(Pagine
172-183 del libro.) Dove viene mostrato l’intreccio tra intelletto e volontà, e quale tra i due abbia il primato;
dal verdetto si ha la corrispondenza, o invece la discordanza, con l’ordine di processione delle Essenze divine; dove si
vede quanto e come gli affetti (anche l’amicizia) possano turbare il raziocinio; esempio di ribellione (!) del valore pace
allo svolgimento del ragionamento, se anteposto al valore verità, come Amore a Verbo.
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10. VOLONTÀ.
(Segue dalla IX
lectio). Va ora osservato un altro aspetto, nel quale si può considerare meglio l’intreccio tra affecta
e ratio, intreccio che avevamo appena intravisto ma poi, notando che la ateoreticità dell’errore richiedeva
agli affecta carnali di restare fuori dalla stanza tutta intellettiva e spirituale del raziocinio, si poteva concludere
che con tale divisione (e subordinazione) il discorso fosse esaurito: quando gli affecta entrano nel cuore del ragionamento
questo cuore si macchia. E abbiamo visto che gli affecta entrano attraverso le immagini del possibile offerto dall’avidità,
che vengono preferite – nella sovrapposizione compiuta dalla mente con il raziocinio – a quelle date dalla realtà,
in precedenza dalla mente registrate e poi scartate dalla mente.
Tutto questo ha, per i fini del nostro discorso di Estetica, una rilevanza
centrale, giacché la determinazione delle immagini da tenere e da scartare implica l’arte da tenere e l’arte
da scartare. Implica cioè, come si vedrà, la moralità dell’arte.
L’intreccio che stiamo riguardando tra spirito e carne va ora chiarito
sotto il profilo della volontà, in particolare di quanto la volontà intervenga prima, durante e dopo il lavoro sillogistico
compiuto per conoscere la verità. Infatti, come abbiamo visto, il pensiero non è assolutamente qualcosa di fisso,
ma di mobile – anche san Tommaso lo chiama mobile – non perché incerto, ma perché in moto da
una conoscenza evidente a una conoscenza da apprendere sulla base di quell’evidenza. Un mobile è mosso da qualcosa
che sempre è fuori di esso, tranne nel caso di Dio, atto puro. La conoscenza, con la quale si intendono le cose, è
mossa dall’intenzione.
La retta (o storta) intenzione è previa a qualsiasi ragionamento: l’uomo
conosce qualcosa nella prospettiva data dall’intenzione, e, previamente all’intenzione, da quel qualcosa che la incornicia
in un modo invece che in un altro, o che le dà una prospettiva invece che un’altra, cioè dalla disposizione
a conoscere la cosa, che è a dire dall’atteggiamento per il quale è intenzionato a conoscerla. È ciò
che comunemente si chiama ‘buona volontà’, cioè la cosa che fa buono un uomo: un uomo non è buono
per la buona intelligenza, ma per la buona volontà, 1 [TOMMASO D’AQUINO,
Summa Theol., I, q. 5, a. 4, ad 3.] con la quale si dispone ad avere le intenzioni.
La buona (intendi: perfetta) volontà a conoscere
qualcosa è data dalla disposizione di conoscerla per se stessa, cioè perché la cosa merita di essere conosciuta
in sé. Come Dio, che va conosciuto di per sé – e non per il bene umano, fine secondo –
come dice la Scrittura, 2 [Prov., XVI, 4: « Il Signore ha fatto
tutte le cose per se stesso ». ] cioè senza ciò che viene comunemente chiamato secondo fine:
avidità, convenienza, compiacimento della stessa conoscenza (ancora avidità), paura, e altre cose così.
Dunque sembrerebbe che, attribuendo la bontà o la malizia dell’atto
all’intenzione che muove l’atto stesso, la volontà preceda l’intelletto. Ma non è così:
qual è il criterio infatti per cui si ha bontà o malizia d’intenzione? Il criterio deve precedere la cosa
posta sotto il suo giudizio, e qui il criterio è la conformità o meno del fine posto dall’intenzione umana
« all’oggetto della volontà divina », 3 [TOMMASO
D’AQUINO, Summa Theol., I-II, q. 19, a. 10.] alla legge divina, conformità (=
confronto tra due forme, ossia un’eguaglianza, un sillogismo) che non si valuta con la volontà, ma, appunto,
con l’intelletto.
[...].
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