(Segue da p. 2) In essa si parano due concezioni estreme della filotea cristiana, e la tenzone palesa un'intrinseca necessità della
religione che fuoriesce dall’ambito strettamente monastico per farsi segnale plastico di un profondo giudizio: è
ben vero che la verità sia una e una sola, ma altrettanto è il vero che la sua incarnazione nella storia esige una
personificazione nel qui e nel là che impone la sua gradazione nel ventaglio infinito di tutti i qui e di tutti
i là. Acquista allora importanza l’interpretazione del vero, la sua ermeneutica, per cui esso rimane
integro nella sua sovrannaturale univocità ma si offre a essere colto dalla finitezza creaturale ora da una prospettiva
e dopo da quell’altra, senza scalfirne la purezza, ché tale si riconosce sia nell’una che nell’altra.
Sentinella alla purezza dogmatica rimane il sommo “principio di non-contraddizione”, che non permette - sempreché
sia seguìto - di sciogliersi un’essenza in un’altra o in tutt’altra.
Dall’Introduzione
all'Apologia all’Abate Guglielmo 1 [Romano Amerio, Apologia
ad Guillelmum Abbatem, Introduzione, traduzione e note, Opera Omnia di san Bernardo, Volume I: I Trattati, Scriptorium claravallense,
Fondazione di Studi Cistercensi, Città Nuova, Milano, 1984.] di san Bernardo da Chiaravalle, mi è parso opportuno
raccogliere allora alcuni pensieri di Romano Amerio su questa disputa senz’altro esemplare, a mio avviso, nella delineazione
dell’esteso del dogma nell’arte.
Il dogma non è un
elastico, ma è un fermo, un immobile. Quando si dice “dogma” ci si riferisce agli articoli del Symbolum
Nicaense lapidariamente sunteggiati dall’affermazione giovannea: « Ogni spirito che riconosce che GESÙ
Cristo è venuto nella carne è da Dio; ogni spirito che non riconosce GESÙ,
non è da Dio » (I Ioan., IV, 2). Rispettare il dogma in arte significa insomma rispettare due cardini:
I), non ferire di naturalismo la trascendenza assoluta e, II), riconoscere in GESÙ l’uomo
teandrico: mai così reale da non portare con sé il divino, mai così spirituale da non poterlo rappresentare.
« Il cistercense
– dice Amerio – approfondisce l’antagonismo tra cielo e terra, esalta l’aut aut del Vangelo e mira,
per così dire, a una transumanazione anticipata. Cluny riconosce la realtà e la relativa bontà del mondo
(bontà relativa al fine celeste dell’uomo) e perciò ne accoglie l’uso e lo guarda con spirito amico.
[…In Cluny e in Cîteaux]
sono delineate due direzioni fondamentali della spiritualità: quella che abdica al mondo per il Cielo e quella che coinvolge
il mondo nel moto finalistico verso il Cielo. Le due mentalità coesistono entro il circolo dell’ortodossia, giacché
per misurare l’ortodossia di una posizione, la si deve paragonare non a un’altra posizione (per esempio Cluny a Cîteaux,
il Tomismo al Molina), ma al dogma ».
Il dogma infatti, come
dicevo, è un ambito, un esteso, e perciò possiede un intervallo interno entro il quale le opposte scuole di spiritualità
possono opporsi tra di loro senza opporsi ad esso.
4.
ESSENZA DELL’ARTE MEDIEVALE.
« I Cluniacensi dunque edificavano grandiosamente, ornavano riccamente
i sacri edifici, celebravano con fasto i riti, profondevano oro, argento e gemme. […] L’uso dell’oro e di altre
materie affini è legato da una parte alla loro durezza e incorrutibilità, simboli dell’eterno durare del divino;
ma anche e più ancora dipende dal fulgore che ne irradia e abbaglia. In questo fulgore le correnti di pensiero a cui si
rifà Cluny ravvisarono un’immagine eminente della divinità, […] un’espressione primordiale del
divino ».
Questa – aggiungo
– è la ragione per cui nell’arte delle icone l’oro non è nemmeno considerato tra i colori e appartiene
a una sfera dell’essere assolutamente distinta, cioè superiore, tanto che prima di stenderne il pigmento l’artista
si prona e a lungo prega (cfr. Paven Florenski, Le porte regali).
« […] La
grandiosità delle architetture è attaccata da san Bernardo nell’Apologia, 28: “Immensas altitudines,
immoderatas longitudines, supervacuas latitudines”. […]
L’artefice medievale mirava a fare la sua opera con tutti gli attributi del profondo e del sublime, indipendentemente
dal servizio che essa era destinata a portare agli uomini e persino indipendentemente dal fatto che essa fosse o no veduta dagli
uomini: non era infatti fatta primariamente per loro. […] La sproporzione tra le dimensioni e la funzione pratica dell’edificio
è essenziale all’arte monastica, anzi all’arte sacra, la quale è primariamente un’arte di adorazione
piuttosto che funzionale, […] versando l’arte sacra nell’infinito.
Le chiese […] non
sono case dove vengono gli uomini a pregare, ma case che pregano da se stesse: “quia si hi tacùerint, lapides
clamabunt” 2 [« Poiché se essi dovessero ammutolirsi, grideranno le pietre ».]. In questa critica della grandiosità architettonica san Bernardo sembra insomma
aver trascurato l’elemento proprio e caratterizzante dell’architettura sacra. Tale elemento è d’altronde
trascurato anche dai moderni storici dell’arte ». Questo elemento, da qualsiasi lato lo si prenda, è l’infinità.
Ma non un’infinità astratta, platonica, ma la determinata infinità - se così si può dire - racchiusa
precisamente nel Cristo, nel Dio che è Tempio a se stesso.
5.
RIFIUTO DELLA BELLEZZA NEL SACRO.
VALORE ANAGOGICO DEL SENSIBILE.
Continua Amerio: « La questione dell’uso
della bellezza nelle chiese e in genere nella religione si può porre così: l’arte figurativa promuove o ostacola
l’elevazione dello spirito nel sopraumano? La questione non può essere sciolta che affermando che la promuove, giacché
il contrario importerebbe che l’uomo per essere religioso debba rifiutare la parte estetica della sua natura e quindi diminuirsi,
come appunto porta l’ascetismo ».
L’iconoclastia, dico
io, per essere ben svolta, cioè svolta fino al fondo del suo giudizio annientatore, avrebbe dovuto distruggere e bruciare
infine se medesima che in nome del divino distruggeva e bruciava, perché nel non saper riconoscere l’anagogico
nel materiale sminuisce il materiale al meccanico, svuota di valore semantico ogni materia, anche la propria: l’immagine
divina infatti non trasfonde solo dagli ori iconografici, ma dalle sopradimensioni delle volte e delle cupole, ma dalle fattezze
cruciformi delle chiese, ma dalle letterature sacre poetiche e apologetiche. Non parliamo poi della partecipazione e dell’imitazione
dell’immagine divina che si trova nell’universale creato in infinite gradazioni a bella posta. (Vai a p. 4 di 5)
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