DIPENDENZA.
Per capire la cosa sarà meglio riferirsi al sillogismo
principe, cioè al sillogismo padre – per così dire – di tutti gli altri sillogismi. Esso è quel
ragionamento immediato con cui ogni uomo fin dalla prima e ancora tenera età della ragione – tenera ma pura, retta
e innocente – si riconosce dipendente. 1 [Ecco il motivo per cui
il Signore ammonisce: « Chi non si fa piccolo come questo bambino, non entrerà nel regno dei Cieli »
(Matth., XVIII, 4); e ancora: « Lasciate che i bambini vengano a me, e non impediteglielo, perché il regno
di Dio è proprio di costoro. Io vi dico in verità che chiunque non accoglie il regno di Dio con l’animo di
un fanciullo, non entrerà in esso » (Luc. XVIII, 16-17). L’animo del fanciullo è ragionevolmente
consapevole di essere assolutamente dipendente. Da qui la sua limpida fede: nel genitore, nel prossimo, in Dio.]
È quel ragionamento che lo unisce alla madre, al padre, ai fratelli, in un da, in un con, in un per,
cioè con un plesso di legami di relazione da cui sa di non poter nemmeno minimamente prescindere (e da cui fino alla perdita
della semplicità e purezza infantili in effetti non prescinde): il suo Io non è ancora costruito tanto da poter
aspirare all’usurpazione del trono su cui sta assisa l’umiltà.
Non formuliamo il principe
dei sillogismi: ogni uomo conosce il proprio cuore, sa dunque a cosa ci riferiamo. È sufficiente la sua conclusione: l’uomo
con esso si riconosce intrinsecamente dipendente, e con il proprio Io riconosce dipendente tutto il creato. Con questo
universale giudizio di dipendenza riconosce razionalmente l’esistenza del Creatore da cui provengono tutte le cose, e tutto
questo in conformità alla divina Scrittura, ovvero a ciò che il Signore stesso insegna attraverso i suoi oracoli:
« [A tutti gli uomini] è manifesto quel che si può conoscere di Dio; Dio stesso lo ha loro manifestato;
poiché le sue invisibili perfezioni si rendono visibili, comprendendosi dalle cose fatte, fin dalla creazione del mondo
» (Rom., I, 19-20).
Queste parole dell’Apostolo
– di Dio, e da lui consegnate all’Apostolo – non vanno solo riferite, come d’abitudine,
ai filosofi, ma estensivamente e con più grande pertinenza a tutti gli uomini, e io oserei dire a tutti i ragazzetti,
a tutti i pueri 2 [Che l’età della ragione sia comunemente
stabilita dopo i 5 anni ha almeno due argomenti a favore: la volontà di san Pio X che la santa Comunione fosse accordata
ai fanciulli a partire dai 5 anni; la beatificazione di Francisco e Jacinta Marto, i due pastorelli di Fatima di 7 e 9 anni. Entrambe
le cose possono essere infatti ratificate solo supponendo la ragione nei soggetti operante.] appena forniti del
lume della ragione naturale, possessori delle basi prefilosofiche appartenenti al sensus communis, capaci quindi di intuire
i princìpi primi (di identità e di non contraddizione) che contrassegnano le cose nella loro individualità,
di percepire il senso di sé (della propria realtà), dell’altro (simile a sé), del mondo (realtà
circostante), di una legge universale superiore a sé e agli altri, e della certezza della realtà della verità
così come della infallibilità della ragione nell’individuarla, 3 [Cfr.
ANTONIO LIVI, Dizionario storico della Filosofia, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2000, nella quale opera,
riferendosi l’Autore in generale al sensus communis « come “sistema organico di certezze universali
e necessarie’ », egli completa tale sistema di « un fondamento razionale della realtà in Dio,
prima Causa e ultimo fine » (voce senso comune).] come in sèguito vedremo. Capaci dunque di avvicinare
e distinguere, di addizionare e sottrarre le cose tra loro. Il più delle volte, come si sa, con perfetta immediatezza,
semplicità e purezza di cuore. 4 [Da qui il consiglio del Maestro: « Lasciate che i fanciulli vengano a me » (Loc. cit),
cioè lasciate che vengano a me i vostri cuori tornati con la grazia ‘fanciulli’: semplici, innocenti
e puri. ]
Romano Amerio, dopo
analoghe considerazioni, conclude – proprio in via di questo particolare sillogismo che porta al riconoscimento della dipendenza
– che la religione, se riconosciuta legata a ciò che egli chiama una « tensione innata » dell’uomo
al bene e al vero, è giudizio così intrinseco e intimo all’uomo da essergli quasi connaturato,
turbato poi solo dalle conseguenze nefaste del peccato originale dei progenitori, per cui ciò che prima sarebbe risultato
un giudizio certo, inerrante e fermo, dopo il peccato viene messo a repentaglio e reso incerto – appunto – dalle passioni,
dalle circostanze, dai moti più disordinati dati dalle mode o dai vagheggiamenti di potenza, e persino dai moti dell’amicizia
che prendono il sopravvento sui giudizii di verità, eccetera. Ma il primo giudizio, per il filosofo, è un giudizio
quasi ‘di natura’.
LA
PUNTA.
Per precisare meglio il pensiero di Amerio sul fondamentale riconoscimento razionale della propria dipendenza
da parte dell’uomo, dovuto al principe dei sillogismi, va detto che per il filosofo, ravvisata la tensione dell’intelletto
al vero e al bene come proprietà connaturata al pari della luce, che del vero e del bene mostrano l’evidenza (in
conformità agli insegnamenti della Scuola), non si può non concludere che per l’uomo tutto ciò che
gli è proprio, connaturato e innato gli è prima, gli è precedente, ovvero è prima e
precedente a qualsiasi sua formulazione sillogistica e razionale, a qualsiasi suo atto da uomo; se dunque ciò che gli è
precedente e che lo conforma è una tensione al bene e al vero non costruita da sé con il proprio raziocinio, tale
tensione deve essere riconosciuta scaturita da qualcosa che è prima della natura, cioè da un essere Fattore della
natura: la sua Causa.
Siamo con ciò tornati
al sillogismo. (A meno di cadere nel materialismo, per il quale la natura sarebbe madre a se stessa. Ma ciò è impossibile,
perché si darebbero alla natura gli attributi di aseità di Dio, che evidentemente non ha, non essendo sussistente
per se stessa.)
Per cui, se la luce,
come visto, è quell’elemento intellettivo grazie al quale nella ragione si possono avere le evidenze –
di quanto i fantasmi costruiti nella mente con l’apporto dei sensi collimino alle realtà oggettive che i sensi hanno
captato –, la tensione è l’elemento intrinseco movente il mobile della ragione (la ragione non è
mai ferma) a compiere l’operazione di raziocinio, di confronto, per cavarne i princìpi universali e concludere al
giudizio: un itinerario, questo, che si può solo adombrare, sulla scorta della consapevolezza che l’uomo all’uomo
è e rimane misterioso proprio perché non è egli Dio.
Un particolare rilievo
va dato alla relazione tra tensione, luce e acume intellettuale. « La capacità intellettiva
della creatura – dice san Tommaso – è detta luce intellettuale, come derivazione dalla Prima Luce; sia
che si tratti della capacità naturale; sia che si tratti di una perfezione sopraggiunta nell’ordine della grazia
[ancora sulla terra] o della gloria [in Paradiso] » 5 [TOMMASO
D'AQUINO, Summa Theol:, I, q. 12, a. 2]. Appena prima, stabilendo un grado di partecipazione e di somiglianza tra
l’essenza di Dio e l’intelligenza umana, l’Angelico chiama questa capacità intellettiva « acume
intellettuale ». Ma acume (acutezza, perspicacia) significa una qualche pungente sagacia, e implica un’azione
perforativa. Difatti Amerio, su questo punto, notava che mente acuta si oppone a mente ottusa in quanto, per via
della ben diversa capacità di penetrazione dei due diversi angoli, la prima trapassa il piano del generico e giunge
a individuare lo specifico, e successivamente da questo passa all’individuato; la seconda invece, incapace
di perforazione, resta nel generico, cioè a dire nel confuso, nel relativo, nell’indefinito.
Dunque ad acume
va relata immediatamente una nozione di atto - l’atto intellettivo -, una nozione tensiva, una nozione dinamica, cioè
la tensione di cui parliamo. E così a luce: il lume svela, chiarisce, colora, individua ciò che nell’ombra
è confuso e indeterminato. Questo per dire che quella dell’intelletto è una capacità semovente, viva,
e che la nostra camera per sillogizzare è una spirituale macchina sempre e naturalmente in moto sia in quanto lume
che in quanto tensione. Ora, il moto di una cosa conduce la cosa da un punto a un altro. Ed è appunto ciò
che fa l’intelletto umano: esso – anima dell’uomo, suo cuore – muove l’uomo dalla carne e dal mondo
allo spirito e a Dio.
ADAMO.
Bisognerebbe a questo punto studiare – in antropologia naturale – ciò che avviene nel cuore dell’uomo.
Aveva il giovane Adamo
il cuore puro? Indubbiamente sì. Egli avrebbe dovuto compiere un semplice e retto percorso intellettuale con il suo cuore,
padrona come era la sua ragione innocens delle sottostanti potenze di carne e di natura sia interne quali il proprio Io,
la propria unicità di intelligenza, di virtù e di bellezza, che esterne, quali la potenza di seduzione del serpente,
la retorica delle sue formulazioni concilianti e verosimili, la potenza del divieto di Dio, cioè della legge, che nella
prospettiva divina legava positivamente la ragione dell’uomo al suo libero consenso, ma nella prospettiva suggerita dal
demonio diveniva piuttosto un ostacolo gratuito, sfacciato e ingiusto cui si imponeva la ribellione. 6
[Da notare che Adamo, modello di tutti i peccatori per bene, non configurò il proprio agire come ribellione,
ma nascose a se stesso la disobbedienza dietro la considerazione della bellezza del frutto, ingigantì cioè la convenienza
del piacere e sminuì l’inconvenienza della rottura dell’unità con Dio dovuta alla disobbedienza. Il
morso della coscienza viene messo a tacere dal bavaglio del deprezzamento e della irrilevanza che volutamente si decide di dare
alla cosa. ]
Orgoglio, ira, senso,
erano nel primo uomo, per grazia divina, tutte potenze ben sottoposte all’intelletto, e in tal modo mantenevano bene la
loro ragione di essere: persino l’orgoglio, se ristretto per così dire alla semplice e retta coscienza di sé,
dei proprii limiti e dei proprii valori di figlio di Dio, riconduce l’uomo all’umiltà, 7
[Alcune parole del Magnificat, « Ecce enim ex hoc beàtam me dicent omnes generatiònes.
Quia fecit mihi magna, qui potens est », (“D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi
cose ha fatto in me l’Onnipotente”, Luc., I, 46-47), risultano anche più splendenti se considerate anche
sotto questa luce. ] e anche alla consapevolezza fiduciosa della propria dignità e della propria capacità;
in ciò esso rientra nella virtù di fortezza e anzi si può dire che di questa ne costituisca il momento fondamentale
(anche se gli soggiace sempre un fondo d’ambiguità), 8 [Cfr. Enciclopedia
Filosofica, Sansoni, Firenze 1967, v. Orgoglio.] per cui l’uomo può compiere atti di santo eroismo
o di magnanimità verso il prossimo, 9 [TOMMASO D’AQUINO, Summa
Theol., II-II, q. 128. ] e, nel caso di Adamo, di fiera ed eroica resistenza al sopruso retorico del demonio.
Così pure per l’ira,
che, se ristretta alla giusta vendetta per un torto (p. es. nel caso del Cristo che vendica il torto subìto dal Padre dal
commercio nel Tempio), è zelo temperato dalla mansuetudine. E il senso, ristretto nei limiti del santo matrimonio, assolve
alla funzione di rendere meno acerbo e doloroso, dopo la cacciata dal Giardino, l’atto procreativo. E altre cose ancora
che esulano dal nostro discorso.
Dunque qui si può
vedere che gli affecta, tutta cioè quella congerie di elementi posti nella mente e nella natura dell’uomo
a sostegno della ragione, se utilizzati secondo natura sarebbero a lui decisamente confacenti, sarebbero del tutto adatti a fargli
compiere quel percorso di trascendenza capace di portare un “animale di natura razionale” (Boezio) a Dio.
Alla ragione del giovane
Adamo fu però presente attraverso i sensi la visione di indipendenza figuratagli dal serpente. Questa visione,
allestita dalle potenze della sua fantasia sotto le indicazioni pervenutegli dall’oratoria sensuale e ondulata – non
retta – del nemico, che per l’appunto mirava a far emergere in lui quelle potenze inferiori già gonfie
nell’angelo decaduto, avrebbe potuto e dovuto svanire nel nulla così come era nata, nel confronto persuasivo
con la visione di retta e perfetta potenza fornitagli precedentemente da Dio, che gli aveva parlato nel Giardino.
Non c’era niente,
in realtà, che potesse ragionevolmente sovvertire l’ordine delle cose riconosciuto realisticamente come vero dalla
sua ragione, condotta com’era essa fino ad allora dal sillogismo primordiale di dipendenza, cioè di religione.
Ma a questo adeguamento
immediato dell’intelletto alla cosa 10 [Ibidem, I, q. 16, a. 1.]
subentra invece la fantasia di onnipotenza (anzi il delirio, essendo fantasia irragionevole, delirante),
la visione di indipendenza, irreale e soggettiva, che porta Adamo, suggestionato, a rivedere i propri savii ragionamenti e a correggerli
maggiorandoli nella visione trasognante, cioè a sofisticarli.
È importante qui
notare che Adamo, come tutti gli uomini, quando pensa qualcosa pensa relazioni di copula: « Tutti gli uomini SONO
mortali »; « Socrate È un uomo »; pensa cioè all’essere
in atto di un ente, il che ci conduce diritti al Nome sacro di Dio, il Nome che Egli è e che Egli stesso di sé
ha detto: « Io sono colui che sono » (Exod., III, 14) quasi intraducibile, a ben vedere, perché
nemmeno con l’analogia linguistica si può tradurre nel tempo una nozione squisitamente eternale. La copula esprime
fondamentalmente l’esistenza, e il fatto che il sillogismo operi copulando. cioè declinando l’essere, significa
fondamentalmente che l’operazione di ragione che è il raziocinio, l’apprensione delle cose, la conoscenza del
reale, si attua per via dell’essere reale delle cose.
Dunque Adamo, attraverso
il sillogismo, pensa dei verbi, i quali verbi (umani) non sono che vestigia del Verbum divino da analogare a lui,
essendo sua semenza. Ciò vuol dire che il pensiero, fondato com’è sul verbo dell’essere, è per
natura realistico: se attraverso il verbo essere formula se stesso attraverso la formulazione copulativa, riconosce e anzi
dice essenzialmente la realtà dell’essere delle cose. Tutto questo, però, non per il fatto che Verbum
è un verbo, pura vacuità nozionale se non si appoggiasse a un fondamento vitale – come vedremo alla fine –,
ma essendo piuttosto, come è, il nome di una divina Persona.
I relativisti ci dovrebbero
pensare su.
IMAGO.
Ora, come si sa, il Figlio di Dio non ha solo un nome proprio, ma due: non solo Verbum, ma anche Imago, perché
la nozione data dal verbo è rappresentata, e il Figlio è il Pensiero del Padre e la sua Rappresentazione.
« Splendore della gloria del Padre », « Immagine della sostanza divina », « Immagine
del Dio invisibile », « Esemplare dei risorti »: queste sono solo alcune delle definizioni che dà
a Cristo san Paolo (il Logos attraverso san Paolo) in riferimento al suo secondo nome, Imago.
Da esse si capisce che,
in quanto alla purezza, il ragionamento puro (verbo) dev’essere nell’uomo conforme al Verbo purissimo divino tanto
nelle nozioni quanto nelle immagini, tanto nel concetto quanto nell’espressione in cui il concetto appare.
Dunque Adamo – e
con lui tutti gli uomini – pensa per l’appunto attraverso immagini, perché, come dice l’Angelico,
« i concetti intellettivi sono immagini o somiglianze delle cose », 11 [Ibidem,
I, q. 13, a. 1.] e per far questo usa appunto la fantasia, la quale gli rappresenta i concetti – anche i più
astratti e universali – attraverso imagines, e da queste proviene il linguaggio, anzi, di queste è fatto
il linguaggio: il linguaggio è metafora del reale, e l’insieme linguistico anche più sofisticato è
un insieme metaforico appreso dall’uomo dal mondo del reale attraverso i propri sensi, nell’elaborazione fantasmatica
dell’intelletto. Ogni parola è una imago, un’immagine, e naturalmente ogni lettera e parte del discorso,
come tutto l’insieme di un discorso, è una immagine. A ogni verbo (nozione, definizione, concetto) corrisponde
un’immagine (faccia, rappresentazione, specie). Migliaia, milioni di verbi, di sillogismi, di costruzioni mentali
(costruzioni, appunto: siamo sempre nel metaforico, poiché noi intendiamo per immagini, per metafora), cui corrispondono
migliaia, milioni di immagini, dalla cui unione, non per niente, si evince se un discorso è bello o brutto, oltre che giusto
o errato. La pulchritudo va di passo pari alla veritas (e all’unitas, al bonum, ecc.). [Vedi,
in Hortus conclusus, ANALOGIE TRA BELLEZZA
E VERITÀ IN SAN TOMMASO.]
Questa metaforicità
intrinseca del linguaggio, per la quale i verbi sono sempre rappresentati, si può riscontrare facilmente anche solo
analizzando questo stesso discorso.
Quando dunque ad Adamo
parla Dio, Adamo compie un’elaborazione mentale per immagini delle parole di Dio; con la propria fantasia, seguendo le indicazioni
divine raccolte dai sensi, costruisce una visione di sé, del mondo e di Dio, ragionevole, cioè seguente la
ragione: quella visione o fantasia elaborata corrisponde alla realtà (anche e prima di tutto spirituale)
perché la ragione, avvicinando la visione costruita sotto l’influsso di quelle parole alla visione della realtà
oggettiva compiuta da Adamo precedentemente, vede nel raziocinio del confronto compiuto svolgersi una perfetta eguaglianza.
SENSUS
COMMUNIS.
La visione primigenia compiuta da Adamo prende forma nella più perfetta e felice purezza di cuore:
la sua innocenza gli permette di governare i sensi, gli istinti, le passioni, il proprio stesso Io, in serenità e pace,
cioè nello stato d’animo sorridente e positivamente realista che dicevo all’inizio essere l’animus
tipico dell’uomo che riconosce come bene (quindi con piacere) la propria intima dipendenza: per un solo uomo
non si può ancora parlare ovviamente di sensus communis, ma, se con ciò si intende come Livi nei suoi studi
12 [ANTONIO LIVI, Dizionario storico… cit., v. senso comune.]
intende: « un sistema organico di certezze universali e necessarie [universali infatti lo sono in potenza,
nei lombi di Adamo, giacché nessuno può sottrarsi in buona fede a certezze necessarie] », ebbene: Adamo
era a tutti i titoli possessore di quel sensus communis che lo rendeva consapevole di sé e della realtà.
Quando poi ad Adamo parla
il serpente, egli non era affatto impreparato a lacci e tranelli. Alcuni, infatti, pensano che la sua innocenza lo esponesse alla
malizia altrui senza alcuna difesa, ma sbagliano: l’innocenza – e ciò è provato per l’appunto
dai bambini, che a volte anche con brutalità dicono agli uomini adulti l’errore, il falso, proprio in virtù
della loro innocenza; a maggior ragione Adamo, ancora senza peccato –, l’innocenza, dunque, non toglie armi per
difendersi da chi come il diavolo è fuori della realtà, ma è la migliore arma verso di lui proprio quanto
la realtà è la migliore arma sull’irrealtà, la verità sull’errore, la logica aletica sul
sofisma. Innocente non è ignorante: senza colpa, ma non senza scienza: Adamo era innocens et sapiens.
Invece il sofisma del serpente
penetra nel cuore di Adamo – fino ad allora puro – nel momento che Adamo inizia a paragonare la visione che di sé
gli deriva dal sensus communis delle certezze necessarie su cui aveva precedentemente ragionato, la visione per la quale
egli si riconosceva felicemente dipendente e padrone di tutto tranne che di una cosa, alla visione in cui egli si vede
ancor più felice a causa del possesso anche di quella cosa. L’avidità punge l’orgoglio del giovane
Adamo a considerare la propria condizione come mancante, incompleta, dunque infelice; sicché opta per abbracciare la condizione
proposta dal serpente anche se tale condizione è solo ipotetica, non reale: egli sceglie un’ipotesi tutta da verificare
a una realtà già verificata. Questo dimostra quanto la sfiducia nella Provvidenza divina sia strettamente
legata al realismo: spesso la suggestione di qualcosa che non c’è (il possibile) è preponderante sulla
visione realistica di ciò che è (l’esistente). A ben pensarci, tutti i peccati si possono ricondurre
a questo insano e del tutto sragionevole irrealismo.
Con ciò forse si
può dare una PRIMA RISPOSTA alla domanda che ci siamo fatti: filosoficamente parlando,
la purezza di cuore si distingue dall’impurità tanto quanto la ragione dell’essere si distanzia dalla fantasia
dell’ipotetico, la considerazione e l’approvazione della realtà oggettiva dal rifiuto e dalla disapprovazione
della soggettiva immaginazione. Infatti « l’intelligenza è costretta all’assenso dalla realtà
intelligibile », 13 [TOMMASO D’AQUINO, De Ver., q. 28,
a. a. 3, ad 6.] e, discostandosi dall’assenso (per assecondare una suggestione ipotetica e soggettiva), non coglie
la realtà, ma se ne svia, erra e pecca.
VOLONTÀ.
Va ora osservato un altro aspetto, nel quale si può considerare meglio l’intreccio tra affecta e ratio,
intreccio che avevamo appena intravisto ma poi, notando che l’ateoreticità dell’errore richiedeva agli affecta
carnali di restare fuori dalla stanza intellettiva tutta spirituale del raziocinio, si poteva concludere che con tale divisione
(e subordinazione) il discorso fosse esaurito: quando gli affecta entrano nel cuore del ragionamento questo cuore si macchia.
E abbiamo visto che gli affecta entrano attraverso le immagini del possibile, che vengono preferite – nella sovrapposizione
compiuta dalla mente con il raziocinio – a quelle date dalla realtà, precedentemente dalla mente registrate e poi
scartate.
L’intreccio che stiamo
riguardando tra spirito e carne va ora chiarito sotto il profilo della volontà, in particolare di quanto la volontà
intervenga prima, durante e dopo il lavoro sillogistico per conoscere la verità. Infatti, come abbiamo visto, il pensiero
non è assolutamente qualcosa di fisso, ma di mobile – abbiamo visto che anche san Tommaso lo chiama mobile
– non perché incerto, ma perché in moto da una conoscienza evidente a una conoscenza da apprendere sulla base
di eguaglianze certe. Un mobile è mosso da qualcosa che sempre è fuori di esso, tranne nel caso di Dio, atto puro.
La conoscenza, con la quale si intendono le cose, è mossa dall’intenzione.
La retta (o storta) intenzione
è previa a qualsiasi ragionamento: l’uomo conosce qualcosa nella prospettiva data dall’intenzione, e,
previamente, dalla disposizione a conoscere la cosa, cioè a dire dell’atteggiamento per il quale è
predisposto a conoscerla. È ciò che comunemente si chiama ‘buona volontà’, cioè la cosa
che fa buono un uomo: un uomo non è buono per la buona intelligenza, ma per la buona volontà. 14 [TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., I, q. 5, a. 4, ad 3.]
La buona volontà
a conoscere qualcosa è data dalla disposizione di conoscerla per se stessa, cioè perché la cosa merita di
essere conosciuta. Come Dio, che va conosciuto di per sé – e non per il bene umano, che è fine secondo
– come dice la Scrittura, 15 [Prov., XVI, 4: « Il Signore
ha fatto tutte le cose per se stesso ».] cioè senza ciò che viene comunemente chiamato secondo
fine: avidità, convenienza, compiacimento della stessa conoscenza (ancora avidità), paura, e altre cose del
genere.
Dunque sembrerebbe che,
attribuendo la bontà o la malizia dell’atto all’intenzione che muove l’atto stesso, la volontà
preceda l’intelletto. Ma non è così: qual è il criterio infatti per cui si ha bontà o malizia
d’intenzione? Il criterio deve precedere la cosa posta sotto il suo giudizio, e qui il criterio è la conformità
o meno del fine posto dall’intenzione umana « all’oggetto della volontà divina », 16
[TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., I-II, q. 19, a. 10.] alla legge divina, conformità
(conformità: confronto di due forme, cioè ancora un sillogismo) che si valuta non con la volontà,
ma, appunto, con l’intelletto.
Dunque l’intelletto,
in quanto soppesamento previo di due finalità tra loro, cui seguirà l’operazione intellettiva vera e propria
di ognuno dei milioni di giudizii compiuti da un uomo, muove la volontà intenzionale nella purezza d’intenti
o nell’impurità, avendo purezza laddove il fine umano coincide con il divino, impurità dove diverge. La volontà
intenzionale poi, retta o impura che sia, a sua volta determina il ragionamento, l’atto intellettivo.
Quanti sono gli uomini
che, apprestandosi ad ascoltare un interlocutore, che sia la moglie (il marito), un figlio, un oratore pubblico, il confessore,
inarcano un sopracciglio con previa diffidenza, o guardano di sbieco con malanimo, o si irrigidiscono alteri? Le espressioni visive
sono esterni riflessi (immagini) di interiori sillogismi, di ragionamenti: “Costui vuole parlarmi; so che le sue
parole mi umilieranno; non ascolterò le sue parole”.
VERBO
D’AMORE.
Ma, per spingere fino in fondo la nostra ricerca: cos’è la legge divina universale, cui
si deve adeguare l’intenzione previa a ogni sillogismo compiuto da ciascun uomo sulla terra, se non il fine di « amare
e servire Dio » con lo stesso Amore divino che Egli elargisce e con il quale ha creato l’universo, Amore proferito
non da altri che dal Figlio, il Verbum e l’Imago d’Amore di cui parlavo all’inizio?
La partecipazione
(communicatio, societas Personæ) in Dio, determina la partecipazione nell’uomo: è l’elemento
determinativo di ogni suo atto, ovvero – prima di tutto – di ogni suo giudizio.
In altri termini: ogni
verbo, ogni parola proferita dall’uomo, ogni suo aggrottare di sopracciglia è soppesato dalla caritas di partecipazione
oblativa, offerente. La caritas è però proferibile unicamente dal Verbum (e difatti il Paraclito è
stato rivelato e portato sulla terra dal Figlio: Filioque procedit); dunque il Verbum d’Amore, il Figlio,
presiede a ogni giudizio umano.
Nasce qui un problema:
avendo notato che la bontà è misurata sulla volontà (cioè sull’amore), e non già sull’intelletto,
perché strenuamente pretendere il primato dell’intelletto sull’amore? Infatti gli intelligentissimi diavoli
mai saranno santi, ma anche i più semplici degli uomini, e gli ultimi di essi, saranno in santità anche superiori
ai più grandi teologi.
Bisogna dunque chiarire
bene il plesso di biunivoca relazione che lega l’intelletto alla volontà, rispettando la chiave di volta che è,
sopra e per ogni cosa, il Verbum divino. Ed è stato già visto come ciò si svolga riguardo
all’intenzione. L’amore oblativo e offerente di sé è abito dispositivo a ogni intellezione, ma
se non si conosce l’amore cui ogni pensiero è finalizzato, se non si conosce in cosa si specifica il fine
cui indirizzare l’intenzione (tensione tra la causa efficiente posta nell’intelletto umano e l’ordinamento
universale che gli sta sopra), come potrà la volontà indirizzarsi e far operare l’intelletto?
San Tommaso allora distingue:
il moto può essere effetto di una causa in due maniere. « Primo – dice – sotto l’aspetto
di fine [causa finale], come quando si dice che il fine muove la causa efficiente, e in questo modo è l’intelletto
a muovere la volontà; perché il bene intellettualmente conosciuto è oggetto della volontà e la muove
come fine », 17 [Ibidem, I, q. 82, a. 4: Se la volontà
muova l’intelletto.] e il fine è conosciuto velatamente e in qualche modo alla luce del lume della
legge naturale già visto.
Essa, iscritta innatamente
nel cuore dell’uomo, gli dà una « conoscenza generica » 18 [Ibidem,
I, q. 113, a. 1, ad 1.] del bene, anche se non poi adeguata all’applicazione del diritto ai singoli casi –
per via dell’inclinazione post culpa alle passioni. Essa è però sufficiente a causare in lui quell’interna
tensione cui si riferisce Amerio e a indirizzare la mente dell’uomo alla conoscenza del vero e del bene.
La luce naturale
dell’intelletto poi, alla chiarezza della quale leggiamo la legge naturale, la quale a sua volta ci partecipa alla
legge eterna, viene rafforzata dalla grazia divina. 19 [Ibidem,
I, q. 12, a. 13: « La conoscenza che abbiamo per ragione naturale richiede due cose: cioè dei fantasmi [o
immagini], che ci vengono dalle cose sensibili, e il lume naturale dell’intelligenza, in forza del quale astraiamo dai
fantasmi concezioni intelligibili. Ora, quanto all’una e all’altra cosa, la nostra conoscenza umana è aiutata
dalla rivelazione della grazia. Infatti: il lume naturale dell’intelletto viene rinvigorito dall’infusione del lume
della grazia ».]
In secondo luogo, il moto
può essere effetto di una causa in quanto causa agente, « come l’elemento alterante muove quello
che viene alterato, e ciò che spinge muove la cosa sospinta. In questo modo la volontà muove l’intelletto
e tutte le potenze dell’anima ». 20 [Ibidem, I, q. 82,
a. 4, art.sopra richiamato.]
« Ora –
nota qui san Tommaso – oggetto del volere sono il bene e il fine nella loro universalità. Invece ogni altra potenza
[dell’uomo] è ordinata a un bene particolare ad essa proporzionato; la vista, p. es., è ordinata a percepire
il colore, e l’intelletto a conoscere il vero. Perciò la volontà muove, come causa agente, tutte le potenze
dell’anima verso i loro atti, meno che le potenze organiche della vita vegetativa, le quali non sottostanno al nostro arbitrio
».
Nel caso di Adamo, egli
21 [Il serpente, come sappiamo, si rivolse in realtà a Eva, ma, come anche
i Padri, qui si sintetizza l’azione tra i due interlocutori – il serpente e l’uomo – sapendo che Eva avrebbe
dovuto ricorrere ad Adamo, non distante, e inoltre la stessa Eva, quando a sua volta porse il frutto al compagno, parlava ‘in
persona diabuli’, avendo fatto proprio il falso ragionamento del serpente. ] avrebbe dovuto alzare il sopracciglio
per mettersi piuttosto sulla difensiva giacché, all’ingresso del serpente nel Giardino, avrebbe dovuto compiere una
prima considerazione: “Le creature di Dio ascoltano in primo luogo le parole di Dio; io sono una creatura di Dio; dunque
io ascolterò in primo luogo le sue parole”. Oppure una seconda: “L’amore che detta a Dio le cose che
posso e che non posso fare è immenso; nessuno può avere un amore più grande di quello; nessuno dunque può
dettare a me delle parole diverse (migliori) da quelle”. E tanti altri ragionamenti simili.
Che intenzione doveva avere
Adamo nell’ascoltare il serpente? Se la sua intenzione – posto che nemmeno avrebbe dovuto ascoltarlo – fosse
stata stretta al ragionamento, egli avrebbe vinto il demonio per via dell’aiuto che il retto ragionamento riceve sempre
dal Signore con la grazia: la retta intenzione avrebbe condotto il ragionamento di Adamo a far emergere le falsificazioni compiute
nella retorica del diavolo, avrebbe illuminato i punti ambigui e quelli in contraddizione con le parole di Dio (laddove invece
il demonio giurava identità), e avrebbe messo in fuga l’interlocutore glorificando Dio.
L’intenzione è
retta quando è pura, ed è pura unicamente quando è tutta e solo dedita al buono svolgimento del ragionamento
stesso. Se l’intenzione ha – come si dice – dei secondi fini, questi secondi fini la infirmano nella sua purezza
e con essa infirmano tutto il ragionamento: tolgono al ragionamento la sua purezza di teoria, da cui si dice essere l’errore
ateoretico, estraneo alla teoresi.
Amerio, al proposito, scrive:
« L’intelletto essendo, nell’uomo, concreto con qualcosa che è altro dall’intelletto pur essendo
dell’uomo, deve esercitarsi dipendentemente dal vero e indipendentemente da ogni abito o propensione o affezione non ragionata
»; 22 [ROMANO AMERIO, Introduzione alle Osservazioni sulla Morale cattolica
di Alessandro Manzoni: Testo critico con introduzione, apparato, commento, appendice di frammenti e indici, accompagnato da uno
studio delle dottrine, 3 volumi, Riccardo Ricciardi Editore, Milano – Napoli, 1966, Vol. III, Studio delle dottrine,
§ 3, Nozione di filosofia, p. 52-53.] « L’intelletto deve stare “in proposito” e
sempre attendere esclusivamente alle ragioni, fuor delle opportunità della vita, fuor del soggettivo che è contraddittorio
e cangiante ». 23 [Ibidem.] E Manzoni, sulle cui Osservazioni
alla morale cattolica Amerio aveva a lungo lavorato, sintetizza: « Il principio generale dell’errore è
la volontà, o meglio la passione, e quanto più volontà e passione dell’uomo sono interessate nelle
idee, su cui deve l’uomo portar giudizio, tanto più pericola di andar viziato il giudizio ». 24 [Ibidem, § 16, Teoria dell’errore, p. 126.]
Che espressione nacque
dunque sul viso di Adamo quando gli parlò il diavolo sotto mentite spoglie, stando che fino ad allora il giubilo, la serenità,
la stupefazione e il senso d’adorazione non avevano certo potuto lasciare il suo cuore nemmeno per un istante?
Infatti, nella visione
realista Adamo, nell’adesione a se stesso e alla realtà, provava la nobiltà dell’umiltà non perché
si sentiva re ma perché, nel riconoscersi suddito, era consapevole di aderire alla verità delle cose
e, in questo, di fare la verità. Ora, chi fa qualcosa liberamente, ossia da se stesso volendo la volontà
di Dio, è re secondo quella Scrittura che dice: « Ci ha fatti un popolo di re » (Apoc. I, 6).
Nell’adesione a Dio,
che era di amore, di gratitudine, di meraviglia e di adorazione, il giovane Adamo provava piacere, come prova piacere chiunque
compie il proprio dovere più umile, essendo il piacere la promessa stessa ultima di Dio: piacere spirituale, che con termini
più idonei e scolastici diremmo beatitudine, delizia, letizia, ma che altrimenti si dice anche godimento, come sanno bene
gli estatici che sanno anteporre nel Cantico la realtà spirituale alle figure sponsali.
Che superiore piacere poteva
Adamo immaginare di avere di quello dato da Dio? Eppure la fantasia ipotetica riuscì a proporgli una maggiorazione
di piacere persino superiore a quello già infinito che provava nell’ascoltare e nell’obbedire a Dio stesso.
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