(Pagine
157-171 del libro.) Dove si espone il cosiddetto ‘sillogismo di dipendenza’, conclusione del sensus communis
delle cose; poi la preesistenza all’uomo della luce e della tensione con cui si forma nella mente il raziocinio;
la purezza e l’intorbidamento del ragionamento di Adamo; il realismo intrinseco al sillogismo, in stretta analogia al Verbum
divino, cui si oppone il delirio irrealistico del peccato, che nasce dal fantasma dell’avidità; il realismo della
conoscenza si fonda sull’essere delle cose, pari in tutto a quello dell’intelletto, con il quale dunque può
accompagnarsi e proporzionarsi.
*
5. DIPENDENZA.
Avendo constatato lo scarto tra ratio e passio, si tratta ora
di capire quello che ben a ragione potrebbe chiamarsi il sillogismo principe, cioè quello che nell’uomo è
il padre – per così dire – di tutti i sillogismi. Esso è quel ragionamento immediato con cui ogni uomo,
fin dalla prima e più tenera età della ragione – tenera ma pura, retta e innocente – si riconosce dipendente.
L’animo del fanciullo, infatti, è ragionevolmente consapevole di essere assolutamente dipendente. Da qui la sua limpida
fede: nel genitore, nel prossimo, poi in Dio. Per cui: « Chi non si fa piccolo come questo bambino, non entrerà
nel Regno dei Cieli » (Matth., XVIII, 4); e ancora: « Lasciate che i bambini vengano a me, e
non impediteglielo, perché il Regno di Dio è proprio di costoro. Io vi dico in verità che chiunque non accoglie
il Regno di Dio con l’animo di un fanciullo, non entrerà in esso » (Luc. XVIII, 16-17). Dunque la
sollecitudine di Dio è che noi uomini si divenga prima « piccoli come bambini » e, una volta
tali nell’intelletto di fede, noi si possa « entrare nel Regno dei Cieli », il quale Regno, si
arguisce, ha la porta piccola poiché, per l’appunto, è a misura di pueri, di bambini.
Il sillogismo principe è quel ragionamento che unisce l’uomo
alla madre, al padre, ai fratelli, in un da, in un con, in un per, cioè in un plesso di relazioni
da cui sa di non poter nemmeno minimamente prescindere (e da cui fino alla perdita della semplicità e della purezza infantili
in effetti non prescinde): il suo Io non è ancora costruito tanto da poter aspirare all’usurpazione del trono
su cui sta assisa l’umiltà.
Non formuliamo il principe dei sillogismi: ogni uomo conosce il proprio cuore,
sa dunque a cosa ci si riferisce. È sufficiente la sua conclusione: con esso l’uomo si riconosce intrinsecamente
dipendente, e, medesimamente, con la dipendenza del proprio piccolo Io, ipotizza dipendente tutto il creato. Con questo
universale giudizio di dipendenza, compiuto sulla base di constatazioni di dipendenza di fatto dalla madre, dal padre, eccetera,
l’uomo ancora ragazzetto, puer o puella che sia, riconosce intuitivamente, ma razionalmente, l’esistenza
del Creatore, da cui dipendono tutte le cose in conformità alla sacra Scrittura, ovvero a ciò che il Signore stesso
insegna attraverso i suoi oracoli: « [A tutti gli uomini] è manifesto quel che si può conoscere
di Dio; Dio stesso lo ha loro manifestato; poiché le sue invisibili perfezioni si rendono visibili, comprendendosi dalle
cose fatte, fin dalla creazione del mondo » (Rom., I, 19-20).
Queste parole dell’Apostolo – di Dio, e da Dio consegnate all’Apostolo
– non vanno solo riferite, come d’abitudine, ai filosofi, ma, estensivamente e con più grande pertinenza, a
tutti gli uomini, e io oserei dire a tutti i ragazzetti, a tutti i pueri 1 [Che
l’età della ragione sia comunemente stabilita dopo i 5 anni ha almeno due argomenti a favore: la volontà di
san Pio X che la santa Comunione fosse accordata ai fanciulli a partire dai 5 anni; la beatificazione di Francisco e Jacinta Marto,
i due pastorelli di Fatima di 7 e 9 anni. En-trambe le cose possono infatti essere ratificate solo supponendo la ragione nei soggetti
operante.] appena forniti del lume della ragione naturale, possessori delle basi prefilosofiche appartenenti al
sensus communis: 2 [Cfr. ANTONIO LIVI, Dizionario storico della Filosofia,
Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2000, nella quale opera, riferendosi l’Autore in generale al sensus communis
« come “sistema organico di certezze universali e necessarie’ », egli completa tale sistema di
« un fondamento razionale della realtà in Dio, prima Causa e ultimo fine » (voce senso comune).]
le « cose fatte » sono intuite universalmente a partire da quando, pueri et puellæ,
ci si affida alla madre e al padre, e, a partire da essi e dalle cose intorno, si rilevano come dati acquisiti i princìpi
primi (di identità e di non contraddizione) che contrassegnano le cose nella loro individualità, il senso
di sé (della propria realtà), il senso dell’altro (simile a sé), il senso del mondo
(realtà circostante), il senso di una legge universale superiore a sé e agli altri, e della realistica certezza
della verità così come della realistica infallibilità della ragione nell’individuarla, come
vedremo.
[...].
* * *
(Pagina protetta dai diritti editoriali.)
* * *
|
|