L’intento
che aveva Raffaello nel dipingere La Scuola di Atene nella Stanza della Segnatura era di illustrare al pubblico quale dignità
potesse ricevere dalla Chiesa la città della cultura stretta intorno a essa. Ecco che allora il volto del grande Platone
prende le sembianze di Leonardo da Vinci, quello di Eraclito il volto di Michelangelo, e non si fatica a riconoscere tra i filosofi,
i naturalisti e gli aritmetici greci le effigi di Sodoma di Bramante, di Francesco della Rovere, e l’autoritratto dello
stesso Raffaello. Col Rinascimento infatti la Chiesa raggiunge il colmo della sua influenza sulla cultura, sulle scienze e sulle
arti, e tutto l’orbe umano riconosce in essa la fonte prima del germoglio e santificante e incivilente dei
popoli. L’insigne Maestra profuma di sé la Civitas hominum, emanando nei secoli linfa non solo alla vita religiosa,
primo e specifico suo fine, ma pure a ciò che si viene a chiamare Cristianesimo secondario, ossia appunto ai valori
civili, filosofici, scientifici, artistici di cui si nutre l’opera progrediente dei popoli.
Questa armonica continuità
tra natura e sopranatura viene rotta da Cartesio e poi dalla scuola degli ‘Illuministi’, a seguito degli stravolgimenti
dottrinali dei Riformatori, e da lì la Chiesa – prima tutta in comune col territorio civile – viene via via
sospinta quasi su “un’isola di religione”, recisa anche nel diritto (l’ordine temporale scisso dallo spirituale,
lo Stato dalla Chiesa) dagli uomini che dovrebbe santificare.
La rottura dell’unità
tra i due ordini è dovuta al relativismo, ossia all’indimostrata certezza che a parte tale certezza ogni altra
è certezza dubitabile, relativa essendo non più all’assoluta quiddità che la sostanzia e che
si chiama verità, ma a ciascun soggetto che di volta in volta la considera. Questa a tutt’oggi indimostrata
e indimostrabile convinzione si basa sullo scarto dell’oggettività che segue allo scarto di Dio: l’universo
si causa da sé e riceve da sé la propria ratio, che è nulla.
Ma la Chiesa non può
restare inerme di fronte al pericolo in cui quell’umanità che la respinge da se stessa si mette, e dal suo santo
seno suscita forze atte a stornare le velleità del nemico dell’uomo. Ecco così, tra le varie strumentazioni
terrene suscitate dalla Grazia, il colto esercito dei Gesuiti, che infaticabili si buttano nella mischia intellettuale, con vari
esiti.
Oggi, in cui si è
sparso per la terra il vezzo di non dire sempre come stanno le cose preferendo dire che si sta dialogando, si sta intellettualmente
amoreggiando, e non mai come un tempo invece disputando, sembra assistere non a una disputa alla luce del sole ma
piuttosto a un duello quasi ‘notturno’ di intelletti religiosi e laici che di secolo in secolo nascondono persino
a se stessi la posta in gioco, altissima, essendo essa il buono o il cattivo governo delle anime del mondo.
Se la Chiesa vuole santificare,
cosa vogliono invece gli Illuministi, o quelli che oggi si chiamano “relativisti”, radicali o accomodanti che siano?
Le loro pretese si stringono semplicemente alla libertà di disporre di sé senza intralci: senza intralci morali
e senza intralci legali. L’antagonismo non potrebbe essere più motivato. Peccato che pochi ne parlino, essendo la
Chiesa costretta a mettersi sul piano teoretico invece che su quello pratico (etico), scelto dagli avversari come terreno del
‘duello’. Ma l’errore è ateoretico, ossia incompossibile con il retto ragionamento, per cui la Chiesa
può vincere solo se costringe gli antagonisti a spostarsi sulla teoretica.
È ciò che
fa il saggio di padre Giandomenico Mucci s.j., I cattolici nella temperie del relativismo, Jaca Book, I Libri
della « Civiltà Cattolica », Milano - Roma, 2005: in quasi quattrocento pagine fitte, con notevole acribia
uno dei più rinomati scrittori di « Civiltà Cattolica » passa in ricognizione teoretica (e solo
poi anche politico-etica) i due schieramenti, relativisti e cattolici.
Sono tredici capitoli sviluppati
in una sorta di florilegio per chi voglia avere un rapporto dello stato delle cose, densi abbastanza da fare con comodo
anche tre libri, ma padre Mucci ha fretta – la fretta dei gesuiti, si intende, che è flemmatica e sorniona –
di compiere il lavoro intrapreso e dunque « delineare il panorama della cultura occidentale contemporanea e collocare
sul suo sfondo i turbamenti e le speranze dei cattolici » (p. 11).
Non si creda ovviamente
che la specialità del libro sia tutta qui, dare un quadro d’insieme (e dettagliatissimo) dello status delle
due culture. La seconda specialità del libro è anche la più “gesuitica”: peritarsi senza lesinar
fatiche a far emergere dagli avversari tutto il bene di cui nella loro cattività sono capaci. È qui l’animus
del filosofo, che non si lascia sfuggire i pregi inseriti nel corpus avversario, mostrando ancora una volta a questi improvvidi
quanto poco assolutista sia l’assolutista, ossia quanto il dogmatico sia intrinsecamente – e in virtù della
stessa forza dell’esecrata dogmatica – uomo pronto in ogni momento a cogliere le verità altrui, senza fare
dell’altrui – come questi altrui coi cattolici fanno – un corpaccio di fondamentalisti
(ma non si potrebbe abolire questo brutto vocabolo e tornare a massimalisti, a estremisti, o a radicali?)
ai quali non si dà neanche la parola. Farebbe bene anche a loro infatti lasciarsi cadere nella temperie dei cattolici.
L’Autore pare anche
più ottimista di quanto la realtà consenta, giacché allude spesso a una crisi dei relativisti quando invece
i grandi quotidiani di riferimento e i libri scolastici delle scuole medie grondano evoluzionismo, agnosticismo, storicismo e
semmai è la cultura cattolica a trovarsi in angolo; ma in generale la sua lunga esperienza (si occupa della relazione tra
Chiesa e cultura contemporanea) gli permette di tenersi saldamente in una prospettiva più prudente: « Nichilismo
e relativismo – avverte nell’Introduzione – con le loro ascendenze relativistiche, sono assunti come
paradigma della nostra epoca caratterizzata dal pensare e dall’agire come se Dio non esistesse, dall’esaltazione dell’autonomia
individuale disciolta dal vincolo fondante della verità, dall’autosufficienza della volontà morale »
(p. 11).
A questo strumento di ricognizione
sul campo dell’odierno Occidente culturale avrebbe giovato non poco dar voce forse anche a quell’imprescindibile metafisico
cattolico da cui invece ancora oggi molto si prescinde, il luganese Romano Amerio. Costui avrebbe mostrato che il relativismo,
il liberalismo e il laicismo « dominanti » sono oggi presenti, se non proprio « dominanti »,
anche nella Chiesa. Nella fatica che lo studioso compie a provare quanto siano spuntate le armi del relativismo (non colgono la
realtà), non dà mostra di eccessiva preoccupazione per quanto tali armi – e nozioni, e metodi,
e sistemi – siano presenti in forze anche nel campo proprio, cioè nella Chiesa e nella sua compagine sia laica
che ecclesiastica. Ma se gli uomini di Chiesa – ecclesiastici e laici – riconoscessero che « il fumo di
satana », come lo chiamò Paolo VI, è ancora ben presente tra le loro file, e, rilevando le indicazioni
ameriane, individuassero anche le cause metafisiche della penetrazione, mostrerebbero di essersi sbarazzati finalmente di quell’elemento
inibente che è il rapporto che ha oggi la Chiesa con la Tradizione: un rapporto alterato, causa di una certa disunità
anche nella Chiesa.
Amerio non è lontano
da quella « posizione dello spirito » che per Mucci « fa del pensiero uno strumento dell’azione
», ma, rispetto al gesuita, con la forza della sua metafisica avrebbe colto con precisione il centro della crisi, indicandolo
nel « disordine delle essenze », ossia nello scambio di trono tra idea e atto compiuto in primo
luogo nell’ordine delle Essenze trinitarie – si veda per questo complesso discorso il mio Romano
Amerio. Della verità e dell’amore,
Marco Editore, Lungro (CS), 2005 – e poi a cascata in ogni territorio culturale, sociale e politico umano. E religioso.
Se ne accorse Augusto Del Noce, ma, come rilevava Sandro Magister, i cattolici (lui specificherebbe: « i gesuiti
») invece di apprezzare l’indicazione ameriana per spingersi avanti nella Tradizione, preferiscono inibirsi:
Del Noce non parlò con alcuno della sua importantissima scoperta su Amerio, e ora non lo fanno i gesuiti.
È nota poi la poco
benevola (e condivisibile) opinione di padre Mucci sulle Università pontificie, ma meritava fare una doverosa eccezione
per la figura di un altro filosofo di punta, da anni in campo alla Lateranense, Antonio Livi, l’acuto riscopritore della
nozione di sensus communis, riscopritore cioè di una delle poche, pochissime nozioni capaci di stramazzare sul nascere
il relativismo, di tagliare alle radici proprio la gran pianta che dà ricovero negli ultimi secoli a relativisti, agnostici,
scettici, liberali, che nel relativismo pensano di legalizzare i propri egoismi sotto parvenze filosofiche (e padre Mucci rileva
che Del Noce « aveva acutamente notato che lo stesso laicismo imperante era regredito dallo spirito illuministico, che
pure mirava a dare un senso razionale al mondo, verso lo spirito libertino », p. 105).
Ma, si diceva, l’errore
è ateoretico, è tutto fuori del ragionamento, e le parvenze filosofiche – in mano a chi è disposto
a ragionare mettendo da parte ogni considerazione estranea al ragionamento – prendono l’aspetto che hanno di parvenze,
di paralogismi (e l’Autore riporta in una nota il Bodei che osserva come « le filosofie italiane sono più
filosofie della ‘ragione impura’, che tiene conto dei condizionamenti, delle imperfezioni e delle possibilità
del mondo, che non della ragion pura rivolta alla conoscenza dell’assoluto », p. 93).
Dunque portare a conoscenza
dei « cattolici nella temperie del relativismo » l’arma teoretica assoluta rappresentata dal sensus communis
di Livi sarebbe stato oltremodo utile, utile come riesaminare il contenzioso con Amerio, giacché riconoscere nella sua
« dislocazone delle essenze » l’individuazione della causa prima di tutto il relativismo – con
filosofie annesse di ogni ordine e grado: dall’idealismo al marxismo – avrebbe messo meglio al riparo la Chiesa dalle
sue infiltrazioni e semmai anche spingerebbe a mettere i relativisti nella temperie dei cattolici e il sofisma nella temperie
della verità.
Ciononostante la vasta
ricognizione di padre Mucci si pone oggi come testo utilissimo di riferimento, e per edurne il lettore ne riportiamo volentieri
l’indice dei capitoli: Huizinga e il Vaticano II (« Il pragmatismo […], prostituendo la verità
all’appetizione e alla prassi, ha posto un irrazionalismo radicale a fondamento della vita e della filosofia »,
p. 23); La cultura della crisi (« Il concetto di cultura richiama quello di identità, il concetto di modernità
richiama quello di crisi », p. 34); La permanente influenza dell’illuminismo (« Forse soprattutto
dopo il 1989 […] si sono moltiplicati i segnali che additano nella cultura “dei lumi” la cultura dell’uomo
liberato dai miti del totalitarismo », p. 61); Cattolici e illuminismo; L’epoca del nichilismo; La cultura
del relativismo e la democrazia (« La democrazia moderna consiste [...] in un’anarchia degli spiriti sotto
la sovranità della legge », p. 173); Gli effetti della cultura dominante; Laicità e laicismo; Cultura
cristiana, intellettuali e intellettuali cattolici; La collaborazione tra laicisti è pericolosa per la Chiesa?
(« Società e cultura sembrano chiedere alla religione di assolvere a un compito che non le compete. L’etica
cristiana, [...] difficilmente può fare da puntello a una società e ad una cultura che non accettano la fede e sono
fondate su valori etici diversi », p. 334); Il rapporto tecnicareligione; Mito e pericolo della gnosi moderna
(« La gnosi moderna, che prescinde dai concetti e dalla realtà del peccato e della grazia e fa dipendere dall’uomo
la “salvezza” dell’uomo, riconduce all’errore pelagiano », p. 356); La mistica come crocevia
del postmoderno.
Come si vede, dopo Cartesio,
i “Lumi”, Lutero, Kant, Niettsche, Heidegger, Davidson, Vattimo, Habermas, e tutta la calca ateoretica che ne segue,
la ragione ha ancora parecchie frecce al suo arco e la corda dell’arco è ancora tesa.
(Pagina protetta dai diritti editoriali).
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