, ad 3).
La
pulchritudo arriva dunque, nel tomismo, ben in alto: arriva al Figlio: « Il Figlio è immagine del Padre
come il figlio del re lo è del re » (Ibidem, 35, 2, ad 3). Splendore, integrità e proporzione,
dunque, da re. E ancora: « Dio contiene le cose in due modi. Primo, [nel Figlio] per le loro idee o immagini rappresentative
» (Ibidem, 39, 8).
Dunque
il mondo non è un insieme di nozioni, di verbi, bensì di verbi rappresentati in immagini, perché
Dio stesso non è puramente una nozione, un verbo, ma una realtà in cui pensiero e forma
del pensiero si identificano.
E,
a proposito di vestigia trinitarie, « ogni creatura – specifica l’Angelico – ha una data forma
o specie in quanto rappresenta il Verbo (poiché la forma dell’opera d’arte deriva dal verbo mentale dell’artista)
» (Ibidem, 45, 7): l’Angelico presenta l’analogia dell’artista perché in Dio è
posta un’immagine, una forma, senza la quale l’analogia di proporzionalità propria cadrebbe. 3
[L’analogia di proporzionalità impropria, o metafora, si desume da una qualità comune ai vari
soggetti analogati. Dall’astuzia, p. es., si desume l’analogia di un uomo con volpe: Erode
è una volpe. L’analogia di proporzionalità propria si ha invece quando il termine analogico
conviene ai vari analogati essenzialmente e intrinsecamente: p. es., il concetto di ente conviene sia all’accidente
che alla sostanza, all’essere creato ma anche a Dio.]
Io dico anche che, se per assurdo al Figlio non fosse appropriato il nome Immagine, cadrebbe con esso tutta l’arte
retorica: la figurazione, l’analogia in tutte le sue forme, la metafora, e con la metafora il linguaggio, perché
cos’altro è il linguaggio se non una grande e dettagliata metafora della realtà naturale?
Dunque,
anche solo per brevi cenni, vediamo che la bellezza giunge fortunatamente fino al trono di Dio. Ma vi giunge per il Figlio,
e abbiamo visto – e ora vedremo meglio – quanto tutto di essa dipenda dal Figlio.
Un
critico d’arte come Philip Daverio recentemente a una trasmissione considerava come nel mondo occidentale si fronteggiassero
da sempre due grandi culture: una cultura nordica, nomade – egli diceva –, barbara, intimamente protestante, nelle
cui opere per esempio di nudo (pensiamo a Van Eyck, a Cranach, a Klimt), si rinviene un’ipocrita senso del peccato, una
maliziosa spavalderia esibizionista, una contorta estetica che alla provocazione da se stessa risponde con la mostra di mondi
tenebrosi, grigi, terrorizzanti. Poi una cultura mediterranea (dai Greci ai Pompeiani, da Raffaello a Tiziano, da Picasso a De
Chirico), stanziale – dice –, armoniosa, gioiosa, colorata, con una naturale spinta a darsi un ordine, un canone,
una misura: solarmente peccatrice, ma tranquillamente redenta, o almeno certa della propria redenzione.
È
questa – dico io – la sorridente e positiva cultura cattolica. È la cultura del sì. È la cultura
riposante sulla Trinità (e su quello « specchio " che è il Verbo) come su qualcosa che forse non
vede e con cui forse non parla tutti i giorni, ma che le è entrata nel sangue con tutto il suo carico di dimestichezza
con il Mistero; di familiarità con un Corpo che non è di uomo senza essere in qualche modo arcano anche il corpo
di Dio; di dimestichezza con la visione che hanno di Dio i beati, cioè con l’oscura verità della fede: certezza
che, al fondo di ogni dubbio, regna sovrana una verità; e che oltre le nebbie più dense delle passioni e delle angosce,
c’è il sole, c’è un sì.
San
Tommaso, in questa cultura meridiana, non è figura di secondo piano: la Scolastica ha asciugato il gran mare Mediterraneo
da molte paludi culturali, dai suoi acquitrinii dottrinali, dai suoi stagni teologici (mi riferisco alla nota opera di recupero
compiuta su filosofi greci, ebrei e islamici), facendo emergere con grande e anzi unica maestria tutte le vestigia di verità
su cui il Cristo vittorioso sprofondava lo sguardo.
Con la dottrina dei due nomi proprii del Figlio è permesso in primo luogo fare, della verità di Dio, delle
immagini: del Padre come del Figlio, perché chi vede Cristo vede il Figlio e chi vede il Figlio vede anche il Padre.
In
secondo luogo, con tale dottrina è permesso fare immagini di Dio utilizzando in qualche modo la ‘carne’ morale,
culturale, spirituale, se così si può dire, di ogni parte del mondo dove può morire e risuscitare Cristo:
di tutto il mondo.
* * *
E
qui passiamo alla seconda parte del nostro volo d’uccello sulla pulchritudo tomista, accennando alla sua icastica.
È
interessante notare che infatti non assistiamo a una divisione manichea tra culture belle e culture brutte: la storia permette
di apprezzare continue operazioni di recupero attuate spesso nell’intreccio tra ‘barbari’ e ‘attici’,
o ‘classici’: i greci inciviliscono le aquile romane che gli piombono addosso dal nord, e quando poi è Roma
ad ammollirsi, è vero che Goti e Ostrogoti imbarbariscono la penisola col ferro e col fuoco, ma saranno Amalasunta e Teodolinda
a favorire l’ingresso del diritto romano e della grazia tra le orde desiderose di armonia. Le cattedrali gotiche, veri innari
a bestiari improbabili e a sproporzioni estreme, spingono l’umanità a uno spiritualismo dematerializzato quasi al
limite del dogma: tutte le cattedrali gotiche sono a san Galgano, dove un incendio ha mutato le volte in cielo stellato. Ma sarà
proprio la compostezza toscana e l’armonia centro-italica a riportare lo spiritualismo mistico nella sede e nella misura
di un sano (santo) realismo.
L’Imago
del Figlio dà luogo alla stesura del canone della bellezza nelle tre sue dimensioni di integrità, proporzione,
splendore, sia nelle res materiali che in quelle spirituali: San Tommaso stringe perfette analogie tra giustizia
e bellezza.
Queste
tre dimensioni preesistono al creato e alle creature, tanto che Dio dell’uomo dice « essere fatto a sua immagine
e somiglianza » (Gen., I, 26). Ciò vale anche per le civiltà poste dal disegno divino come terreno
preparatorio su cui disegnare il suo Sacro Volto: come il vero, anche tutto il bello è suo.
Esiste
una proporzione perfetta? La scoperta della proporzione aurea permette di stabilire dove risieda la massima pulchritudo:
la proporzione aurea, quasi ragione media, è quella parte di un segmento ‘media proporzionale’ tra l’intero
segmento e la parte rimanente. Essa è l’analogo figurale del sillogismo, e l’analogia l’abbiamo, ancora
una volta, in virtù del doppio nome del Figlio. Con la proporzione aurea, come nel sillogismo si raggiunge il giudizio
retto addizionando o sottraendo una premessa minore a una maggiore conformate da un termine medio, allo stesso modo nella
forma si raggiunge l’equilibrio. Il procedimento è proprio il medesimo, e i termini analoghi: premessa
maggiore come segmento totale, premessa minore come parte restante, termine medio come (non a
caso) parte media proporzionale. E così, in entrambi, il genere universale (o segmento totale x) sta al caso
particolare conosciuto (o segmento minore y minore di x) come questo caso particolare conosciuto sta allo sconosciuto (segmento
medio x – y = z).
E
come nel sillogismo si raggiunge uno e un solo giudizio retto, o verità, così anche nella forma si raggiunge una
e solo una aurea proporzione, bellezza delle proporzioni. 4 [Da
notare che luogo e tempo in cui sulla terra videro i natali sillogismo e proporzione aurea sono, si può ben
dire, i medesimi, dandosi essi in Grecia, anzi in Atene, tra il quinto e il quarto secolo avanti la venuta del Figlio di Dio sulla
terra (del Logos, per l’appunto, e dell’Imago), per mano dell’architetto Fidia e del filosofo
Aristotele, in modo che la Persona incarnata nell’Ebreo trovasse fuori di Ierusalem gli strumenti per la sua inculturazione
tra tutti i popoli.]
Si
raggiunge: essa è traguardo di forze ìmpari che le fa armoniche pur essendo contrastanti. La quiete è
raggiungimento di un’acme virtuosa ben più possente del loro scatenamento, giacché le catene che imbrigliano
qualcosa, se la imbrigliano, sono più della cosa, come la domus che ripara dalla tempesta è più della
tempesta. La concordia politica, l’accordo musicale, la fortezza virtuosa di una vita, la pace familiare, così la
compostezza di santa Maria Novella a Firenze, sono tutte cose in cui gioca così potentemente il vigore sommo dell’equilibrio
delle forze, che esso, alcune rare volte, riesce persino a nascondere dietro la sua ferma sovranità le stesse potenze
immani che concorrono al suo essere e che sottostanno appunto al suo regno, nascosto ma potente.
Ecco
perché il fascino delle cattedrali gotiche rapisce, sì, ma, per la smisuratezza del segmento verticale che assale
l’infinito, non permette all’anima quel riposo che trova in Santa Maria delle Carceri del Sangallo a Prato (sobrio
impianto a croce greca, ordine architettonico quasi vitruviano, muri a calce con aggetti costruttivi di lesene e cornici in pietra
serena); o a Milano, nella bramantesca santa Maria presso san Satiro, nell’incanto di una finta prospettiva dove la proporzione
calibrata è mostrata persino tra navata reale e abside virtuale; o a Roma, in san Pietro in Montorio, in quel tempietto
circolare che per la sua classica perfezione diverrà paradigma irraggiungibile della domus divina in terra e verrà
riprodotto in mille tabernacoli d’Italia.
Il
fatto è che, stando al triplice canone tomista, si capisce che le cose belle – nel senso di ‘perfette, integre
e armoniche’ – sono proprio poche: fuori della sobrietà aurea non incontreremmo allora solo l’insostenibile
Sainte Chapelle, ma anche le tensioni michelangiolesche, le visionarie estasi e i drammi veri e finti del barocco, e persino
Donatello, che con il suo famoso ‘stiacciato’ drammatizza nel marmo anche dei putti giocosi. La tensione tra passione
e ragione, tra barbarie e misura, tra carne e spirito, è continua, e dà luogo alla grande varietà della storia:
dell’uomo e dell’arte.
Da
rimarcare: come il dogma, anche la bellezza non è un punto, ma un esteso, nel quale alcuni enti – spirituali,
morali, materiali – sono più al centro di una perfezione di beltà di altri, nei quali invece prende il sopravvento
una qualche passione, pur essendo anche questi altri enti ancora belli.
Ora,
è giusto riconoscere forse che la maggior parte delle opere dell’uomo – discorsi, musiche, case, dipinti, amicizie,
insegnamenti, vite – ricevono il loro adeguato apprezzamento, il motivo della più meritevole ammirazione, proprio
in virtù dei moti, delle spinte, delle dialettiche, delle forze retoriche, dei percorsi, delle logiche, insomma: delle
interiori più varie dinamiche che in sé mostrano, e per le quali esse tutte sono quel che sono. Fuori di Dio c’è
il moto: c’è la storia.
D’altronde,
sia nell’arte che nella vita – e questa sia intima che politica – i momenti in cui rifulge armonia
e consenso sono rari e fuggevoli come primo vere, normalmente avendosi nel mondo il corso della storia, che è
stridore di forze, tensione di animi, contrasti di potenze, attriti tellurici di energie immani.
Fidia,
Dante, Michelangelo, e qualsiasi altro dei massimi, in virtù di cosa permettono di essere ammirati nella pulchritudo,
posto che san Tommaso richiede per essa l’armonia, e noi abbiamo visto che la casa dell’armonia è il riposo,
ma essi sono, al contrario, forza, moto, vita, lavoro?
Vi
sono almeno due risposte a questa domanda. La prima: che tutte le opere fragranti di bellezza non sono stagni immoti, ma, al contrario,
ragionamenti compiuti e finiti al cui interno tensioni e controtensioni guerreggiano sotto i nostri occhi fino ad arrivare a mostrare
il raggiungimento armonico. L’abbiamo detto prima: l’armonia è cosa che si raggiunge, che si conquista, ed
è il moto delle tensioni a raggiungerla e conquistarla. Spesso dunque questa espugnazione le opere delle varie arti la
mostrano in atto, e allora esse sono belle non solo perché ne mostrano il raggiungimento nel riposo, ma perché contemporaneamente
mostrano le traversie atte a raggiungerlo. Pensate a Eschilo, alle orationes ciceroniane, alle cappelle Medicee, alle costruzioni
musicali fugate. Certo: il massimo della pulchritudo si ha dove le tensioni estreme sono tutte nascoste, come nella cupola
di Santa Maria del Fiore.
La
seconda risposta la raccogliamo da tutto ciò che abbiamo detto finora: se il Figlio è l’Imago eccellente,
tutto ciò che ha la pretesa di essere sulla terra bella immagine di qualcosa, cioè di un verbo, dovrà misurarsi
con il modello eccellente di ogni immagine. Ed essendo, quella del Figlio, Imago propriamente del Verbum, che è
disposizione, ordine, misura, vedremo ancora riverberate nella proporzione aurea che dicevamo il massimo sulla terra di
quelle divine e arcane prerogative.
Tutte
le essenze del mondo hanno in ogni caso un luogo – notava Romano Amerio – 5 [ROMANO
AMERIO, Brusuglio. Guida alla visita di Villa Manzoni, Centro nazionale di Studi Manzoniani, Milano 1977, cap. I.]
dove ricevono riposo, un luogo in cui, trovando l’equilibrio, manifestano la propria innata virtù e cui tendono come
alla propria pace nel proprio principio. Per la terra questo luogo è il suo centro; per il fuoco è l’aria;
per l’acqua il mare; per l’aria i cieli e per l’uomo, concludeva il filosofo, la sua domus, dove egli
compie le opere a sé più intime e necessarie: il cibo, il sonno, l’unione, la morte.
Per
l’intelletto – aggiungerei – il luogo del giusto riposo è la verità. Già: ma in quale sua
forma? In quale sua espressione? Integra, chiara, armonica. Cioè vera. La bellezza, cioè, in
quanto forma della verità, è, come dire, la sua casa, la sua dimora.
Resta
da sperare dunque, e con questo concludo, che, stabilendo con san Tommaso ens, res, aliquid, unum,
verum, bonum, i sei classici trascendentali costitutivi dell’ente, a questo punto se ne riconosca doverosamente
il settimo nella pulchritudo, raggiungendo così il giusto numero di perfezione per la forma della perfezione.
In
ogni caso, che si distingua o non si distingua puchrum da bonum, per i valori proprii che qui abbiamo visto emergere,
ritengo auspicabile dare al nome Imago del Figlio la risonanza che merita, ponendolo su un piano di eguaglianza del più
noto Verbum, così delineando una filosofia dell’estetica forte, trinitaria, più fondatamente razionale
e unitiva.
Mi
pare che ciò darebbe modo di fondare con gli strumenti scientifici più classici della metafisica una teoria generale
unificante della verità: una teoria unificante della realtà e della logica più aletiche, del pensato e del
pensante, dell’aspetto e del verbo, per spuntare anche da questo punto razionale di vista le convinzioni relativiste oggi
più imperanti.
E. M. R.
* * *
* Docente di Filosofia dell’estetica e direttore del Dipartimento di Estetica
della Associazione Internazionale “Sensus Communis” (Roma), collabora alla cattedra di Filosofia della Conoscenza
(sezione Conoscenza estetica) della Università Lateranense.
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