Nella
cattedrale di Strasburgo sono scolpite due vergini: una coronata, sorridente, a viso aperto; l’altra triste, il capo chino,
bendata. La prima è la Chiesa, la seconda la Sinagoga. Però anche qui non bisogna dare alcun giudizio troppo ravvicinato,
ma allontanarsi, sedersi, e studiare il progetto dell’oggi anonimo artista in tutta la sua vastità di vertigine cosmica.
Difatti, come i teologi
che mossero l’intelletto e le mani di Antelami vollero illustrare coralmente la frattura del mondo operata dal Cristo, ordinando
ai piedi del Cristo le due teorie di figure capeggiate dalle due Chiese, così qui altri teologi guidano il genio artistico
di un Maestro borgognone ad affrontare un tema preciso: il tema del giudizio. Tema arduo, ma grande, anzi sommo.
Tra il 1225 e il 1234 vennero
realizzate tutte le complesse opere scultoree che dovevano adornare, dell’infinita cattedrale della città di Strasburgo,
il suo punto d’unione con il Palazzo vescovile: il portale Sud.
In questo luogo topico
specialissimo della teologia cattolica medievale le forze espressive, e le dottrine teologiche che le mettono in tensione, rimbalzano
da interno ad esterno, da muro a contro muro, da pilastro a pilastro. Per meglio descriverle ci siamo avvalsi delle ottime note
di Hans Haug (le prime) e di Victor Beyer (le seconde), liberamente tradotte. 1 [Hans
Haug e Collaboratori (tra cui Victor Beyer), La Cathédrale de Strasbourg, Éditions des Dernières Nouvelles,
Strasbourg 1957. L’Haug è ripreso dal I capitolo, pag. 16; il Beyer dal cap. IV, pagg. 75-77.]
« Tutto il fianco
sud dell’edificio dà sulla piazza ancor oggi chiamata ‘du Château’ [del Castello]. Nel Medio
Evo essa raccoglieva la corte del duca, cioè del vescovo, signore spirituale e temporale, a quei tempi, della città.
Dirimpetto al palazzo episcopale si apriva, e tutt’ora si apre, il portale del transetto Sud, con le sue larghe gradinate,
tra due potenti contrafforti. Era su queste gradinate che si compiva la giustizia vescovile.
« L’iconografia
del portale a due fornici, in parte ricostruita dopo le distruzioni [degli scellerati della Rivoluzione], è quasi
interamente consacrata al tema della giustizia: al centro troneggia re Salomone, in mano la chiave della giustizia, alla presenza
del quale le due madri [del celeberrimo episodio] si disputano il bambino morto e il bambino vivo. Sopra di lui, il Cristo
presiede la sua giurisdizione. Le due famose statue della Chiesa alla sua destra e della Sinagoga alla sua sinistra, riflettono
l’atteggiamento delle due religioni dopo il giudizio: l’una è trionfante, l’altra battuta ».
Ma il percorso iconografico
sul giudizio prosegue. Difatti « ci accoglie un’altra figurazione della giustizia divina sùbito all’interno
del transetto, perché dirimpetto al pilastro divisore dei due fornici del portale si alza un grandioso pilastro ottogonale
circondato da colonnette, detto il Pilastro degli Angeli ».
Qui il Beyer dice che tale
pilastro è detto impropriamente Pilastro degli Angeli, essendo, dice, quello del Giudizio. Ma si sbaglia,
perché il nome non gli è improprio, ma proprissimo, giacché essi angeli, con le loro trombe sonanti, svegliano
l’uomo al finale verdetto: gli ordini celesti per il pilastro altissimo discendono sulla terra, con voci di tuono, in discesa
subitanea, verticale, ad annunciare la venuta della Maestà giudiziale, l’assoluto Giudice assiso in trono: «
Allora si vedrà il Figliuol dell’uomo venire sulle nuvole con gran potenza e gloria » (Marc.,
XII, 26).
Quindi la disposizione
iconografica del transetto Sud costringe a considerare interno ed esterno come un unico insieme spaziale, dove la parete della
cattedrale non è più il muro divisorio tra due realtà, ma piuttosto l’esteso dove si attua la loro
congiunzione.
Luogo semanticamente indivisibile,
offre un significato grandioso, pieno, traboccante, essendo rappresentate nello stesso intorno le due Giustizie: all’esterno
la secolare, all’interno la divina; in città la caduca, in chiesa la definitiva; di là l’effimera, di
qua l’eterna. Alla prospettiva della giurisdizione è restituito, così, il vasto valore che le è proprio:
la verità della giustizia terrena si basa sulla certezza di una imprescindibile prospettiva escatologica. L’impero
terrestre è distinto (non diviso) dall’impero celeste, e vi sottostà.
Questa prospettiva è
rassicurante: il pilastro profano (esterno e basso) rappresentante l’esercizio della giustizia terrena, rimanda al pilastro
sacrale e glorioso (interno e smisurato) che regge il finale Giudizio, quindi: se è vero che “come sarà giudicato
in terra dalla Chiesa, così sarà giudicato nei cieli”, 2 [Vedi
Matth., XVI, 19: « Io ti darò le chiavi del regno de’ cieli, e tutto ciò che tu legherai sulla
terra sarà legato ne’ cieli e tutto ciò che tu scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli »,
e Matth., XVIII, 18: « Tutto ciò che voi legherete sulla terra, sarà legato in cielo e tutto ciò
che voi scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo ».] è anche vero che la misura del giudizio
terreno verrà a sua volta misurata dal giudizio ultramondano, 3 [Vedi Luc.,
VI, 38b: « Con la medesima misura con la quale misurate, sarà rimisurato a voi »; ma anche, nell’Antico
Testamento, Ezec. XXXIV, 20; 23: « Per questo, così dice il Signore Dio a voi: “Eccomi io stesso
a giudicare tra la pecora pingue e la magra. […] Farò io giustizia tra pecora e pecora”. ».]
perché anche il pastore, giudicando e pasturando, non si insuperbisca, ma ricordi che egli pure è a sua volta un
pasturato.
La divina Sapienza doveva
ben aleggiare, allora, sui cieli di Strasburgo, se persino le pietre rispondono a una sovraumana assiologia portatrice di tanta
pace e di tanta certezza di giustizia. E tutto, ancora oggi, mostra come l’invisibile Spirito d’Amore si sia lasciato
magnanimamente impigliare dalla guglia (ne basta una) di quella smisurata cattedrale, innalzata da umili uomini fatti quasi di
fango, eguagliabili alla davvero modesta misura dei tetti della città, proprio per elargire, a premio della loro persino
urbanistica sottomissione, la cornucopia sovrabbondante dei suoi tesori sapienziali.
Ma, nel Medio Evo, secoli
luminosi spandevano su tutta la cristianità una profusione di insegnamenti tale da convertire popoli e popoli e da portare
a baciarsi due realtà altrimenti divergenti, quali la giustizia secolare e quella eterna, in un pacifico, mansueto trasporto
che sembrava trascendere, alle sue altezze, l’antica ferita dell’uomo, così pacificandolo.
Dunque Salomone: alla presenza
del re della pace il vescovo pone il suo letto di giustizia e bilancia i pesi degli argomenti proposti. Salomone, figura del ‘Giusto
Giudice’ GESÙ Cristo, da cui non a caso è sormontato, ha in mano la chiave della giustizia, chiave che egli
stesso ha chiesto al cielo e ottenuto dal cielo, domandando la sapienza, cioè precisamente il ‘discernimento degli
spiriti’, la capacità di saper giudicare sapientemente. Egli rappresenta la Giustizia stessa, che domina così
il pilastro centrale della porta sotto la quale opera il tribunale del Paese.
Egli è al centro
di una rosa cardinale: dinanzi la rappresentazione viva e quotidiana della giustizia secolare, che stabilisce la vita e la morte
corporale; alle spalle, sul pilastro ottagonale ‘degli Angeli’, il Giudizio finale che prelude alla gloria o alla
dannazione eterne (corporali e spirituali); alla destra la Chiesa, simbolo della Legge spirituale, della nuova Legge dell’amore,
della giustizia basata sulla fede; alla sinistra, infine, la Sinagoga, simbolo della Legge del peccato, della Legge carnale dei
meriti e dei demeriti, della giustizia ristretta alla ‘lettera’ della Legge.
Quattro punti cardinali
fissati da tre figurazioni emblematiche sovrastoriche cui fa riscontro una quarta figurazione mondana, questa però assai
viva, effettiva, di giudici e di imputati, in cui si realizza la storia del mondo: i crucifige! si succedono ai crucifige!
e i nihil obstat ai nihil obstat, 4 [Crocifiggilo!, cioè:
sia punito; oppure: Nulla osta, cioè: può andare.] nei verdetti del tribunale umano
chiamato, per volere divino, 5 [Deut., XVI, 18: « Stabilirai dei
giudici e de’ magistrati alle porte di tutte le città che il Signore tuo Dio ti darà in ognuna delle tue tribù,
perché giudichino il popolo con giusto diritto ».] a dirimere le questioni.
Il transetto Sud, deputato
a presenziare alla distribuzione della giustizia nel mondo, pone il Logos salomonico, e ben più che salomonico,
al centro del fare del mondo quale perno della distribuzione della storia. Persino un muro di cattedrale, invece che fermare,
come comunemente ferma, il dominio umano dinanzi a quello divino, qui lo associa nel suo continuum naturale per cui si
dà l’umano essendo il divino: l’Impero risponde alla Chiesa, il mondo a Dio.
Qui non vogliamo dire che
non c’è un muro. Ma che, in forza della sua potenza condensata nella rappresentazione del Verbum Giudice in terra
hic et nunc e Giudice in cielo in sæcula sæculorum, 6 [In
saecula saeculorum è magnifico ebraismo ripreso nel latino per indicare, in una lingua semitica priva di lemmi indicanti
il superlativo assoluto, il ‘secolissimo’, cioè il padre dei secoli, ovvero il tempo che ne è al di
là e cui san Tommaso d'Aquino darà la più stretta definizione di « tempo che esiste tutto insieme
» (Summa Theol., I, q. 10, a. 1): l’eternità. Ma l’eternità essendo Dio, riteniamo che
il superlativo ebraico sia così configurato per non nominare nemmeno indirettamente – estrema adorazione –
il sacro Nome: nemmeno attraverso i suoi eminenti attributi. Così anche per il luogo Sancta Sanctorum, come si sa,
indicante la presenza di Dio nei suoi vestigi raccolti nel tempio; e così anche per il nome del Libro scritturale ‘Cantico
de’ Cantici’: esso suonerebbe ‘Canticissimo’, o ‘Cantissimo’, che altro non è se non
‘Ciò che di Dio è detto in grado superlativo’, tanto superlativo da essere non detto ma cantato:
ma di Dio ciò che è detto al superlativo può essere solo il Verbum stesso del Padre, ‘cantato’
dal fiammeggiante amore dello Spirito loro. Quindi il nome ‘Cantico de’ Cantici’ è il Verbum divino.
Questa conclusione consuona con il significato del Libro, per il quale il Verbum creatore discende alla creatura per condurla
ai sacri e celesti sponsali. Anche attraverso la filologia si prova dunque che le Scritture 1), parlano del Cristo, come egli
di loro disse, e 2), almeno implicitamente, quindi, figurano la Trinità anche ai maggiorenti ebrei, a quei maggiorenti
che le scrissero e raccolsero (ma noi ci uniamo all’opinione tomista che dice esplicitamente, se pur prudentemente
non esplicitate, come si vedrà infra, § 15, pagg. 66 segg.).] esso trapassa la divisione delle
essenze e dei dominii in una loro ordinata e inaspettata congiunzione.
Salomone/Cristo, ricevuta
la chiave della sapienza, mostra sùbito la perfezione del dono regale dirimendo la terribile questione dei due bambini.
7 [Vedi III Reg., III, 16-26.] E qui c’è un rimando
implicito alle due Chiese: la madre arida del bambino morto è completamente disinteressata alla vita, è altezzosa,
superba, secca nel cuore emorta. Essa è la Sinagoga di Caifas, la Sinagoga usurpatrice del popolo d’Israele e, come
quella, non è preoccupata del bene della vita che ella dovrebbe procurare, ma anzi è pronta a veder uccidere anche
l’altro bambino (l’altro popolo, quello dei gentili, della cui salvezza è totalmente indifferente), pur di
veder riconosciuta una sua maternità (quella su Israele), come se la maternità su un cadavere potesse mai rasserenare
una madre. Ella, ucciso il proprio bambino, ne negò infatti la maternità per carpire il bimbo rimasto. Così
la Sinagoga, morto e disperso il popolo che opprimeva, brama nei secoli il potere sul mondo intero. 8
[Vedi Matth., XXIII, 13-16a; 29-36: « Guai a voi, o Scribi e Farisei ipocriti, perché
serrate il regno dei cieli in faccia agli uomini; così non vi entrate voi, né permettete che vi entrino quelli che
vengono. Guai a voi, o Scribi e Farisei ipocriti, andate per mare e per terra pur di fare un solo proselita, e fatto che sia,
lo rendete degno della Geenna il doppio di voi. Guai a voi, guide cieche, […]. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché
edificate sepolcri ai profeti e abbellite le tombe dei giusti e dite: “Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non
saremmo stati loro complici nello spargere il sangue dei profeti”. Così voi testimoniate contro voi stessi che siete
discendenti di coloro che uccisero i profeti. E voi colmate la misura dei vostri antenati. Serpenti, razza di vipere, come sfuggirete
alla condanna della Geenna? Perciò, ecco, io vi mando profeti e sapienti e Scribi; e di essi ne ucciderete, e metterete
in croce e flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città, affinché ricada su
di voi tutto il sangue giusto sparso sulla terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia,
che uccideste tra il tempio e l’altare. Io vi dico in verità che tutte queste cose verranno su questa generazione
».]
Il bambino morto è
Israele, o piuttosto: è quell’Israele, morto nel peccato di deicidio, nato dalle viscere della madre/Sinedrio, figlio
(inutile come un cadavere) di un giudizio compiuto contro la Legge. Il bambino vivo invece è il resto d’Israele,
figlio della madre/Chiesa, nato quindi dall’amore donativo di una madre che, come Paolo, è pronta a dare persino
il proprio figlio alla sventurata, cioè pronta a dare la propria stessa vita, pur di vedergli salva la vita. Per i sentimenti
che dilaniavano le due madri e Chiese si veda supra il § 2.
A questa semantica se ne
sovrappone però anche un’altra, che non annulla affatto quella appena vista, ma la raccoglie in un senso sconfinato.
Allora i due bambini sono l’umanità morta, o viva, secondo che sia figlia dell’egoismo o della generosità
rappresentate dalle due madri: Salomone/Cristo mette alla prova la madre/Chiesa e la madre/Sinagoga, dall’alto del suo trono
ultramondano, nella rotazione del mondo, in ogni momento della sua storia, perché in ciascun momento della storia del mondo
le due madri, le due Chiese (anche oggi e fino alla fine dei secoli), debbono scegliere terribilmente tra due posizioni: possedere,
e possedere allora un popolo morto, o donare, donando un popolo vivo. Le due madri si differenziano perennemente in questo
paradosso aporetico che fa della loro scelta un tremendum: se cedono il loro avere (un figlio! un popolo!), quel figlio
lo avranno, per giusto giudizio. Ma debbono cederlo a ogni ora fatale della storia! Invece, se concupiscono il possesso (ma è
loro quel figlio? è loro quel popolo?), ciò che avranno sarà vano cadavere. Fosse anche il cadavere del mondo.
Tale è la giustizia
profonda che sottende al giudizio salomonico, che i più 9 [Anche il Beyer,
nel libro citato, incorre in questo errore d’interpretazione. Paralogismo madornale, per la verità, perché
è impossibile dare un Salomone equidistante tra la Chiesa (corpo mistico del Cristo che il re figura), e la Sinagoga (accusatrice
e carnefice di quello stesso Cristo); e dare, contemporaneamente, un Cristo ‘Giusto Giudice’ (intronato appena sopra
quel Salomone che ne è semplice ombra e simbolo), che dalla sua posizione esimia spiega, appunto, tutto il simbolo.]
scambiano per equidistanza, senza afferrare (oggi) l’acutezza di una sentenza che ieri dette meritata fama al giusto re.
Ecco che a questo punto
anche le due celebri statue della Chiesa e della Sinagoga sono luminose dei loro moltiplicati significati. Già abbiamo
visto come ad esse rimbalza il senso spirituale delle due madri. La Sinagoga, così, non rappresenta l’Antico Testamento,
come già accennavamo all’inizio, ma il Sinedrio, cioè quella che Dio con Giovanni Apostolo chiamerà
‘Sinagoga (adunanza) di Satana’. 10 [Apoc., II, 9b; ma anche
III, 9b, loc. cit.] Così è spiegato il combattimento, l’asta del vessillo spezzata in plurime
diagonali, la torsione del busto che gira la figura a nascondere il viso sconfitto, le pagine del Libro della Legge pendenti dalla
mano sinistra, rotte.
Così è spiegata,
primieramente, la pena del castigo inflitta alla snaturata: la benda su quei suoi begli occhi annegati nel buio, come profetato
da Isaia e dal Cristo: « Egli disse loro: “A voi è dato conoscere il mistero del
regno di Dio, ma a quelli che son di fuori tutto è annunciato in parabole, affinché: ‘Vedendo vedano e non
discernino e udendo odino e non capiscano, onde non avvenga che si convertano e ottengano il perdono dei loro peccati’.”.
» (Marc., IV, 11-12). Ovvero, come spiegava nel 1600 il vescovo di Firenze Antonio
Martini: « L’abuso dei lumi e delle grazie ricevute e l’ostinazione contro
la verità sono giustamente puniti con la privazione della luce e dell’intelligenza che poteva servire alla loro conversione
e alla loro salvezza ».
E ancora: «
Pure non credettero in lui, perché s’adempisse la parola del profeta Isaia: “Signore, chi ha creduto alla
nostra parola? E il braccio del Signore a chi mai è stato rivelato?”. Essi non potevano credere, perché Isaia
aveva detto: “Egli ha accecato i loro occhi e indurito i loro cuori, affinché non vedano con gli occhi e non intendano
col cuore e non si convertano, in modo che io possa guarirli”. » (Ioan.,
XII, 37b-40). Rileva sant’Agostino: « E fu ancora giusta pena della loro prava
volontà se Dio li accecò, vale a dire li abbandonò e non li aiutò ».
11 [Come supra, pag. 42, nota 2. A riguardo di sant’Agostino, va
rilevato che il ‘Dottore universale’, così chiamato per essere stato a lungo il riferimento princeps
e unico della Chiesa, è uno dei quattro Padri e Dottori della Chiesa che si fanno carico della cattedra di san Pietro nell’omonima
venerabile basilica vaticana.]
Considerevole il fatto
che il peccatore (Sinedrio e Sinagoga sono peccatori al pari di tutti coloro che si ribellano nei secoli al Cristo) si benda da
sé gli occhi dell’anima per non vedere che ciò che egli dice bene è male, e non vedere che il bene
che egli dice non esserci gli è invece dinanzi. Come Cristo ha mostrato più volte, il peccatore compie già
da sé il proprio giudizio di condanna. Dio, al contrario, nel Cristo gli offre il miracolo di riprendere la vista e ripulire
l’anima, gratuitamente, sol che si penta.
Tolta l’obiezione
che non Dio acceca, ma da se stesso l’uomo, è da osservare che Dio spesso permette un male, oltre che per tutte le
ragioni già viste, anche per non permettere la caduta in un male peggiore. La misericordia di Dio non essendo flatus
vocis, ma fattiva e continua presenza nel mondo ribelle, arriva a permettere quindi anche la momentanea cecità, pur
di deviare la strada alla morte.
Sinagoga. L’anonimo
scultore ha qui dispiegato tutta la sua arte: il panneggio finissimo della veste virginale nasconde un seno sterile; le spalle
orgogliose sono ritte nell’offesa che piega il capo e torce il viso dall’altra parte, nient’altro, perché
l’animo è quello di una fiera fanciulla chiusa, ma non avvilita; umiliata, ma non confusa. Il portamento orgoglioso,
bisogna dirlo, trasfonde nobiltà. E io concordo con il cuore del Maestro, che ha saputo vedere nella rappresentazione della
Sinagoga, dietro lo sprezzo del gran rifiuto, una certa eccellenza di sangue, un’antica dignità regale. Perché
la Sinagoga ha abiurato i propri Padri, e per questo la lancia è spezzata, la vista bendata, la Legge rovinata; ma è
sempre loro figlia, e per questa incomprensione del suo miserevole stato in cui si è voluta mettere, ella si pone in
tutta la sua fierezza di principessa, figlia di re e di Patriarchi.
Lo scultore ha trasmesso
alla vergine di marmo il sentimento permeante da secoli tutta una nazione. Essa, come il regale popolo giudeo, resta ostinata
nella convinzione di essere ingiustamente punita e, in quanto figlia di Abramo, di Mosè, di Davide, usurpata.
Il dramma della vergine
senza fede è profondo tanto quanto la sua irriducibile, caparbia malizia. Non c’è peccatore che non si indurisca
nel proprio peccato, fin tanto che qualcosa tocchi il suo cuore, una freccia ardente d’amore, per esempio. Affinché
si avveri la Scrittura del grande Innamorato: « Le frecce tue sono acute, […] s’infiggono nel cuore de’
nemici del re », così canta Davide, peccatore ferito nel cuore dall’amore
di Cristo (Psal., XLIV, 6a-6c). Tutti gli uomini della terra possono riconoscere nell’indurita vergine di Strasburgo
quasi la propria anima: alta, aristocratica, superba nel nascondersi da se stessa la vista della propria disfatta. Quindi la Sinagoga
incentra in sé tutti i deicidi del mondo, tutti gli odiosi di Dio, tutti i peccatori, tutti gli ostinati nel male, tutti
i ciechi perseveranti nella propria pietrificata malizia, tutti i cuori che, marmorei, sprezzanti, spuntano i dardi dell’Amore.
Come spesso accade, si
direbbe più riuscita la statua della Sinagoga bendata che quella della Chiesa trionfante. La sublime torsione della prima
non trova nella rivale un’eguale semantema capace di rapire il fedele. La torsione, infatti, ha nell’appoggio della
veste sulla base una calma partenza, sale in vertigine su su fino in vita, ed è qui che nasce il contrappunto con le spalle
altezzose, contrappunto accentuato da quello vibrato dalle due braccia, una appena in avanti a reggere i frantumi dell’asta,
l’altra gettata indietro a tenere l’inutile Legge. Che viso ha, la Bendata! Accordo più divergente con l’insostenibile
sguardo dell’Incoronata non potrebbe aversi. Apprezzo decisamente il visibile contrappunto figurale delle due vergini, che
va colto anche in questo: l’inoffensiva fierezza di chi sta nella verità non infierisce, non sprezza, ma, con un
accenno di sorriso sulle labbra e negli occhi, si trasporta sulla vinta in un invito intenso, profondo. Quel che men vi è
nel corpo riluce nel viso, bellissimo.
La Chiesa, il capo cinto
con la corona di Davide, in una mano il calice dell’Antico Rito in cui si è riversato il sacro sangue del Nuovo,
nell’altra l’asta vittoriosa del segno mai più orrendo della croce, guarda diritta il giudizio di Salomone/Cristo,
per niente timorosa del verdetto; piuttosto, invece, profondamente consapevole di innalzare, in quello sguardo fermo, aperto,
senza ombre, una fede limpida, tersa, stabile, a bilancia di quella decaduta dell’apostata.
Va colto, nel rimando continuo
delle due statue, l’impareggiabile confronto, anche su corde metafisiche, di chi è con chi non è
più, di chi ha con chi non ha più, della regale innocente a fronte della scoronata colpevole.
Succede quindi questo:
alte, a destra e a sinistra del letto del nobile e sacro giureconsulto, due forti si ergono in tutta la loro verità. A
sinistra del portale la regina mansueta, tranquilla, fidente. A destra la regina sprezzante, incompresa, ostile. Ad esse guarda
l’imputato, il giudice, la folla. Sono le due strade che ogni uomo può intraprendere, che sia imputato reo, o innocente,
o che sia giudice, o che sia folla. Tutti attende il varco fatale della porta.
Tutti attende, nell’oscurità
vertiginosa della cattedrale, il Giudizio universale.
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