[...] Possiamo
ora affrontare l’ultima questione, quella dell’ignoranza giudaica.
Il sommo sacerdote Caifas
pone al Nazareno il quesito centrale: « Ti scongiuro per il Dio vivo di dirci se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio
» (Matth., XXVI, 63). Il Sinedrio aveva già giudicato il dilemma in una seduta precedente e, riscontrando
le prove della divinità, aveva concluso di sopprimerne la più vistosa, il risorto Lazzaro, togliendo così
di mezzo ciò che più eloquentemente li accusava di cecità agli occhi dei semplici (semplici: il contrario
di doppi).
Uno dei patibolati, invece,
cioè Disma, 1 [Il nome Disma si può far ascendere al ‘vangelo’
apocrifo, quindi non garantito dall’autorità della Chiesa, detto di Nicodemo, III secolo.] il cosiddetto
buon ladrone, nel mezzo del proprio supplizio riconosce la divinità dell’ Uomo persino nel frangente estremo
dell’agonia: con facilità mette insieme la bontà soprannaturale, espressa in quei lunghissimi momenti dal
Cristo, avvocato persino dei propri assassini (cfr. Luc., XXIII, 34: « GESÙ diceva: “Padre, perdona
loro, perché non sanno quello che fanno”. »), con tutte le profezie che in qualche modo come Israelita
doveva conoscere. Non aveva avuto bisogno di sentire l’attestato che l’accusato aveva fornito alla domanda di Caifas:
« “Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?”. GESÙ rispose: “Sì, lo sono, e vedrete
il Figliuol dell’uomo, seduto alla destra della potenza di Dio venire sulle nubi del cielo”. » (Marc.,
XIV, 61-62), per credere pienamente alla certa divinità di un uomo che di lì a pochi minuti sarebbe stato cadavere.
Forse che quel Disma che
sarà venerato dalla Chiesa come il primo dei santi (san Disma) non ha utilizzato lucidamente l’intelletto in quel
lembo di minuti che lo separava dalla morte? Non solo ha usato rettamente la ragione naturale per fare i giusti sillogismi (còmputi)
e arrivare al risultato esatto, ma rettamente ha usufruito anche della ragione soprannaturale immediatamente a lui elargita per
grazia, stante quella precedentemente buona disposizione.
Quindi: ebreo Caifas ed
ebreo Disma. Però ogni uomo formula i propri pensieri, i propri giudizi, i propri sillogismi, come se si trovasse in ogni
momento sul letto di morte e formulasse in ogni momento il suo ultimo pensiero. Infatti i pensieri dell’uomo sono ‘discorsivi’,
si susseguono cioè l’uno all’altro, tanto che in ogni singolo momento il pensiero che l’uomo formula
è davvero il suo ultimo pensiero. Nell’impellenza della scelta, Caifas formula un giudizio falsato dalla propria
volontà perversa, tesa a coprire con un atto di volontà le proprie cattive intenzioni di rimanere nella posizione
di potere terreno posseduta: una delle tre concupiscenze condannate in I Ioan., II, 16, 2
[« Poiché tutto quello che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza
degli occhi e superbia della vita; le quali cose non vengono dal Padre, ma dal mondo »: dal Padre viene la luce della
ragione, dal mondo la polvere passionale che, intorbidando la ragione, la priva del candore teoretico che le è proprio.]
rientrando così nella praticità dell’errore sopra vista. Disma invece, non avendo niente da guadagnare dalla
carne, vede che la bontà sviluppata al suo fianco non è bontà carnale ma soprannaturale e quindi, pensa,
se soprannaturale, certo portata da Dio: “Quindi quello che mi sta a fianco, che dice di essere Dio, evidentemente lo è,
perché anche se inchiodato dice e fa cose che solo Dio può dire e fare. Ergo mi affido a lui affinché egli
faccia di me quello che vuole lui e mi sottragga così alle azioni vane degli uomini che fra poco mi spezzeranno inutilmente
le gambe”.
Quattro passi delle Scritture
sembrano sottolineare però una certa ignoranza dei giudei riguardo alla natura messianica e divina di GESÙ Nazareno:
l’appena citato « Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno », poi il « Io
lo so che avete agito per ignoranza, come i vostri capi » di Act., III, 17, quindi il « Se l’avessero
conosciuto, mai avrebbero crocifisso il Signore della gloria » di I Cor., II, 8, infine il celeberrimo «
Non facciamo come Mosè che si metteva un velo sul viso perché i figli d’Israele non fissassero lo sguardo
al fine di cosa non durevole. Se nonché si sono indurite le menti loro; infatti fino al giorno d’oggi lo stesso velo
rimane, durante la lettura dell’Antico Testamento, non rimosso, perché in Cristo soltanto si annulla. Anzi fino ad
oggi quando si legge ad essi Mosè, un velo giace sopra il loro cuore; ma non appena ci si volge al Signore il velo si alza
»: II Cor., III, 13-15.
A riguardo del primo passo,
san Tommaso cita [...].
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