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86-100 del libro.) Dove si parla dello splendore come dote eminente della bellezza, e che si distingue in splendore evidente e
splendore indiretto, i quali danno luogo alla poesia, al fascino, e altro; dove si vede che tali cose sono determinate dalla proporzione,
la quale regola sia l’immagine che il sillogismo, dunque sia la bellezza che la conoscenza; dove si studia l’analogia,
speciale proporzione sia logica che figurale; dove si giunge al sancta sanctorum della proporzione, lo sponsale incontro
di intelletto con realtà.
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Titolo: “Splendore. Ma splendore di vero sillogismo”. Abbiamo
lasciato la IV LECTIO quasi sospesa a metà,
appena entrati com’eravamo nel fulgido e sontuoso terreno dello splendore, consapevoli però che il tema non poteva
esaurirsi in poche righe, ma necessitava di ulteriori passi in quelle glorie.
Infatti abbiamo appena accennato che questa qualità superlativa del
bello, che lo misura in una sua specifica, è più in generale intrinseca all’ente, e in ultimissimo
all’essere, tanto che san Tommaso ne parla proprio nel suo De Trinitate, come visto, quando parla del Figlio
di Dio, « splendore dell’intelletto ». 1 [TOMMASO D’AQUINO,
Summa Theol., I, q. 39, a. 8 (“Prima considerazione”).]
Perché « splendore dell’intelletto »? Quando
l’intelletto risplende, e risplende fino a essere lo stesso splendore? L’intelletto risplende quando raggiunge una
verità: se ne illumina, poiché la verità è la sua forma, è la forma dell’intelletto;
e se ne riposa, giacché la verità – essendo sua forma – gli è perfettamente proporzionata; sicché,
come l’impronta apprende e accoglie il suo calco, eguale fa l’intelletto con la verità.
Il Figlio poi, in particolar modo, è splendore dell’intelletto
in tre maniere: la prima perché, essendo Egli tutta insieme (cuncta) e tutta perfettamente la verità, non
solo ne risplende, ma ne è lo stesso splendore; la seconda perché, essendo Egli l’intelletto del Padre, se
si dice « splendore dell’intelletto » si deve sùbito completare: « …del Padre
», non essendoci in Dio altro intelletto che quello del Padre; la terza, perché si deve completare anche, come sappiamo,
« …d’amore », giacché questa è la caratteristica dell’intelletto del Padre,
di essere d’amore: se fosse senza la forma amore non intelligerebbe (ad intra) la Mente del Padre e
non testimonierebbe (ad extra) il Padre.
Noi però abbiamo precedentemente parlato di due tipologie di splendore:
l’una per così dire abbagliante, figurata per esempio dalla chiave musicale in maggiore, dall’oro musivo,
dai colori primari, dal modo indicativo del verbo, e altre cose del genere; l’altra invece più connotata da una sorta
di ombra, che è lo splendore dovuto al mistero, all’arcano, al velato, figurato dalla chiave in minore, dai colori
complementari, dalle coniugazioni oblique del verbo, e via dicendo: anche questo splendore allusivo, indiretto, sfuggente,
è, come il primo, intrinseco alla bellezza delle cose perché è – almeno per l’uomo – la
lunare misura della loro splendida inconoscibilità, così come il primo e solare modo è la misura della
loro splendida conoscibilità.
Splendore l’uno, splendore l’altro, poiché entrambi luminosi
di verità: la verità per esempio dei due modi di conoscere dell’uomo, l’uno per via naturale e l’altro
per via di fede: il primo evidente e diretto, il secondo testimoniato e obliquo; oppure la verità di queste due modalità
conoscitive (per via naturale e per via di fede), ma con prospettiva rovesciata – almeno a partire dalla filosofia e dall’arte
cristiane –, per cui tutte le solari evidenze, naturali o soprannaturali che siano, vanno a riscontrarsi nel Testimone
verace, mentre le opinabili testimonianze offerte ai sensi dalla natura ricadono su scienza e filosofia naturali: come
si sa, piuttosto incerte.
Il dilemma posto dallo splendore, dalla sua doppia disponibilità, è,
al fondo, il dilemma che ha inchiodato tutta la filosofia moderna, e che trova nella fragilità della relazione tra i sensi
e l’intelletto il punto davvero irrisolto. Pessimisticamente, due verità, per il desiderio dell’uomo di conoscere
l’essere, sembrano troppe, ritenendo che alla conoscenza dell’essere ne basti una, quella naturale. Al contrario,
convincersi che le due verità hanno valore nella loro coesistenza, sembrerebbe a molti una mediazione inconcludente.
[...].
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