(Pagine
301-316 del libro: § 8; è la prima delle tre parti in cui è divisa la XIX Lectio.) Dove si mostra la
continuità dell’arte ‘di adorazione’ – innestata con la Croce – dal I al XVII secolo; dove
si considera l’arte di Caravaggio alla luce della Grazia: il suo realismo si mostra argomento a sfavore del relativismo
gnoseologico di Kant; dove si mostra che la pittura può copiare la natura solo per via della costruzione sillogistica (e
Caravaggio, oltre che della Grazia divina, fu il pittore dell’intelligenza umana. [Per la seconda e terza parte della XIX
Lectio, dove si tratta della ‘Quæstio Æsthetica’ nel confronto tra Missale Romanum e
Novus Ordo Missæ, andare a pag. 2 o a pag.
3]
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Nella precedente XviII
lectio, imbattendoci nella disputa tra l’Abate Bernardo di Clairvaux e l’Abate Guglielmo di SaintThierry,
ci siamo trovati al centro della questione principe dell’arte, o, se vogliamo, del sacro nell’arte, cioè
ci siamo trovati dinanzi all’immane problematica dell’umiltà, che è anche la problematica del pauperismo,
che cerca il confine tra rendere onore a Dio convenientemente e, allo stesso tempo, rendere convenientemente umile il proprio
Io.
8. CARAVAGGIO: PITTORE DELLA GNOSEOLOGIA.
Vi sono dunque uomini che si lasciano trasportare nel divino a partire
da dati tutt’affatto umani, altri che invece sbigottiscono dinanzi per esempio a un Caravaggio, a un Velasquez, per la certezza
che all’ascesi si giunga spogliandosi, e non rivestendosi della natura, come fa quella pittura, ossia che
all’ascesi verso Dio si giunga attraverso la nudità dei muri, o almeno attraverso figurazioni alla bizantina, idealizzate
e quasi disincarnate, piuttosto che con figure mondane, per nulla – pare – spiritualizzate.
Certo i fondali paleocristiani in oro laminato e rilucente sprofondano nel
divino e le figure sante e chi le vede, e non si trova nella storia dell’arte religiosa un segno più
direttamente trascendente della lamina, o della tessera musiva aurea, ricche come sono di regalità. Inoltre, astrarre e
snaturare l’uomo privandolo della dimensione corporea della profondità, e anche stirandolo verticalmente, cioè
in quella dimensione che tende naturalmente al cielo, non lascia equivocare sul luogo in cui immagini e spettatori davvero si
trovano: non in sant’Apollinare Nuovo, o in san Vitale, ma nella celeste Ierusalem promessa dopo la Parusia, nella
Ierusalem discendente – proprio quel giorno – dai cieli.
Non si vuol certo dire, con ciò, che le « nigre »
tenebre caravaggesche, da cui emergono le luci delle carni e delle vesti delle figure nel Martirio di sant’Orsola,
o nella Cattura di Cristo di Dublino, o in Le Sette opere di misericordia, siano tenebre di Paradiso, come sono
certo ori di Paradiso quelli del Mausoleo di santa Costanza, perché si mancherebbe al principio d’identità
che fa il Regno dei cieli tutto e solo luce, e luce di ori.
C’è però una continuità, tra quegli ori e qui neri,
che nulla toglie alla trascendenza percepibile nei primi e all’immanenza palpabile nei secondi. E la continuità è
questa: i secoli che trascorrono da sant’Apollinare Nuovo, da san Vitale, o dal Battistero degli Ariani, fino a giungere
all’arte di Michelangelo Merisi, sono, per la latinità, tutti secoli discendenti.
Dal Paradiso, dal Regno dei cieli, l’arte trapassa lentamente agli inferni
del peccato. Il V e il VI secolo, secoli di ori e di splendori, costituiscono infatti un’acme, un colmo: il punto sommo
della parabola ascendente percorsa dalla ricerca artistica religiosa – mossa nell’uomo dalla perenne e trascinante
ispirazione del Verbum verso la propria Imago – per staccarsi dal naturalismo pagano, come abbiamo visto,
da cui, agli inizi della Chiesa, cioè agli inizi della raffigurazione del Volto di Dio sulla terra, aveva dovuto reperire
il sistema di segni più immediato per poter dire almeno le cose più importanti che aveva da dire su quel sacro Volto.
Le tessere musive laminate d’oro [...].
[Segue il § 9: La dissoluzione del sacro volto come possibilità
storica, a pagina 2 e a pagina
3].
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(Pagina protetta dai diritti editoriali.)
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