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INGRESSO ALLA BELLEZZA.

Enrico Maria Radaelli *

Ingresso alla bellezza. Fondamenti a un’Estetica trinitaria.

LECTIO XX.
DE VEHEMENTI PULCHRITUDINE,
SCILICET DE CUPIDITATE DEI.

La bellezza intensiva, ovvero proprio la voglia di Dio.

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(Pagine 348-363 del libro.) Dove si mostra la particolare bellezza detta intensiva, dovuta all’arsione di contemplare Cristo e la Trinità senza attendere il possesso del Regno dei Cieli; problemi inerenti: primo, come conciliare il rigetto della figura della relazione (e della metafora, dunque del linguaggio, etc.) con l’Essere che è e che dà ogni relazione; secondo, come conciliare la povertà e il silenzio dell’eremo con la ricchezza e lo splendore richiesti dalla stessa religione, che nel culto richiede la massima dovizia; dove si studiano i rapporti tra carità contemplativa e carità attiva in ordine all’Estetica.

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Non si riesce a tradurre bene in latino l’espressione con cui nel nostro idioma significhiamo un grado di bellezza che va persino al di là di splendido, superlativo del bello, perché essa nasce da un’ardentissima sua condensazione, da un suo impetuoso e indifferibile schiacciamento, da una sua tutta spirituale compressione addosso al suo invisibile e divino Oggetto. Parlo della bellezza intensiva, in latino vehemens pulchritudo
Questa pulchritudo, unicamente soprannaturale e di Grazia, si distingue in gaudiosa e dolorosa; la gaudiosa è quella che si gode al cospetto di Dio, in Paradiso, e di essa parleremo dunque nell’ultima Lectio (XXI LECTIO), dedicata appunto al Paradiso; la dolorosa è invece quella su cui ci soffermeremo ora, che ha la caratteristica di offrire il proprio diletto, in una maniera del tutto speciale, anche a partire qui dalla Terra. Per dirla nei termini che conosciamo bene, la prima può appropriarsi per assimilazione allo splendore della bellezza fulgida ed evidente, la seconda al velato e “negativo” splendore dell’arcano. Qui parleremo unicamente di questo secondo tipo di bellezza intensiva, la dolorosa, chiamandola semplicemente intensiva.
Perché la chiamiamo proprio così: intensiva? Essa, bellezza spirituale, è precisamente la visione che si può avere di Dio anche qui sulla Terra non solo con le estasi mistiche ma anche a partire dai phantasmata formati nella mente attraverso le immagini offerte dai sensi e successivamente passati per il crogiuolo bruciante del desiderio al calor bianco: la spinta del desiderio d’amore, sempre presente quando è in gioco un oggetto di bene, qui è presente in un grado fortemente e forse illimitatamente parossistico, tanto che la sovrapposizione tra il diletto dovuto alla contemplazione del bene nella sua beltà e il diletto dovuto al raggiungimento del suo possesso qui è piuttosto sentita, proprio per via dell’intensità eccezionale delle (sante) passioni scatenate dalla visione divina, da una vera e propria sacra voglia di Dio.

La bellezza intensiva è la bellezza vista ancora sulla terra di cose che non le appartengono per nulla: Dio, alla quale però si frappongono tutte le cose della terra e che solo la morte in Grazia può finalmente svelare. È quindi per definizione bellezza negata, e la sua intensità, inversamente proporzionale al suo nascondimento, è data dalla potenza sottrattiva con cui si nasconde e si allontana dal vedente.
Ho detto ‘bellezza vista’, ma possiamo anche dir meglio dicendo ‘intuita’, poiché nella maggioranza dei casi la sua vista resta per l’appunto pur sempre velata per via del suo eminente carattere sovrannaturale. Colui che gira lo sguardo dai fatti materiali e muove il proprio cuore insaziato a ricercare qualcosa di più soddisfacente di quei fatti, rozzi nella loro innegabile ma carnale bellezza e bruti nella loro straordinaria ma tuttavia terrena finezza; colui che di quel qualcosa intuisce la realtà per grazia da qualche frammento e da suoi minimi indizi, ebbene: colui è perduto, è intrappolato. Entrato nel cerchio di fuoco, non esce più: innamorato di Dio, rapito da lui, non ha altro scampo che attendere (!) la morte.
Chi sono questi innamorati? Sono tutti coloro che nei secoli fin dall’inizio del mondo afferrarono la deità trinitaria per un lembo, capirono che questo lembo si trovava solo nelle spelonche, nelle foreste e nei deserti, e dunque lasciarono in città il sacco del mondo di cui erano appesantiti ben sapendo che col silenzio dell’eremo avrebbero afferrato il più e lasciato il meno. Sono, per dire solo gli esempi più noti, i santi Enoch tra i Patriarchi, Elia, Eliseo e il Battista tra i Profeti, Paolo e Antonio del deserto, Maria Maddalena, Gerolamo, Benedetto, Romualdo, Bruno, Celestino, Adelaide di Borgogna, Giuliana Puricelli, il beato Paolo Giustiniani e Divo Barsotti tra i più prossimi a noi. E in qualche modo anche il grande Francesco. Questi nomi ne nascondono migliaia. [...].

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(Pagina protetta dai diritti editoriali.)

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