Nel Discorso che Papa Benedetto XVI rivolse agli artisti da lui riuniti nella Cappella Sistina il 21 novembre scorso l’augusto Autore cita più volte il Suo predecessore Paolo VI, in particolare con queste parole: «E se Noi mancassimo del vostro ausilio [artistico], il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte».
Nell’occasione Benedetto XVI non mancò di far rilevare «l’arditezza» dell’espressione: in effetti, «far coincidere il sacerdozio con l’arte» – come mai prima di Papa Ratzinger nessuno lo rilevò? – è pensiero su cui bisognerebbe fare, più che una riflessione, un libro. Ma quel libro c’è, quasi mi dispiace ammetterlo, mi pare quasi una colpa, ed è in libreria: due anni fa, per offrire agli studenti che seguivano il Corso di Filosofia della Conoscenza, sezione Conoscenza estetica, tenuto dal Decano della Facoltà di Filosofia mons. Antonio Livi alla Lateranense, uno strumento meno volatile di una dispensa, pubblicai da Fede & Cultura Ingresso
alla Bellezza. Fondamenti a un’Estetica trinitaria, con speciale Introduzione di Elio Franzini, Preside di Filosofia alla Statale di Milano, dimostrando che, nel più rigoroso tomismo, la Liturgia è la vera Madre dell’Arte e Cristo è il vero Apollo Musagete atteso dai Greci.
Ma l’arditezza resta. Anzi: è un’arditezza che a sua volta genera ulteriore ardimento: quello di scavare, approfittando dell’occasione, nel fecondo terreno dell’espressione di Paolo VI (poi vedremo perché richiamata proprio oggi dal Papa professore), ossia di adombrare una coincidenza tra ministero e arte, tra sacramento e linguaggio, e scoprire che la cosa poi non è così fuori del plausibile se solo si riflette che più di seicento anni fa due Dottori della Chiesa, san Tommaso e l’amico san Bonaventura, avevano per strade diverse riconosciuto nell’Unigenito di Dio un fatto importantissimo, anche se poi (fino a quel mio libro appunto) quasi sotterrato (quasi, giacché von Balthasar ne accenna in una sua opera, Teologica, vol. II. Verità di Dio, Jaca Book, limitandosi però in pratica alla segnalazione della sua presenza nel Dottore francescano).
Essi avevano riconosciuto che l’Unigenito non poteva venir chiamato, per così dire, solo col sacro nome cui tutti siamo abituati: Logos, o Verbum, che sta per Pensiero, Notizia, Idea (si intende, del Padre), che è, come rilevava san Giovanni Damasceno, il nome con cui desiniamo «quel moto naturale della mente per il quale essa è in atto, pensa e intende», ma andava designato e chiamato con quattro nomi, e di pari importanza, ossia, oltre a Logos, con Imago, Splendor e Filius, giacché quel moto è luce, dunque Splendor; poi riflette, e pienamente, la mente che lo pensa, dunque Imago, o Volto, o Specchio; infine è moto di generazione, dunque è Filius, Figlio.
Tra il 2008 e il 2009 l’Osservatore Romano pubblicò poi quattro miei saggi (“l'architettura del bello e del vero”, “una tela appoggiata ai vangeli”, “quella volta radiosa che esprime l’incontro tra terra e cielo” e “splendore e mistero di un sorriso”) che illustravano largamente le prime e più immediate sfaccettature conseguite al ritrovamento dei quattro nomi dovuti a tale divino moto generato dalla mente del Padre, saggi che portano, in particolare, proprio a individuare nella «coincidenza tra sacerdozio e arte», ossia tra Liturgia e Linguaggio, il momento alto, la sublime vetta del tocco tra Logos e Imago, dell’inclito incontro cioè tra Verità e Bellezza.
Arditezza per arditezza, l’origine di tutto ciò che avviene di vero e di bello (e di buono) sulla terra è posto nella Trinità, e se nella Trinità Verità e Bellezza sono strette dal vincolo di Logos e Imago, lo saranno, lo dovranno essere, anche sulla terra.
Se il Logos del Padre si è incarnato, è proprio e solo perché il Logos è anche l’Imago del Padre: se non fosse anche Imago, sua Immagine e Volto, sarebbe rimasto una vuota astrazione alla Hegel (che non aveva voluto studiare la Rivelazione in san Tommaso e in san Bonaventura), senza alcuna Incarnazione; ma il Logos è un Pensiero preciso: è il Pensiero del Volto del Padre, che è l’Essere, dunque il Logos è il pensiero che illustra l’Essere; ed è solo in virtù del nome Imago che Dio crea l’uomo a sua immagine: a immagine dell’Immagine dell’Essere, ed è poi per la stessa virtù che si incarna Egli stesso in questa sua (bella) immagine, per redimerla, una volta che da sé si era abbruttita: ricostruirle le perse fattezze e regalarle in sovrappiù addirittura la sua propria divina Immagine, «veste bianca», solo con la quale essa potrà entrare, quasi fosse Lui, quasi si celasse, piccola, nella sua paterna Immagine, nell’eternità.
Cristo, incarnazione del Logos in virtù dell’Imago, è la nozione di sacerdozio e quindi di liturgia dal lato del Logos ed è la figura del sacerdozio e quindi della liturgia dal lato dell’Imago.
Cristo incarna in sé entrambi gli ambiti: sia tutta la sacerdotalità della liturgia, sia tutta l’arte, di tutte le Muse, nata in primo luogo per illustrare al meglio l’Invisibile della liturgia.
In tal modo «l’arditezza» congetturata in un bell’impeto lirico da Papa Paolo VI è posta sotto la protezione dottrinale di due Dottori della Chiesa di prima grandezza. Ciò non solo non toglie niente alla forza dello slancio, ma esplicita un fondamento veritativo che consolida la sua piena ragionevolezza, per cui, se davvero vogliamo proporci di non disgiungere neanche per un attimo i due grandi regni di «sacerdozio e arte», ossia di liturgia e architettura in cui si svolge la liturgia; di liturgia e affreschi che illustrano le figure invisibili ma reali presenti nella liturgia; di liturgia e musica che alza nel canto la liturgia, facciamo non bene, ma benissimo: teniamo legati due aspetti della religione irriducibilmente stretti tra loro in un legame che più saldo e inscindibile non si può, perché in Cristo sono riassunte le due potenze di Logos e di Imago del Logos, sono fusi il Pensiero e il Volto del Pensiero, il Verbo e l’Arte del Verbo, la Notizia e la Pittura della Notizia, le Scritture e le sacre Immagini (e le sacre Melodie) che sono le Scritture.
Qui si può spingere fino in fondo il pensiero di Papa Paolo VI: «Per assurgere – dice – alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, [il ministero] avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte». Ma non coincide forse esso già nelle planimetrie cruciformi delle antiche basiliche, che da millenni accolgono (quasi essi entrino nella Croce del Gòlgota) i fedeli che vi si radunano per partecipare al crucifero sacrificio e che in tale Croce ricevono dottrina e santità?
Non coincide forse il ministero già con l’illustrazione doviziosa e fragrante delle migliaia di figure di Cristo Sacerdote, Ostia e Pantocratore insegnate dal ministero, dispiegate sulle pareti e sulle volte degli edifici proprio per rendere presenti le meravigliose realtà invisibili rivelate nel ministero e così portarle a sostegno della parola, e più ancora di essa?
Non coincide forse il sacerdozio con l’arte nella stessa più copiosa e artistica ricerca di raffigurare con perizia l’Invisibile e l’Ineffabile, a dimostrazione tattile che conoscere si può, l’Invisibile attraverso il visibile, a dispetto di tutte le dottrine soggettiviste, relativiste e scettiche che con evidente vizio logico vorrebbero portare l’uomo a ‘conoscere che conoscere non si può’ e che dunque pareti e volte delle chiese vanno tutte sbiancate nella cecità di uno scetticismo universale?
Non coincide forse infine il ministero con l’arte nel farci salire su su, per i fili d’oro delle trasalenti melopee gregoriane, fino ai cieli più alti, portandoci quasi a cantare tra angelo e angelo, con le nostre bocche cantando come cantano i cherubini e con le nostre mani a tenere gli spartiti dei serafini, che insegnano che Cristo stesso, Splendore del Padre nel terzo suo sacro nome, non solo «dice» il Padre con la sua divina bocca, ma eleva alto nel canto ciò che nel Padre amatissimo vede con la sua sublime Imago dell’infuocatissimo Essere?
Da duemila anni la Cristianità ha utilizzato a piene mani e con locupletata sovrabbondanza tutte le proprietà offerte dall’Incarnazione, per tutto l’oceanico spazio offerto dalle sue nove Muse condotte dal divino Apollo che è Cristo, in primo luogo le due più significative proprietà di Logos e Imago: il pensiero e il linguaggio. «Ministero e arte», ossia pensiero e linguaggio, sono, riguardo alla Chiesa, come si direbbe oggi, il suo stesso DNA, la sua stessa essenza, perché sono la Notizia da dare e l’Arte espressiva, persuasiva e attraente per darla.
Dov’è – dobbiamo a questo punto chiederci – la necessità che ha spinto Papa Benedetto XVI a citare, dopo quarant’anni, proprio queste parole così teologicamente pregnanti del suo augusto predecessore?
Finemente, con questa peculiare citazione il Papa professore ha forse voluto accennare al fatto che l’incontro tra Chiesa e Arte, teologicamente parlando, potrebbe suonare quasi una tautologia, cari amici artisti, perché la Chiesa, come si è visto, è già di per sé arte: nel Corpo mistico che nei secoli completa l’Incarnazione dei divini Logos-Imago, l’arte avanza e si sviluppa nella Chiesa tanto quanto avanza e si sviluppa il ministero, e si può dire che l’arte avanza e si sviluppa seguendo le stesse ferree regole indicate da san Vincenzo di Lérins nel suo Commonitorio e stabilite per sempre nel Vaticano I per il ministero, ossia sempre «tenendo la stessa credenza, lo stesso senso e lo stesso pensiero», in uno sviluppo di immagini, di simboli, di alzati, procedente nel fondamentale continuum che stabilisce che conoscere e illustrare Dio Trinità in Cristo «si può», e non solo «si può», ma in Cristo «si deve», e guai a non mostrare la conoscenza che si fa in Cristo e per Cristo della Trinità: a Nicea, contro la prima eresia iconoclasta, si dovette alzare un Concilio dogmatico. C’è forse in incubazione una seconda ondata?
Ed è qui che scatta la necessità che si sta cercando: visto che le cose stanno così, e che dunque è spiegata per sua vitale necessità la perennità di atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’insegnamento e della difesa della verità a pari merito dell’insegnamento e della difesa della bellezza, per non dire dell’ulteriore difesa della necessità che si mantenga a tutti i costi l’intima unione delle due, la Chiesa sollecita gli artisti, umili strumenti delle nove Muse, a parlarne, a discuterne con lei, con il suo ministero amico, affinché anch’essi tornino a pareggiare, nelle loro opere, la verità alla bellezza, e a pareggiare in tal modo anch’essi poi le loro opere, la loro propria arte, all’insegnamento e al ministero santificanti della Chiesa.
Papa Benedetto XVI, col Discorso alla Cappella Sistina del 21 novembre, ha aperto in modo amichevole e quasi informale quelli che potremmo chiamare «Gli Stati Generali della Bellezza»: radunando centinaia di artisti da tutto il mondo ha aperto una universale chiamata delle nove dolci Muse a discutere di sé, a guardarsi allo specchio, conoscersi e riconoscersi, quasi a farsi ciascuna il proprio ritratto, o a lasciarselo fare, magari facendosi per l’occasione più belle con nuove acconciature, nuovi gioielli, decori e vesti, e ciò fare con riguardo, con attenzione, con amore e con ogni soavità, ma anche con tutta onestà, com’è naturale per chi si adorna il capo di fiori e tocca coi piedi nudi la rugiada dei prati, affinché tutti percepiscano, vedendo un giorno le nove Muse uscire tutte nuove e aulenti bellezza da questa grande adunanza, che, per parafrasare McLuhan, la bellezza è il messaggio, la bellezza è quella rarità attraverso la quale solo passa lo splendore della verità, la bellezza è la luce della conoscenza; antimessaggio è invece la bruttezza: antimessaggio il graffito, la provocazione, il non senso, l’onanismo estetico, l’informe arbitrio, l’elucubrazione sganciata dalla realtà. Ma la gente è tanto attaccata alla realtà che preferisce morire, morire, pur di non perderla.
La bellezza è il messaggio e la gente lo sa, perché la gente, le pecorelle che noi siamo della Chiesa, sa di aver bisogno di venire e poi restare immersa sempre e dovunque nella bellezza, specialmente nei luoghi dove è la Chiesa, ossia nelle sue chiese – pievi, cattedrali o santuari che siano –, la gente sa di aver bisogno di vestirsi di bellezza, di gioire e quasi nuotare nella bellezza come in un acquario, come se si rivestisse delle vesti delle dolci Muse essa stessa, invece di trovarsi spesso, come mi faceva notare Antonio Paolucci qualche tempo fa, «a entrare in una chiesa spesso più brutta della propria casa».
Una grande discussione, sì, perché non dico l’arte, ma almeno quell’arte-arte che è l’arte sacra, torni a disserrare i cuori alla gente: questo è il punto d’arrivo che si sono prefisse recentemente più di mille persone – certo, una goccia, nel mare del mondo, ma goccia tutta amore, come sa Nostro Signore – di ogni ceto sociale e di ogni parte del mondo, tra cui artisti e architetti sommi, filosofi, scrittori, tutte firmatarie di un appassionato Appello al Santo Padre per il ritorno a un’Arte sacra autenticamente cattolica, ossia perché il Santo Padre senta che la sua paterna sollecitudine anche in questo delicatissimo frangente è scaldata dalla calda adesione al suo dolce richiamo da cento e cento sue pecorelle che, pur non presenti lì nella gloriosa Cappella, però lo erano col cuore, certe che la Chiesa riuscirà a sospingere le nove Muse a cospargere dei loro fiori le nuove chiese dove i piccoli si radunano ogni giorno, lì dove il sacro ministero bussa per farsi visibile e, con quei fiori, e armonie, e ori, e splendori, si veda quasi scendere Cristo a farsi più profondamente e amorosamente adorare.
L’indicazione compiuta dal Papa professore citando accortamente l’ipotesi quarant’anni prima azzardata da Papa Paolo VI porta a farci una domanda: le nove Muse che regalano armonia agli occhi sapranno fare «sacra» l’arte ad augendum Urbis [et Orbis] splendorem et asserendam religionis veritatem, come recita la scritta voluta a metà del settecento da Papa Benedetto XIV sull’ingresso del Museo Cristiano, o si limiterà ad assecondare in qualche modo le mode e i linguaggi del mondo, scivolando e facendo scivolare qualcuno, Dio non voglia, nella sconoscenza della Trinità?
Il dibattito è aperto.
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