Il
problema della responsabilità dell’uccisione di Gesù Cristo, cioè di ciò che comunemente viene
chiamato ‘deicidio’, viene affrontato in Il Mistero della Sinagoga bendata cominciando col porre le cose (§
2: Quali sentimenti debbano muoversi tra fratelli, p. 3) in una prospettiva storica particolare: quella delle
azioni e delle reazioni che si ebbero tra Gesù e gli ebrei, poi tra gli ebrei e i ‘cristiani’, i discepoli
della nuova setta. Dalle diverse fonti si evince che l’ostilità si materializzò sùbito unilateralmente
da parte del Sinedrio e da chi lo seguiva. Non solo: è mostrato quali motivi ebbe Saulo di cambiare nome e vita, come sappiamo,
in Paolo; in secondo luogo è soppesata la differenza tra lo zelo di Saulo-Paolo e lo zelo di Caifas e dei Sinedristi; in
ultimo è valutata la possibilità che la conversione del fariseo Paolo potesse o non potesse essere compiuta anche
dagli altri farisei.
Per questa disamina, oltre
che dei testi più classici dell’apologia cristiana, ci si avvale anche di testi pochissimo noti, a torto, quali quelli
di un biblista protestante come Philip H. Menoud e di un grande martire della fede come Sir Thomas More.
L’analisi previa
al giudizio sul deicidio passa poi a considerare la figura di Gesù nell’ambito della Storia Sacra del popolo ebreo,
per stabilire se fosse lui figlio di quella schiatta, o piuttosto quella schiatta avesse la radice da lui. La cosa è meno
paradossale di quello che sembra, anzi è assolutamente legittima la sua verifica, poiché il nodo della disputa sta
proprio qui: nella soluzione di chi dei due è padre e di chi è figlio. Contestualizzata la questione correttamente
nell’ambito teologico ad essa proprio, sùbito ne viene la conseguenza che quello dei due termini che è padre
all’altro ha naturalmente diritto a esercitare la sua paternità, in caso contrario avendosi un’usurpazione
da parte della fonte di tutte le falsificazioni, le divisioni, gli odii: il diavolo. Nel § 3 (Figli di Abramo nella
carne o nella fede?, p. 11) è spiegato dunque il motivo per cui fin dalla bocca di Gesù Cristo gli ebrei che
non ricevettero la sua Parola furono mostrati non più appartenere di fatto alla schiatta ebraica di Abramo, di Mosè,
di Davide. Poi è esaminata l’ipotesi se lo zelo di Gesù per la verità avesse potuto essere espresso
da atti diversi da quelli che poi portarono l’Uomo a una rottura così insanabile con i suoi Capi. Infine si studia
se anche lo zelo dei farisei, di Caifas e del Sinedrio fosse lo zelo per il proprio padre, Dio, o per il padre di cui li diceva
figli Gesù, il diavolo.
A p. 18, il § 4
(I quattro aspetti dell’errore giudaico) è l’esauriente analisi dei quattro aspetti per i quali
i giudei compiono l’errore che compiono, di non riconoscere a Gesù di Nazareth l’autorità che egli si
assume. Quattro cause decisive, che in forza piena scatenano il rifiuto ebraico, ma, dice l’Autore, in qualche modo sono
le quattro cause cui è riconducibile il rifiuto del Cristo da parte di tutti gli uomini del mondo che gli negano la divinità.
Sicché, conclude anche stavolta l’Autore, se gli uomini di volta in volta arrivano a correggere queste loro terribili
decisioni, tanto più lo possono fare i giudei di tutti i tempi, così ricercati da Dio. Questa è una considerazione
molto riccorrente nel libro.
Da questo paragrafo discende
il seguente, § 5, p. 21 (Peccaminosità della lettura giudaica dei sacri Testi), che denuncia la peccaminosità
della lettura giudaica dei Testi sacri. Prendendo a esempio il celebre incontro del Signore risorto con i due discepoli che si
conducevano a Emmaus, così come viene acclarata la cecità della lettura che essi facevano della Bibbia in riferimento
al Cristo, allo stesso modo viene fatta emergere la cecità della Sinagoga (la 'Sinagoga bendata' del titolo), che non vuole
vedere realizzati il Mistero dell’Incarnazione e il Mistero Trinitario che gli è sopra, per avidità, cioè
per non perdere il possesso del popolo d’Israele. La teologia ebraica anzi incalza, e non solo non riconosce al Nazareno
la messianicità che gli spetta, ma gliela usurpa, appropriandosene e incoronando ‘Messia’ tutto il popolo d’Israele
nel suo complesso.
È allora necessario,
col § 6 (p. 23, Non tu generi il Cristo, ma Cristo genera te), tornare alla questione della radice: cosa si
intenda per ‘radice di Iesse’. Stavolta però con un elemento in più, quello cui è particolarmente
il popolo ebraico nel suo complesso, che sarebbe stato educato a riconoscere nella parola, nel verbo, un valore più alto,
più vincolante, e in qualche modo persino più reale, del valore dato comunemente alla storia, ai fatti, alla res.
Per questo motivo il § 6 è particolarmente importante: pone un punto decisivo a favore della presenza (in vestigio)
della Trinità nella sacra Scrittura.
E difatti il successivo
§ 7 (p. 24, Non puoi conoscere se non vuoi conoscere), scava alla radice vera di ogni eresia e, in generale,
di ogni presa di distanza dottrinale, teologica, filosofica, da quel cardine imprescindibile posto per tutti i secoli nella storia
del mondo da Dio, il Dio uno e Trino, da cui discende il Cristo. Decisivo il contributo di san Tommaso d’Aquino. Qual è
la radice delle dottrine che si distanziano dal Cristo? È vero quello che sostiene il libro, che questa radice è
nella superbia, nell’orgoglio? Qui la cosa è vista alla luce del truce episodio della ‘Vigna di Naboth’,
episodio che torna più volte nelle pagine di Il Mistero della Sinagoga bendata, paradigma appunto degli intrecci
tra le malizie interne all’uomo e i suoi costrutti teoretici. Quello che l’Autore chiama ‘il problema gnoseologico’
sembra proprio dipendere da un ‘problema morale’, cioè da una malizia che acceca l’intelletto. Con questo
paragrafo termina idealmente la parte preliminare dell’indagine, dopo la quale si può giungere a concludere se effettivamente
l’uomo Gesù abbia o non abbia forniti ai suoi connazionali gli elementi per decifrarlo, per riconoscerlo, per individuarlo
nella sua doppia natura.
Ma, come si sa, la nazione
ebraica si divide: molti seguono il Cristo, molti invece lo contrastano. E per sempre. Il punto di vista dell’Autore è
che in qualche modo questa è una guerra fratricida, come fu fratricida la rivalità tra Abele e Caino, e infatti
Cristo è da tutti i Padri riconosciuto come il nuovo Abele. Nel § 8, p. 29 (Il Mistero della Sinagoga bendata,
che dà il titolo a tutto il libro), lo studio affronta la teologia del Mistero: un primo accenno, giacché essa sarà
approfondita nella sua vastità in diverse altre pagine del libro. Qui è studiato il rapporto tra un Dio che desidera
farsi conoscere e degli uomini che non vogliono conoscerlo, che si bendano gli occhi per non conoscerlo. È quindi necessario
far luce sul concetto di ‘Sinagoga’, termine che si presta a diversi significati sia di ordine storico che teologico:
è Sinagoga sia la Chiesa che attendeva il Cristo prima della sua venuta, sia la setta che al vederlo lo abiurerà,
sia la comunità indefinibile ma reale (ne parla l’Apocalypsis) che in tutti i tempi lo combatterà fino
a subirne la finale e assoluta sconfitta.
Dopo aver considerato quattro
paradigmatiche opere d’arte che ben rappresentano la Sinagoga bendata nelle diverse accezioni, nel Secondo Capitolo l’indagine
si addentra nelle difficoltà più impervie, rappresentate dall’intreccio di Monoteismo e Trinità.
Nei paragrafi preliminari viene specialmente mostrato il grado di conoscenza che secondo san Tommaso d’Aquino avrebbero
avuto ‘i maggiorenti’ ebrei dell’Antico testamento. Nel § 15 (p. 66, Il Dio di Abramo come quello
di Pietro: Uno e Trino), in particolare, attraverso l’episodio della Trasfigurazione, viene rafforzata la tesi tutta
tomista che in qualche modo, e se pure in ombra e per figure, ad alcuni maggiorenti ebrei la Trinità non era sconosciuta,
e in questo la Summa Theologiæ tomista parla chiaro.
Con ciò, viene rafforzata
in sostanza la persuasione che quando poi la teologia dovrà affrontare i termini del deicidio, essi, per gli apostati giudaici,
sono tutti a sfavore di un verdetto assolutorio.
Riguardo a questa questione,
della responsabilità di qualcuno nel crimine di ‘deicidio’, arriviamo a metà dell’indagine: il
§ 48, p. 177: Se sia giusto parlare di deicidio, risponde in primo luogo alla domanda che ci si fa: se,
chi, e in quale misura qualcuno conoscesse la natura di chi si stava uccidendo, cioè se, chi, e in quale
misura qualcuno sapesse che Gesù di Nazareth fosse uomo e fosse Dio; in secondo luogo se l’uccisione era legale,
cioè frutto di un processo regolarmente istruito.
Il § 49, p.
178, chiede: I pietosi sono deicidi come gli empi? E risponde, risolto adeguatamente il quesito sulla conoscenza del precedente
paragrafo, alla fondamentale domanda sul coinvolgimento materiale e morale al crimine compiuto. Esaminando le Sacre Scritture
alla luce del vaglio che ne fanno i santi Padri e Dottori della Chiesa, viene steso un ventaglio di responsabilità in cui
sono coinvolti non solo gli ebrei e i romani, ma persino (e inaspettatamente) Dio Padre, da una parte, e dall’altra tutti
noi, di modo che il decreto del crimine perpetrato su Gesù Cristo risulta valutato sia nell’ottica dell’eternità,
che nell’ottica della storia, e in questa ottica temporale non solo è accusato il tempo presente contemporaneo a
Cristo, ma tutti i tempi del mondo: quelli prima e quelli dopo di lui.
Al § 50, p.
180 (Figli di Abramo o figli della Sinagoga?), sotto la luce del raffronto più serrato con la Scolastica di san
Tommaso d’Aquino, viene posta la conclusione che il deicidio c’è stato ed è stato perpetrato secondo
le predizioni delle Sacre Scritture dagli ebrei così come anche da tutti noi, però secondo diversi e ben differenziati
piani di responsabilità, dati e misurati essenzialmente da due fattori: il fattore della consapevolezza e il fattore della
carità, decisivi per sciogliere adeguatamente e con rettitudine il giudizio richiesto per poter conseguentemente prendere
i provvedimenti più necessari al conseguimento della salvezza della propria anima, cioè pentirsi, convertirsi e
credere al Vangelo.
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