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DALLA CULTURA POP
ALLA CHIESA “MELANCHOLICA”.
IL LINGUAGGIO DOGMATICO
AI TEMPI DELLA “CRISI FORMALE”.
di Alessandro Gnocchi - Mario Palmaro
Per gustare appieno questo libro, per spremerlo ben bene e cavarne tutto il succo, bisogna avere vista aguzza e, soprattutto, grafia minuta. Perché il saggio di Enrico Maria Radaelli è uno di quei libri che vanno letti guardando attentamente che cosa voglion dire le parole.
Ma non basta ancora: poi, vanno annotati, laddove il lettore incontri uno sbalzo da cui è invitato a prendere senza timidezze il volo e depositare i propri pensieri accanto a quelli dell’autore. Con grafia minuta, appunto, poiché tra queste pagine, i pensieri corrono veloci e lontani rincorrendo quelli dell’autore e serve spazio, molto spazio...
Un libro che si riempie di marginalia ha fatto il suo ufficio. L’autore non può chiedergli di più, se vuole può dilettarsi spiluccando tra i marginalia del lettore. Non è detto che gli piacciano, forse non tutti. Ma, a questo punto, il libro non è più suo. O non solo.
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Finalmente, qualcuno l’ha detto: “crisi formale”. Questa nostra povera Chiesa si trova in una condizione inedita della sua vita e Radaelli la definisce maneggiando con cura termini e concetti acuminati come quello di “crisi” e di “forma”. Mostra come la Chiesa di Roma sia toccata dalla malattia nell’intimità dell’“essere”, ma senza che ne venga mutata l’essenza poiché la Chiesa cattolica non è passibile di tale mutazione. Basterebbe questa intuizione per giustificare il libro.
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La “crisi formale” si manifesta in una sorta di “mal d’e-sistere” che fa pensare alla “melancholia”. Quella tristezza di fondo, quella depressione inconsapevole, che porta un soggetto, pur tra sussulti di incomprensibile esaltazione, a vivere passivamente, senza prendere iniziative, adattandosi agli avvenimenti esterni con la convinzione che non lo riguardino o che in essi non possa avere un ruolo determinante. Si potrebbe definire come il desiderio, in fondo all’anima, di una cosa, di una persona mai conosciuta o di un amore che non si è mai avuto, ma di cui si sente dolorosamente la mancanza o per raggiungere i quali non ci si sente all’altezza.
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Siccome continua, e continuerà, a essere vero l’assunto di Marshall McLuhan secondo cui “il mezzo è il messaggio”, l’aspetto più inquietante della crisi diagnosticata da Radaelli sta nel fatto che il vero messaggio dell’evento conciliare non è la sua dottrina, ma il mezzo attraverso cui questa è stata trasmessa: il linguaggio. E il linguaggio non è solo un contenuto, una dottrina, ma un metodo.
Anzi è metodo che si fa esso stesso contenuto e dottrina. Dunque, ci troviamo davanti a qualche cosa di più mutevole e inafferrabile di un semplice errore dottrinale o di un semplice sistema si errori.
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A causa della fallimentare adozione del linguaggio pastorale, gli errori possono essere replicati all’infinito e trovare forme nuove e continuamente cangianti.
Il rischio di chi si oppone a tale deriva è quello di combattere battaglie di retroguardia contro i fantasmi degli errori che sono già stati lasciati sul campo dal linguaggio che li aveva prodotti.
Non è un caso se persino coloro che si attardano nelle celebrazioni del Vaticano II sembrano così vecchi.
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Se non si decostruisce il linguaggio conciliare, si rischia di porre riparo ai guasti del Vaticano II quando, di fatto, sono già in atto un Vaticano III, un Vaticano IV, un Vaticano V… che non hanno bisogno di essere formalmente convocati in quanto la loro modalità di esistere non è più quella classica e istituzionale cui è dovuto sottostare il Vaticano II, ma possono essere celebrati direttamente sui mezzi di comunicazione.
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Alessandro Gnocchi - Mario Palmaro
Milano, 28 gennaio 2013
San Pietro da Nola, Confessore
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(Pagina protetta dai diritti editoriali)
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